Ex Ilva e acquisizione Fca/Psa: le due facce della mediocrità al top di politica e grande industria negli ultimi 30 anni (con qualche eccezione…)

di Filippo Astone ♦︎ Le grandi famiglie imprenditoriali hanno venduto o chiuso le loro aziende. E i Governi non hanno voluto (o saputo) fare politica industriale. Ci restano alcune grandi aziende ad azionariato statale e gli eroi delle medie imprese del Quarto Capitalismo. Mentre il Paese continua a declinare...

Poveri in riva al mare. Picasso

Nel medio termine diventeremo un Paese molto più povero, sottosviluppato e basato su cibo e turismo? Il sospetto non è privo di fondamento. In ogni caso, non è un bel momento per la manifattura italiana. Alla recessione industriale europea, causata prevalentemente dai dazi di Trump e da altri fattori macroeconomici (come abbiamo scritto qui) si aggiungono due notizie gravide di conseguenze negative. La prima è l’acquisizione di Fca da parte di Psa, recentemente comunicata come una fusione “alla pari” (ne abbiamo scritto qui) pur essendo tutt’altro. La seconda è la recente crisi dell’ex Ilva, che vale ben di più dell’1,4% di pil (percentuale calcolata in base al fatturato dell’acciaieria più grande d’Europa) visto il suo ruolo strategico per l’industria italiana (seconda in Europa e settima al mondo) che a sua volta tiene in vita tutto il Paese.

Le due notizie sono la conseguenza prevedibile e a lungo termine dell’inadeguatezza al top di politica e grande industria italiana negli ultimi 30 anni, anche se con qualche rara e non determinante eccezione.







 

Il caso Fca-Psa

La vendita di Fca a Peugeot è provocata dalle decisioni prese dalla famiglia Agnelli-Elkann nell’ultimo quarto di secolo, che non ha investito nemmeno un euro nell’azienda causando l’assenza di tecnologie (auto elettrica, ma non solo…) e modelli indispensabili per competere. Giunti a un certo punto, per sopravvivere e restare sul mercato era inevitabile cedere Fca a un compratore che avesse tecnologie e modelli. Compratore che è interessato soprattutto, forse esclusivamente, alla parte americana del Gruppo, conquistata anni prima senza investire nulla (tanto per cambiare…) ma solo in virtù delle grandi capacità strategico-finanziarie del compianto Sergio Marchionne. E compratore che – paradosso dei paradossi – comunque salva quel poco che è rimasto della Fiat in Italia, che produce meno di 400mila vetture rispetto ai due milioni dei tempi dell’Avvocato Gianni Agnelli.

Quella vendita avrà conseguenze non piccole sull’economia italiana e sul comparto della componentistica auto, che vale circa 90 miliardi di euro e ha raggiunto livelli di eccellenza grazie ai tanti medi imprenditori di talento che hanno innovato e investito, e grazie agli stabilimenti che alcune multinazionali del comparto hanno deciso di insediare nel nostro Paese, in virtù del suo saper fare.

John Elkann, presidente Fca ed Exor. Ha sostanzialmente ceduto Fca al controllo dei francesi di Psa. Foto credits Di Exor S.p.A. – Pagina ufficiale della holding Exor S.p.A. https://www.flickr.com/photos/exor_spa/15419882669/, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36708648

 

I francesi prevarranno

In primo luogo, il noto nazionalismo economico dei francesi (che siedono sulla plancia di comando, esprimendo 6 consiglieri su 11 e l’amministratore delegato) farà sì che i previsti 3,7 miliardi di “sinergie” vadano a detrimento soprattutto della parte italiana della nuova entità, che sarà il quarto produttore di automobili al mondo. Nel breve medio termine, il grande livello di efficienza raggiunto dalle fabbriche italiane (merito della World manufacturing class di cui abbiamo scritto qui e di un indiscusso livello di eccellenza del middle management Fiat) porrà forse i colletti blu al riparo dai tagli, e ad andare a casa saranno soprattutto i quadri, dirigenti e impiegati: ingegneria, marketing, comunicazione, finanza e amministrazione, risorse umane e quel che resta degli headquarter italiani (come già accadde nel caso di precedenti acquisizioni con la regia di Carlos Tavares, nuovo numero uno del super-gruppo Psa-Fca). Sul medio-lungo termine, si vedrà.

