La vendita di Italo agli americani ribadisce carenze e colpe della nostra élite economica

8614798976_d855f1d9e8_k
Photo by Peter Broster-https://www.flickr.com/photos/remedy451/8614798976

di Marco Scotti ♦ Intervista a Fulvio Coltorti, ex direttore dell’ufficio studi di Mediobanca, che parte dall’ultima operazione di Luca di Montezemolo per evidenziare le responsabilità dei capitalisti italiani. La speranza potrebbe essere il Quarto Capitalismo delle medie imprese, ma non basta…

«I nostri grandi capitalisti sono molto inclini alla speculazione e molto poco intraprendenti». Se si chiede un giudizio sull’operazione che ha portato i treni di Italo in mano agli americani di Global Infrastructure a Fulvio Coltorti, per oltre 40 anni numero uno dell’Area Studi di Mediobanca e ora docente all’Università Cattolica di Milano, si ha la certezza di due risultati: risposte mai banali e nessun afflato assolutorio nei confronti dell’imprenditoria italiana. Che continua a lasciare per strada pezzi preziosi del tessuto industriale dando la netta sensazione di preferire massimizzare i propri investimenti invece che puntare forte su un progetto di ampio respiro.

 







coltorti
Fulvio Coltorti

 

Professor Coltorti, che cosa pensa della cessione di Italo agli americani?

Sulla vicenda ci sono tre punti da discutere. Il primo: il nostro grande capitale ha un’indole speculativa molto marcata. Sull’argomento si era espresso perfettamente Keynes nella “Teoria Generale”, quando diceva che “gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d’aria in una corrente continua di intraprendenza, ma la situazione è seria quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinòda gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene”. Oggi contempliamo sulla scena una classe imprenditoriale che ha ben poca intenzione di rischiare, mentre mi sembra che ci sia molta voglia di essere speculatori. Italo è un progetto che ha intrinseca una visione di lungo periodo. Ma se ottieni licenze, metti in piedi un’impresa complessa come quella che opera nel settore ferroviario e appena raggiunto una sorta di break-even vendi, significa che i primi a non credere all’efficacia di questo progetto sono gli imprenditori stessi.

 

Luca_Cordero_di_Montezemolo
Luca Cordero di Montezemolo, azionista e artefice dell’operazione Italo

 

Montezemolo ha parlato di un’offerta “irrinunciabile”, mentre Della Valle ha mostrato minore entusiasmo. In effetti, il primo ha ottenuto 240 milioni di euro e il secondo 320. Lo stesso Cattaneo, che era arrivato sei mesi fa e aveva investito la sua buonuscita da TIM in azioni Italo, ha ottenuto quasi 100 milioni. Va dato grande merito ai manager, che sono stati capaci di ottenere questo risultato, però non posso che restare della mia idea.

Parlava di tre punti che non la convincono nell’affaire Italo, quali sono gli altri due?

In primo luogo, questa impresa non è stata un successo così lampante proprio per le difficoltà consuete in un comparto come quello ferroviario, ma anche per un carico di debiti che è circa 1,5 volte il fatturato. Finché i tassi si mantengono così bassi non ci sono grandi preoccupazioni, ma se si dovessero rialzare, sarebbero i soci stessi a dover mettere mano al portafoglio. Se hanno venduto, qualche paura del futuro ce l’hanno e questo è un comportamento tipico dello speculatore, non dell’imprenditore. E poi non dimentichiamo che nel settore ferroviario c’è ben poca concorrenza, anzi parlarne è quasi fuori luogo. Chi riesce ad ottenere la licenza non è qualcuno che combatte nell’arena del mercato, ma piuttosto qualcuno che riceve un via libera e da quel momento può entrare in un settore con un solo altro competitor. Il fondo americano – ne sono certo – ha comprato per vendere, non so tra quanto, dopo aver rivalutato il suo investimento. Quindi significa che margini di crescita ce ne sono: ci hanno creduto in un fondo navigato come quello americano, non lo hanno fatto gli azionisti di Italo.

 

 Diego Della Valle
Diego Della Valle, industriale calzaturiero e azionista di Italo: era contrario alla vendita e per questo è uscito dal cda
Secondo lei su quali basi si fonda la fiducia degli americani? Pensa che abbiano ricevuto qualche garanzia di non belligeranza di Trenitalia da parte del Governo?

Di sicuro sanno che l’Italia sta uscendo dalla crisi. Anche se chi parla di “crescita” non dice tutta la verità, non esiste crescita senza un aumento del pil superiore al 2%. Il governo, dal canto suo, ha cercato di rendere noti a tutti i progressi raggiunti, tranquillizzando di conseguenza i potenziali investitori. E immagino che abbia garantito una certa “morbidezza” da parte del competitor ferroviario. Certo poi inizia uno stucchevole gioco delle parti: il governo parla di operazioni di mercato, ma che mercato è? La verità è che il peso dei paesi sovrani nelle operazioni economiche sta crescendo. Restando in casa nostra, basta pensare alla statale EDF che entra in Edison e alla statale Chemchina in Pirelli. Gli americani, poi, sanno anche che le elezioni saranno un terreno fertile per ulteriori speculazioni, ma che non succederà nulla di irreparabile e il sistema resterà stabile. Perfino se dovessero vincere i 5 Stelle, che tutti incolpano di non avere competenza. Ma mi dica: che competenze hanno avuto quelli che li hanno preceduti?

