Tutti i problemi di Fca

di Marco de' Francesco ♦︎ Anche se la crisi Covid-19 ha fatto crollare tutto il mercato, le vendite Italia ed Europa del Lingotto sono ai minimi storici. Ricavi e utili diminuiscono, e il titolo scende in Borsa più della media di mercato. Mentre è probabile una revisione degli accordi con Psa e una revisione del dividendo. Appuntamento al 5 maggio, quando usciranno i risultati del primo trimestre 2020

Con questa operazione Exor - la finanziaria degli Agnelli-Elkann che è secondo azionista di Stellantis, separa definitivamente i propri destini da quelli di camion e furgoni - dopo aver tentato di venderli per qualche anno, con fitte trattative poi tramontate coi cinesi di Faw. Exor resta azionista di maggioranza di Cnh Industrial

L’attesa è per il 5 maggio, fra pochi giorni, quando verranno presentati i risultati consolidati del primo trimestre 2020. Con ogni probabilità, ci saranno numeri emergenti in terreno negativo sul fronte Europa e Italia in particolare. Ha colpito, per esempio, l’ulteriore crollo della quota di mercato in Italia nel marzo 2020, scesa ormai al 16,64% rispetto al 24,76% dello stesso mese 2019. E non solo per colpa del Coronavirus.

Certo, l’epidemia ha fermato l’auto, sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Hanno chiuso i battenti molti stabilimenti produttivi, i supplier, le concessionarie; e molte famiglie hanno sperimentato l’erosione della propria capacità di spesa. Ma Fca continua a perdere quota di mercato in Italia e in Europa; e non brilla particolarmente neppure nella roccaforte statunitense. Anche in Borsa il titolo tracolla, passando dagli 11,24 euro di fine febbraio ai 7,35 euro attuali. Certo, sono scesi anche gli altri carmaker, ma non così tanto come Fca. Per esempio Psa nello stesso periodo è passata da 17 euro a 12,2.







 

La verità è che Fca, soprattutto per il mercato europeo, presenta una gamma incompleta, non all’avanguardia, e in certi casi vetusta e non competitiva.

Mike Manley, ceo Fca

È il risultato di quasi un decennio di politica “partigiana” in fatto di investimenti, per lo più dirottati a Detroit, mentre in Europa e in Italia in particolare si perseguiva la pratica del rigore sui conti in assenza di investimenti – che ha determinato un delta tecnologico rispetto ad altri carmaker, il deprezzamento dei marchi italiani e, in definitiva, una minore resilienza nella disgrazia. Secondo il memorandum of understanding siglato sei mesi fa con Psa in vista della “fusione”, sia il carmaker francese che il colosso italoamericano guidato dal Ceo Micheal Manley dovrebbero distribuire un dividendo ordinario ai rispettivi azionisti. Che per Fca dovrebbe essere di 1,1 miliardi, contemporaneamente a quello straordinario da 5,5 miliardi che gli Agnelli-Elkann si metteranno in tasca per “riequilibrare i pesi” dopo la fusione.

A Rueil-Malmaison, vista la situazione, l’idea del dividendo ordinario non piace più: i capitali dovrebbero infatti servire per praticare grossi sconti per gli acquisti, in modo da riavviare la domanda. E comunque in questo periodo di crisi storica tutti i grandi gruppi industriali stanno rinunciando in tutto o in parte al dividendo per lasciare in azienda denari destinati agli investimenti per ripartire. Perché Fca non dovrebbe farlo? E così i francesci stanno chiedendo al Lingotto di concordare un ribasso del dividendo. Come finirà? Potrebbe essere la prima frattura sulla strada del merger? Presto per dirlo. Anche se è molto probabile che gli accordi di fusione vengano rivisti.

 

Fca e il mercato dell’auto

Marzo è stato un mese spaventoso, per il mercato italiano dell’auto; che è tornato all’improvviso ai livelli dei primi anni Sessanta. Di immatricolazioni se ne sono registrate 28.326 a fronte delle 194.302 dello stesso mese del 2019, pari a un calo dell’85,4%. I dati sono quelli del ministero dei Trasporti. Pur nell’ambito di vendite ridotte, ancora più in basso è finita Fca, che ha immatricolato 4.649 auto, contro le 48.109 dello stesso periodo dello scorso anno. In questo caso, la percentuale è in terreno negativo per il 90,3%. Anche la quota di mercato, come si è già detto, è scesa in modo pesante: dal 24,7% al 16,4%. È la fetta più sottile fatta segnare dal Lingotto in tutta la sua storia.

