L’Italia non ha una politica industriale credibile da quasi 40 anni? Ma c’è chi c’ha provato…

di Adolfo Battaglia ♦︎ Per l'ex ministro dell'Industria Adolfo Battaglia (governi Goria e De Mita) la politica industriale non si fece per la sordità dell'ultima Dc rispetto all'esigenza di costruire assetti strutturali di tipo europeo. Battaglia rivendica i suoi tentativi. E il corposo lavoro della commissione presieduta da Roberto Valcamonici, con anche Gianfilippo Cuneo, Riccardo Gallo, Carlo Mario Guerci, Lorenzo Necci, Luigi Spaventa, Gustavo Visentini. Gli rispondiamo

Adolfo Battaglia

Da anni, in vari articoli (l’ultimo qui su Industria Italiana) e perfino libri, io scrivo che larga parte dei problemi e delle arretratezze dell’economia italiana si spiega con l’assenza di una politica industriale credibile e strutturata. L’ex ministro dell’Industria ci ha spedito una lettera che pubblichiamo volentieri, per far riflettere i lettori e alimentare il dibattito.

Adolfo Battaglia è stato un intellettuale e un politico repubblicano di valore, e sicuramente ha provato a fare qualcosa. Alcuni dei suoi provvedimenti (l’abolizione dell’amianto, la benzina verde, l’inizio dell’Antitrust) sono sicuramente fra i momenti migliori della storia del suo Dicastero. Nella sua lettera, prima ci dice che è inesatto il fatto che questa politica industriale non ci sia mai stata, poi elenca in modo appassionato i suoi tentativi. Ma finisce con ammettere che non solo questi tentativi non portarono ad alcunché di concreto, ma che non furono nemmeno particolarmente considerati. Ora, purtroppo la storia è scritta coi fatti, e non con i tentativi privi di successo e ormai dimenticati (tra i quali quelli dell’ex ministro repubblicano non furono certo i soli, ci riprovò in due inutili fasi anche l’ex ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani).







Battaglia ne ascrive la responsabilità alla miopia degli ultimi governi Dc, quelli di De Mita e Andreotti, con quest’ultimo che, ricordiamo noi, era giunto perfino a teorizzare il tirare a campare (“è meglio tirare a campare che tirare le cuoia” fu tra le sue frasi più celebri e ricordate di quel periodo). Ora, certamente tale miopia ci fu, ma i loro predecessori e successori non erano certo migliori in quanto a capacità di visione del futuro e volontà di costruire uno sviluppo economico futuro. L’unica visione fu quella degli anni di Ciampi e Prodi e D’Alema, che teorizzavano la costruzione di una moderna economia di mercato italiana attraverso una nuova generazione di capitalisti/imprenditori creata con le privatizzazioni. Questa illusione produsse i risultati in buona parte disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti, da Autostrade a Ilva e Telecom Italia.

Ma veniamo alla lettera di Battaglia.

F.A.

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Gentile dr. Astone, mi scusi se mi permetto di scriverLe pur non avendo il piacere di conoscerLa. Il fatto è che proprio in questi giorni mi è accaduto di leggere una Sua recensione di qualche anno fa, trovata tra le mie carte e dedicata all’eccellente volume di Marianna Mazzucato Lo Stato innovatore. È senza dubbio una bella recensione, che mette molto bene in luce l’importanza e il carattere innovativo del lavoro dell’economista. Tuttavia nel suo articolo si legge anche una affermazione che mi tocca sotto il profilo personale: “L’Italia non ha una politica industriale credibile e strutturata da almeno quarant’anni”. E questo è certamente inesatto.

Marianna Mazzucato

Dalla metà dell’87 al marzo ’91, in effetti, ebbi la ventura di dirigere il Ministero dell’Industria in tre differenti Governi: e una delle mie prime preoccupazioni, accanto al modo di superare il blocco del nucleare determinato dall’esito del referendum popolare, fu proprio quella di riuscire a definire una politica industriale misurata sulla condizione italiana. Il risultato del lavoro che in materia fu compiuto fu poi pubblicato nel 1989 in un volume delle edizioni Laterza: Nella competizione globale – Una politica industriale verso il duemila; a cura di A. Battaglia e R. Valcamonici. Roberto Valcamonici era un alto funzionario della Banca d’Italia, per il quale Ciampi cortesemente accettò la mia richiesta di trasferimento al Ministero in mio supporto: e il volume è appunto il frutto del lavoro condotto al Ministero sotto la sua direzione scientifica, che si giovò di numerosi apporti, non soltanto degli autori degli importanti saggi pubblicati ma anche di contributi di differenti personalità e di amici personali. Accanto al mio staff cui presiedeva allora Enzo Bianco, ebbero qualche parte Gianfilippo Cuneo, Riccardo Gallo, Carlo Mario Guerci, Mario Giannoni, Giuliano Mussati, Lorenzo Necci, Alberto Pera, Fabio Pistella, Ambrogio Puri, Luigi Spaventa, Gustavo Visentini; mentre numerosi Enti ed Istituzioni economiche, a cominciare dalla Banca d’Italia, misero a disposizione uomini, informazioni e dati statistici. Un lavoro, come è intuibile, di largo raggio, prodotto da un insieme di energie intellettuali di prim’ordine. I due scritti che precedono i singoli saggi (La classe politica e il mercato moderno, che è mio; e La politica industriale nella competizione globale, impostazione e contenuti, che è di Valcamonici) fissano oltretutto concezioni generali e direttrici di marcia che probabilmente restano ancora oggi, in buona parte, valide oltre che attuali. Le mando copia del primo scritto e Lei mi dirà, se ritiene, il Suo giudizio.