Per quanto riguarda i fornitori, non è fuori luogo pensare che ci sarà una razionalizzazione e maggiore concentrazione Oltralpe a discapito della componentistica italiana, tanto che alcune grandi aziende del settore stanno già pensando ora di ridimensionare la loro presenza nel nostro Paese.

Carlos Tavares, ad di Psa e capo del futuro super-gruppo Psa-Fca. L’operazione comporterà sinergie, dove verranno fatte? Con quale impatto per i fornitori che hanno fabbriche in Italia?

 

Da Pirelli a Riva: un catalogo di cessioni e fallimenti

La dinastia Agnelli-Elkann è una delle ultime famiglie del grande capitalismo industriale italiano ad essere rimaste attive. Nel giro di un ventennio, quasi tutte queste famiglie hanno ceduto o fatto fallire la loro storica attività, e spesso il familismo ha prevalso sul capitalismo famigliare. In breve, il catalogo è questo. I Pesenti hanno ceduto l’Italcementi ai tedeschi di Heidelberg. I Merloni l’Ariston agli americani di Whirlpool. I Fumagalli la Candy ai cinesi di Haier. Tronchetti Provera quel che restava della Pirelli ai cinesi di ChemChina. I Lucchini sono usciti dalla siderurgia. I Riva sono stati quella catastrofe per l’Ilva e la siderurgia nazionale che oggi è sotto gli occhi di tutti, purtroppo. E così via, ahimé.

Poteva essere diversa la storia di Fiat-Fca? Si che poteva. A un certo punto, quando era chiaro che Sergio Marchionne avesse risanato il gruppo, gli azionisti avrebbero potuto investire davvero nell’innovazione e puntare a cavalcarla. Ora è tardi per l’auto elettrica, ma nel 2014 si poteva fare, e anche con successo, puntando a unire glamour italiano e tecnologie di frontiera. Ciò che ha fatto con successo Tesla, poteva essere fatto da marchi made in Italy, per esempio Alfa Romeo o Maserati. Ma si decise di no, preferendo per esempio puntare sulle assicurazioni, come ha fatto Exor nel 2015, spendendo 6,4 miliardi per comprare Partner Re.

Romano Prodi, presidente del Consiglio negli anni 96-98, 2006-2008. È stato protagonista della stagione delle privatizzazioni, che ha comportato sul medio e lungo periodo le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti

 

Campioni statali e Quarto Capitalismo

Scomparso con grandi costi per la collettività il poco che era rimasto di grande capitalismo, oggi il Paese si regge su grandi campioni ad azionariato statale (Eni, Enel, Finmeccanica-Leonardo ma anche Ansaldo Energia, Fincantieri e altre eccellenze) e soprattutto sulle medie imprese del Quarto capitalismo. Aziende manifatturiere che si sono inventate la nicchia in cui eccellono nel mondo, che investono in ricerca e sviluppo, esportano e si internazionalizzano, crescono, hanno fortuna. L’ufficio studi di Mediobanca le ha catalogate e le segue con passione da anni. Sono circa quattromila imprese, fra le quali si possono ricordare i nomi di Mapei, Geox, Brugola, Balocco, Datalogic, Grafica Veneta, Bracco, Brembo, Tod’s, Nice, Carel e tanti altri. Basteranno questi eroi dell’imprenditoria a mantenere competitivo tutto il Paese? Anche qui, è lecito qualche dubbio, anche perché attorno a loro o sotto di loro si muovono decine di migliaia di piccole aziende tutt’altro che competitive e basate su ricerca e sviluppo.