La Panda è tra i modelli più venduti in Italia nel trimestre 2020 da tutte le case automobilistiche

Nel primo trimestre sono state vendute in Italia 347.193 auto, il 35,4% in meno dello stesso periodo del 2019. Fca ha fatto registrare 85.875 immatricolazione, con un calo tendenziale del 35%, ma con una quota di mercato in lievissimo aumento: dal 24,5% al 24,7%. Fca ha comunque piazzato cinque suoi modelli tra quelli più venduti in Italia nel trimestre da tutte le case automobilistiche: la Fiat Panda al primo posto, la Lancia Ypsilon al secondo, la Fiat 500 al quarto, la Fiat 500X al quinto e la Jeep Renegade al sesto. La Lancia Ypsilon è risultata l’auto più venduta nel suo segmento. Ai primi posti del proprio segmento anche l’Alfa Romeo Stelvio e la Fiat 500L.

Secondo dati Acea, l’associazione europea dei carmaker, nel 2019 Fca ha venduto nel Vecchio Continente 946.571 auto, con un calo del 7,3% rispetto all’anno precedente. La sua quota di mercato è passata dal quinto all’ottavo posto, essendo stata superata da Bmw, Daimler e Ford. Il mercato europeo è dominato dal gruppo Volkswagen, che ha fatto registrare 3,8 milioni di immatricolazioni, il 3,3% in più rispetto al 2018. Come vedremo, il mercato più importante per Fca è quello americano: il gruppo, gli utili li fa qui. Ma il 2019 non è stato un anno particolarmente felice per il Lingotto: ha venduto 2,2 milioni di auto, con un calo dell’1% rispetto al 2018. Va detto che il mercato Usa, l’anno scorso, ha fatto registrare un rallentamento.

 

I conti di Fca: in diminuzione su tutti i fronti

Jeep Motore T3

Fca ha chiuso l’esercizio 2019 con performance finanziarie in calo. I ricavi sono stati pari a 108,2 miliardi di euro, il 2% in meno rispetto ai 110,4 miliardi del 2018. È sceso anche il reddito operativo, da 6,74 miliardi ai 6,67 miliardi del 2019.  È diminuito visibilmente l’utile netto delle operazioni continue, da 3,3 miliardi a 2,7 (- 18,1%), ed è sceso anche quello adjusted, da 4,7 miliardi a 4,3 (- 8,5%). Gli obiettivi per il 2020 contemplavano un reddito operativo adjusted superiore ai 7 miliardi, ma le possibilità di raggiungere questo traguardo sono attualmente pari a zero.

 

Origini della crisi italiana ed europea del gruppo

Occorre fare un salto nel recente passato, per capire gli eventi attuali. Bisogna tornare ai tempi della fusione tra Fiat e Chrysler,  e anzi un po’ prima, nel 2004, quando il Lingotto si trovò sull’orlo del baratro, con una perdita di oltre un miliardo di euro in un solo esercizio. Alcuni lo consideravano «tecnicamente fallito». L’anno dopo, General Motors aveva accettato di pagare 2 miliardi di dollari a Fiat per non essere costretta a subentrare nel suo business auto in difficoltà (tra le due aziende esisteva, da qualche anno, una partnership); si risolveva una disputa che poteva sfociare in una battaglia legale. Il New York Times, nell’occasione, aveva implicitamente indicato il Ceo del Lingotto Sergio Marchionne come il vincitore della contesa, perché «l’accordo aveva un costo significativo per GM»; ma anche sottolineava le condizioni di salute del settore auto della Fiat: «Il pagamento è inferiore a un quinto degli oltre 10 miliardi di dollari di debito che GM rischiava di doversi assumere».

Il sito Fca di Mirafiori

In queste condizioni, il compito di Marchionne era quello di rimettere a posto i conti, di risanare Fiat dal punto di vista finanziario, più che promuoverne lo sviluppo industriale e tecnologico. Un task che il manager abruzzese era chiamato a svolgere a prescindere dal sostegno economico dalla casa madre. Doveva, cioè, trovare una soluzione per traghettare Fiat fuori dalle paludi del fallimento senza un ricorso ai soldi degli azionisti. Impresa che Marchionne portò avanti in maniera esemplare. Già nel 2009 aveva annunciato un preliminare non vincolante con Chrysler per acquisire il 35% della casa automobilistica; operazione a costo zero, dal momento che si prendeva un prestito dal governo americano; e, secondo gli accordi, dopo la restituzione Fiat avrebbe potuto aumentare la sua quota in Chrysler. Cosa che avvenne nel gennaio 2014, con l’acquisizione della totalità delle azioni del carmaker americano. In realtà c’era di mezzo il passaggio di brevetti e know-how. Caso volle che al centro della campagna elettorale di Barack Obama ci fosse la questione ambientale: questi subordinò prestiti e accordi alla produzione, in America, di  auto a basso impatto ambientale e con motori di piccola cilindrata, sul modello europeo. È l’inizio di una politica, che porterà la nuova creatura, Fca, ad incarnare il modello americano. Ad investire negli Usa 14,5 miliardi per creare lì 30mila posti di lavoro, mentre in Italia e in Europa il gruppo ha perseguito la linea del rigore finanziario. Oltre a non aprire il portafoglio, Fca ha venduto gioielli di famiglia nazionali strategici: si pensi a Magneti Marelli, multinazionale della componentistica (rifornisce a livello globale i colossi dell’automotive di cambi, sospensioni, quadri di bordo, sistemi di illuminazione e di tanto altro) che è stata acquisita dalla giapponese Calsonic Kansey – che occupa la metà dei dipendenti della prima. Fca ha consolidato la capacità produttiva degli stabilimenti di Detroit a scapito di quelli italiani. I marchi nazionali non sono stati valorizzati, e questo ha determinato un rilievo sempre minore di Fca nei contesti italiano ed europeo. Negli ultimi anni, la quasi totalità degli utili è stata realizzata nel Nuovo Continente, con Jeep, Ram, Dodge con Suv e pick-up.