Palazzo Koch, Roma, la sede di Bankitalia ( photo by Lalupa)

Immagino, peraltro, che ci si possa domandare come mai un lavoro di quello spessore, pubblicato in un libro di 450 pagine, che ebbe due edizioni, e che certamente riempiva un vuoto, non soltanto non riuscì ad affermarsi nella vita del Governo ma neppure ebbe, per la verità, eco sufficiente. È una domanda che esigerebbe anzitutto la valutazione di uno storico: di uno studioso in grado di rendere efficacemente il clima, il tipo di partito e i percorsi politici di quel tempo. Comunque, certo è che – fallito con l’assassinio del leader della Dc il tentativo di Moro, La Malfa e Berlinguer di creare un sistema politico del tutto diverso da quello ormai fatiscente – la prima Repubblica si avviava in quegli anni alla sua fase finale di declino. E peraltro, proprio nella legislatura 1987-1992, si ebbe ancora un ultimo tentativo delle residue forze politiche del mondo cattolico di riprendere in mano la situazione. Fu un tentativo che si espresse, prima, con la segreteria e la Presidenza del Consiglio di De Mita, poi con la leadership e la Presidenza del Consiglio di Andreotti. E per l’esperienza che, per così dire, mi feci sul campo in quegli anni, posso dire senz’altro che, nelle rilevanti differenze tra i due, c’era tuttavia un’analoga sordità rispetto all’esigenza di costruire assetti strutturali di tipo europeo. In altri termini, i loro riferimenti culturali erano del tutto inadeguati: e disconosciuti erano i problemi e le esigenze della società industriale che, nel bene e nel male, si era venuta formando in Italia. (I Governi successivi a quelli di Goria, De Mita e Andreotti nei quali tenni il Ministero dell’Industria, cioè i Governi Amato e Ciampi, salvarono il salvabile. Ma la caduta della prima Repubblica era segnata, come del resto era stato da alcuni lucidamente previsto da parecchi anni).

È questo a mio parere, in termini del tutto sommari, il background in cui nacque il tentativo di nuova politica industriale, delineata e teorizzata nel documento di cui dicevo. Fu elaborata, ben s’intende, nella disattenzione della stampa e dell’opinione pubblica, interessate a più eclatanti questioni; e nella diffidenza, nell’incomprensione e talora l’avversione delle forze dominanti il Governo e il Parlamento.

Giovanni Goria, presidente del Consiglio dei ministri 87/88

Il lavoro fatto al Ministero dell’Industria, tuttavia, non fu scarso. Affrontammo, anzitutto, tre capisaldi della politica industriale. Il primo è la legge che istituisce anche in Italia la cosiddetta Autorità Antitrust a tutela del mercato che infine, dopo sforzi infiniti e resistenze sotterranee, mi riuscì di far approvare. Il secondo fu il nuovo piano energetico, che suppliva alla caduta del nucleare italiano e invertiva il rapporto tradizionale tra industria ed ambiente, facendo di questo non un limite o un vincolo ma un bene primario da tutelare nella creazione degli insediamenti energetici. Il terzo fu una legge organica per la piccola industria che realizzava nuovi e più moderni strumenti a disposizione delle aziende, intesi alla loro crescita dimensionale e alla massima utilizzazione della ricerca scientifica e tecnologica. Infine, la battaglia per la salvezza del nucleare attraverso il mantenimento di un apposito “presidio” produttivo: con un ddl che in Consiglio dei Ministri fu sostenuto dal Presidente del Consiglio, Goria, e dai ministri della sinistra Dc, ma fu sciaguratamente bloccato dal voltafaccia della maggioranza della delegazione democristiana, capeggiata da Fanfani, che mirava ad una nuova intesa tra la Dc e il Psi da lui diretta.