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Claudio Descalzi, ad di Eni, la maggiore azienda italiana, nonché una di quelle più redditive e con più ricadute a livello di benefici industriali e di filiaera. È controllata dallo Stato e da vari investitori di Borsa

 

Privatizzazioni miseramente fallite

Ma in questa crisi di sistema non emergono solo le responsabilità del vecchio e non più glorioso grande capitalismo famigliare italiano. Ci sono anche quelle della politica dagli anni Settanta in poi, che ha rinunciato a fare politica industriale oppure l’ha fatta molto male, come è avvenuto con le privatizzazioni degli anni Novanta, quando l’Ilva, Autostrade e tante altre aziende sono state cedute ai privati. L’idea (l’utopia?) dei vari Romano Prodi, Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Piero Barucci era di dare uno stimolo decisivo – attraverso la cessione delle aziende di Stato a prezzi magari bassi ma sostenibili dagli acquirenti – alla creazione di un mercato capitalistico moderno. I risultati sono stati fallimenti e macerie, con la Telecom svuotata e ceduta agli stranieri (unico caso nel mondo occidentale), il caso Autostrade, l’Ilva e tante altre tristi storie.

Giorgio Squinzi, appena scomparso, per tanti anni a capo della Mapei, azienda eccellente (2,5 miliardi di giro d’affari e oltre 10mila dipendenti), che ha costruito partendo da una piccola base. È il miglior simbolo delle medie imprese del Quarto Capitalismo, che rappresenta (insieme ad alcuni grandi campioni ancora a controllo statale) la parte più dinamica dell’economia italiana e quella grazie alla quale è possibile immaginare un futuro

 

L’incapacità di fare politica industriale

Poi non si è più osato parlare di politica industriale, in parte perché si sposava il luogo comune sbagliato che significasse dirigismo economico di stampo semicomunista, in parte perché, semplicemente, mancava un’idea di Paese, idea che rappresenta un prerequisito essenziale per qualsiasi azione di questo tipo.

Eppure, mentre i nostri politici si titillavano con la convinzione che il mercato da solo risolvesse ogni cosa (da qui anche l’atteggiamento di non voler interferire sul destino di Fca, mentre i francesi si agitavano assai per i loro grandi campioni automobilistici) la maggior parte degli altri Stati occidentali la politica industriale la faceva eccome.

 

Il successo economico di Usa e Germania si deve a politiche industriali ben orchestrate

E non si trattava né di statalismo, né di sovvenzioni a pioggia, né di clientelismo e tantomeno di comunismo. Ma di stabilire coinvolgendo tutti gli attori (Stato, regioni, università, aziende, sindacati) quali fossero i settori industriali e merceologici più promettenti su cui puntare. Quindi darsi degli obiettivi. E poi cercare di perseguirli indirizzando investimenti in ricerca e sviluppo e innovazione (i famosi “capitali pazienti” di cui parla Mariana Mazzucato nel bel libro Lo Stato Innovatore, pubblicato da Laterza nel 2014), di usare la leva fiscale e di concertare una serie di azioni. Il successo economico della Germania e degli Stati Uniti degli anni recenti si spiega soprattutto con le politiche industriali volute da Angela Merkel e Barack Obama. L’idea stessa di Industria 4.0, per esempio, è stata concepita nell’ambito della “High  Tech Strategy for Germany”, il programma di politica industriale varato nel 2011.

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Il cancelliere tedesco Angela Merkel

 

Manca un’idea di Paese

Da noi, poco o nulla. Anche perché manca un’idea di Paese. Manca sostanzialmente a tutti gli attori politici, che sono capaci sono di trovare tamponi alle emergenze. Il caso Ilva è un esempio molto chiaro di questo. Che idea ha il Governo di Giuseppe Conte sulla siderurgia italiana e in generale sul sistema produttivo? Domanda senza risposta. Mentre la più grande fabbrica d’acciaio d’Europa sempre destinata sì a sopravvivere, ma ridimensionata e sulle spalle dei contribuenti.

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Il suo Governo non ha manifestato idee precise né di politica industriale né sul futuro della siderurgia. La vicenda ex Ilva (come molte altre) è trattata come un’emergenza da risolvere senza alcun disegno strategico

Grandi famiglie industriali e attori politici. Le due facce del declino italiano. Ci salveranno (forse) le medie aziende del Quarto Capitalismo.














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