 

Due conseguenze dirette della politica di Fca: il delta tecnologico rispetto agli altri carmaker si è approfondito negli anni

Fiat 500 full electric

Le amministrazioni centrali e territoriali di mezzo mondo hanno posto limiti alla circolazione dei veicoli diesel, sotto accusa a causa delle emissioni di ossidi di azoto. In realtà tutto nasce da uno scandalo del 2015, quando l’Epa (l’agenzia statunitense per la protezione ambientale) ha comunicato che la casa automobilistica tedesca Volkswagen ha illegalmente installato un software di manipolazione progettato per aggirare le normative ambientali sulle emissioni. Le case automobilistiche hanno reagito virando, inizialmente, sulle auto a benzina; e al contempo hanno iniziato a sviluppare piattaforme per la produzione di veicoli green. Volkswagen ha destinato 30 miliardi all’elettrico, su 43 complessivi del piano di investimenti del carmaker tedesco: entro il 2028 Wolfsburg lancerà 70 nuovi modelli elettrici. Ma già dispone di auto circolanti a emissioni zero: si pensi alla compatta full-electric ID. O all’Audi e-tron, che peraltro può essere integralmente configurata dal cliente dal computer di casa. Ecco, di fronte a questo movimento epocale, Fca è rimasta a lungo inerte. Il delta tecnologico rispetto ad altri carmaker si è approfondito negli anni. Nella primavera del 2019 è emerso un piano di investimenti di 5 miliardi, destinati a interventi nel green, e presi direttamente dalle casse dell’azienda, senza alcun aumento di capitale da parte degli azionisti, come da tradizione di famiglia. Attualmente, sono in corso le pre-serie della 500 elettrica, le first edition dei modelli ibridi della Jeep Renegade e Compass, nonché l’elettrificazione di macchine come l’Alfa Romeo Giulia GT Junior, che doveva debuttare al Goodwood Festival of Speed – che però è stato rinviato a causa della pandemia da Coronavirus.

Jeep Renegade Hybrid plug-in

La prima ibrida della Maserati sarà invece la Ghibli, che con la nuova propulsione sarà lanciata sul mercato nel 2021. Insomma, si assiste ad un certo ritardo. Ciò può trovare più spiegazioni. La prima è che se si punta tutto sul mercato americano, il tema green è assai meno rilevante. Lo stesso Sergio Marchionne sosteneva che l’auto elettrica costava troppo e che pertanto non avrebbe mai trovato un mercato. La seconda è che, in attesa di una partnership importante, non si è voluto aprire il portafoglio; e anzi si è cercato un partner più avanzato in materia, prima di fare qualcosa. La seconda conseguenza della politica “americana” di Fca è stata l’incompletezza della gamma “europea”, relativamente ad alcuni marchi importanti. Si pensi ad Alfa Romeo, “scoperta” in alcuni segmenti di mercato. Il Suv “Tonale” entrerà in produzione soltanto nella seconda metà del 2021. Sarà un’auto ibrida plug-in, prodotta nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, dalle parti di Napoli. I modelli sul mercato, poi, sono tutti molto sportivi. Manca una familiare che completi l’offerta. In generale, poi, Fca non ha puntato sui prodotti Premium, che sono quelli che garantiscono la più alta marginalità. E sembra aver rinunciato anche alla linea mass-market: con la chiusura della stagione della Punto e della Tipo, restano solo la Panda e la 500. Per fare un esempio, la Toyota continua a  produrre anche macchine di piccole dimensioni, come la Aygo e la Yaris.