Del resto, per dirLe il clima in cui si lavorava, ho ancora il ricordo dello scontro che ebbi in due successivi Consigli dei Ministri col titolare delle Partecipazioni Statali, il quale pretendeva di non applicare alle imprese pubbliche la legge sulla libertà di mercato! E mi rimane ancora come un incubo la discussione nella Commissione parlamentare della legge sulla piccola industria: il cui testo fu stravolto dal congiunto impegno del gruppo democristiano e del gruppo comunista, alleati nell’alterarla con l’estendere le sue norme, indiscriminatamente, non solo a tutte le imprese industriali, ma anche al commercio, e perfino all’artigianato: e privandola così, in sostanza, di ogni impatto.

Giulio Andreotti, tra i principali esponenti della Dc. Presidente del Consiglio dei ministri 72/73, 76/79, 89/92

Ricordo inoltre, alla rinfusa. La revisione delle norme e del lavoro relativi alla concessione dei contributi finanziari alle imprese industriali con una vigorosa stretta sulla correttezza del lavoro amministrativo. L’inizio di liberalizzazione del commercio, con la revisione delle tabelle merceologiche e la spinta ad estendere le superfici di vendita e la despecializzazione delle imprese. L’ammodernamento dei mercati all’ingrosso, eliminandone le strozzature e introducendo principi di concorrenza. La creazione del nuovo sistema di taratura, determinando i nuovi campioni nazionali di riferimento di tutti gli strumenti di misura comprese le radiazioni ionizzanti e la radioattività. Il rilancio dell’artigianato, con due Conferenze nazionali dedicate ai suoi problemi e una grande Mostra nazionale organizzata a Roma. La prima Conferenza nazionale italiana sul cambiamento climatico, di cui fu relatore uno scienziato americano della Nasa. L’introduzione della benzina verde. Il varo della legge mineraria e la proibizione dell’amianto.

In linea più generale, potrei forse dire che l’opera svolta in quei tre anni e mezzo fu orientata all’esigenza di immettere cultura nell’alta amministrazione, come mezzo per contrastare politiche troppo spesso determinate dagli interessi dei partiti, o di specifici gruppi sociali o addirittura di persone. I provvedimenti adottati o proposti avevano, in sostanza, un retroterra di patrimonio informativo e di analisi: nella convinzione che lo sviluppo è in primo luogo frutto della crescita della cultura che vi presiede. Naturalmente, non tutte le proposte formulate in quegli anni trovarono attuazione: costituirono comunque un insieme di idee e di suggerimenti da cui fu poi possibile attingere.

Perdonerà, gentile dr. Astone, la lunghezza di questa lettera: che è stata per me la prima occasione, dopo tanti anni, per ripensare complessivamente il lavoro fatto nel tempo in cui fui ministro dell’Industria. Può convenire che si trattò, probabilmente, di un lavoro non indifferente?

 

Adolfo Battaglia

 

P.S. Forse non è inutile ricordare che, dopo i due scritti iniziali di cui sopra dicevo, gli scritti che integravano il volume su questioni specifiche, erano dovuti, nel 1988, a economisti i cui nomi sono poi comparsi con autorità nel dibattito economico del trentennio successivo. Si trattava, per la precisione, di: Sergio Mariotti; Stefano Vona; Marco Committeri e Fabrizio Palmisani; Fabrizio Barca e F.M. Frasca; Mauro La Noce; Giovanni Scanagatta; Alfredo Del Monte e Adriano Giannola; Luigi Prosperetti; Stefano Mieli; Giovanni Mussati e Chiara Terracciano. I temi affrontati, col corredo di larghi riferimenti bibliografici, furono: Il processo di internazionalizzazione dell’economia. Il cambiamento tecnologico e la politica industriale. I cambiamenti nella struttura della produzione e nel commercio mondiale e la posizione dell’Italia. Le politiche dei maggiori paesi CEE in vista del mercato unico. Il risanamento e le prospettive di sviluppo dell’industria italiana. Le linee di intervento delle politiche di incentivazione industriale dal 1970 al 1987. L’attuazione degli interventi di politica industriale per le piccole e medie imprese. I problemi dello sviluppo industriale del Mezzogiorno e i loro riflessi nella determinazione del quadro di politica industriale. Il controllo dell’efficienza e della qualità dei principali servizi pubblici. I canali di finanziamento delle imprese italiane. Il collegamento fra imprese e Università nel campo della ricerca e della formazione. Questioni, tutte, come si sa che ancora oggi.














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1 commento

  1. Trovo molto interessante la sintesi dell’On.le Battaglia del lavoro fatto per creare i diversi utensili di una strumentazione di politica industriale.E’ vero che molti di quegli utensili non hanno avuto vita ma è altrettanto vero che la necessità di una strumentazione di politica industriale è ancora piu’ viva oggi dopo i fallimenti della privatizzazione e la disordinata ritirata delle partecipazioni Statali. E proprio ripercorrendo le idee e le iniziative ricordate da Battaglia e seguendo la logica della Mazzuccato che andrebbe riscritta una teoria dello Stato imprenditore e regolatore. Roberto Macri’

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