 

I primi dubbi di Psa sulla “fusione”

Carlos Tavares, nuovo numero uno del super-gruppo Psa-Fca

A dicembre del 2019, Fca e Psa hanno siglato un memorandum of understanding, in vista della fusione che dovrebbe portare alla nascita del quarto costruttore al mondo con 8,7 milioni di auto vendute. Per la verità, sembra più un’acquisizione da parte del gruppo francese: i rappresentanti di Peugeot infatti avranno sei consiglieri di amministrazione su undici, l’amministratore delegato (Carlos Tavares) e la sede operativa. Gli italiani avranno invece cinque consiglieri di amministrazione e un Presidente (John Elkann) con deleghe ancora non definite. Fca è interessante per i francesi soprattutto perché porta in dote il ricco mercato americano, nel quale Peugeot e gli altri marchi del gruppo sono sostanzialmente assenti. Psa è interessante, per Fca, perché dispone di quelle piattaforme sull’elettrico che potrebbero essere utilizzate dal Lingotto. Psa riconosce ai soci Fca un premio di 6,7 miliardi di euro, pari a + 32% rispetto alle quotazioni precedenti. Inoltre, Fca prima dell’acquisizione erogherà ai suoi azionisti un dividendo straordinario di 5,5 miliardi (1,6 miliardi finiranno direttamente nelle tasche dell’Exor degli Elkann). Solo che in Francia, secondo fonti diverse, iniziano a circolare i primi dubbi sui tempi di chiusura dell’operazione.

La verità è che con la serrata degli stabilimenti, anche Psa incontra forti problemi di liquidità: in cassa ci sarebbero un po’ meno di dieci miliardi di euro, e destinarne più della metà in dividendi sembra assai azzardato. Ora, Il Sole 24 Ore riporta che il direttore finanziario di Psa, Philippe De Rovira, ha dichiarato che «i due gruppi decideranno insieme se e in che misura distribuiranno la cedola ordinaria ai proprio azionisti». E che «l’intesa con Fca sulla fusione prevede la distribuzione di un eguale dividendo per entrambe le società: ogni cambiamento deve essere concordato». In sintesi, per procedere alla fusione, Psa punta ad una forte riduzione del dividendo: non è chiaro come questa notizia sia stata accolta dalle parti del Lingotto. Si capirà a giugno, quando le parti dovrebbero trovare un accordo sul punto. Intanto il Lingotto ha deciso di prelevare liquidità da linee di credito pre-esistenti e non utilizzate: la somma, a quanto riporta L’Economia, dovrebbe attestarsi a 7,7 miliardi di euro. Una cifra considerevole, ma forse neppure bastevole a far ripartire la produzione e le vendite.

Va ricordato che l’operazione Fca-Psa non è una funzione alla pari come è stato dichiarato ufficialmente ma è nei fatti una vendita, come abbiamo scritto qui e qui.

 

Una grossa questione di denaro sulla filiera automotive italiana

Linea di assemblaggio in stabilimento Fca

In un contesto consapevole, forse la questione del dividendo non si porrebbe neppure. L’automotive vale il 6% del Pil nazionale; il sistema Fca il 3%. È evidente che lo Stato dovrà investire pesantemente in questa industria, per rilanciare il comparto e l’intero settore manifatturiero italiano. La crisi è duplice e completa, come non era mai accaduto: riguarda l’offerta, con la chiusura degli stabilimenti, delle officine di manutenzione e dei rivenditori, e con l’interruzione delle filiere; e la domanda, con le famiglie e le aziende che hanno assistito ad un drammatico calo delle proprie risorse. È peraltro inimmaginabile che il sostegno riguardi solo le auto green, che rappresentano una percentuale ancora inconsistente del mercato e che sono più costose delle altre, per cui si faticherà non poco a venderle in questo contesto.

L’industria automobilistica, d’altra parte, è molto efficiente: anzitutto deve liberarsi dello stock dell’invenduto. Qualche giorno fa Fca ha dato vita alla Live Week, iniziativa che terminava il 18 aprile. Si poteva scaricare un coupon promozionale per l’acquisto di una Fiat, un’Alfa Romeo, una Jeep, una Lancia o altri marchi del Lingotto. Con sconti mai visti: fino a 9mila euro per una Giulietta o ai 15mila per un Grand Cherokee. Di coupon ne sono stati scaricati 7mila. È evidente che occorreranno tante operazioni del genere per riavviare la domanda. Non è chiaro quanto tutto questo costerà, perché gli analisti prevedono una pessima prosecuzione del 2020: secondo il Centro Studi Promotor continueranno i cali tendenziali, e l’indicatore di fiducia è piombato dal 25,10 di febbraio a 4,30 di marzo. E poi le case automobilistiche dovranno anche sostenere, in qualche modo, i rivenditori, che sono in crisi più di loro e che hanno bisogno di una immediata iniezione di liquidità.














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