Non teme quindi che le elezioni possano aprire la strada a una nuova stagione di instabilità, visto che secondo i sondaggi – che si possono prendere con le pinze, ma che sono comunque un punto di partenza – nessuno è in grado di raggiungere la maggioranza e formare un governo stabile?

Quello che è successo in Italia negli ultimi anni ha dimostrato che questo paese pasticcione poi alla fine ritrova sempre una sua stabilità. Nonostante tutto, nonostante la quasi assenza di una classe dirigente, riusciamo comunque a raggiungere e mantenere un certo equilibrio.

Ma che fine ha fatto la classe dirigente?

Ha smesso di avere un ruolo fondamentale, quello di collante e di elemento di coesione tra la vita politica, quella economica e tutto l’ecosistema che ruota intorno a questa relazione. La diminuzione del peso specifico della classe dirigente si lega alla cessione delle società pubbliche iniziata una ventina di anni fa. Questa attenzione verso l’attività speculativa spacciata per imprenditoria illuminata è stata possibile perché questi capitalisti hanno avuto a loro disposizione i mezzi di comunicazione. La stampa d’altronde non è più libera dal 1925 e ancora oggi produce l’asservimento della politica nei confronti del grande capitale.

La sede di Mediobanca, Milano
Non vorrei incorrere in un conflitto d’interessi, ma non crede che manchi una figura fondamentale come la Mediobanca di un tempo, il “salotto buono” della finanza?

Il “salotto buono” lo vedevano quelli che pensavano di farne parte. In realtà era una forma di coesione del grande capitale privato che fronteggiava quello pubblico. Non è un mistero che dal 1933 lo Stato è il principale operatore economico. Solo negli ultimi anni le società pubbliche hanno avuto una governance più aperta e di mercato. A mio avviso, la caduta di Mediobanca è dipesa da una decisione istituzionale, ovvero è prevalsa l’idea (ovviamente sbagliata) che l’Italia andava male perché c’era Mediobanca che aiutava le grandi famiglie (Agnelli su tutti). In realtà non teneva in piedi le famiglie, ma le imprese. Nel momento in cui Mediobanca è stata “picconata” – come avrebbe detto il presidente Cossiga – questi imprenditori hanno subito venduto all’estero o spostato le loro sedi: lo ha fatto FCA trasferendosi in Olanda per avere minori tasse e il cosiddetto voto plurimo, lo ha fatto Pirelli cedendo ai cinesi. Se ci fosse ancora la Mediobanca di un tempo, questo non sarebbe successo o comunque sarebbe avvenuto in misura minore.

 

Agnelli,_Gawronski_e_Montezemolo_(Torino,_1990)
Gianni Agnelli, simbolo del grande capitalismo italiano, che è scomparso oppure è uscito dall’Italia: qui con Jas Gawronski e Luca Cordero di Montezemolo (Torino, 1990)

Parliamo di politica, invece. Che cosa pensa dei pacchetti Industria 4.0 e Impresa 4.0?

Me lo lasci dire, le misure sono perfette. Prendiamo l’iperammortamento: finché l’imprenditore continua a investire, riceve sgravi significativi. Appena smette, riprende a pagare le tasse e non beneficia più neanche dei vantaggi avuti in precedenza salvo che riprenda ad investire. Si tratta di una disposizione che va a favore del Quarto Capitalismo che promuove molto soprattutto i beni strumentali. Nel mercato industriale la Germania è prima nei grandi beni strumentali, come l’acciaieria, la meccanica pesante, ecc., mentre l’Italia primeggia nella “lean industry”, l’industria leggera. Che costituisce il cavallo di battaglia del Quarto capitalismo. Quindi questa è una politica eccellente per il nostro sviluppo.

 

Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico. Per Coltorti le misure del pacchetto Industria 4.0 sono perfette

 

Pensa che le iniziative economiche del governo abbiano anche incentivato il sistema industriale che ha fatto registrare una ripresa degli investimenti (80 miliardi nel 2017, 90 previsti per il 2018) e un aumento della produzione?

Per quanto riguarda la ripresa, c’è una grossa espansione mondiale che noi abbiamo agganciato ai margini. La verità è che i grandi paesi che muovono il sistema mondiale, come la Cina, hanno ripreso a galoppare. Ma le grandi imprese nostrane continuano a stentare. Se ci fosse solo il Quarto Capitalismo – al netto della sua dimensione contenuta – non avremmo grandi problemi, perché si tratta di un settore che ha continuato a crescere anche in anni difficili in cui le aziende dimensionalmente più rilevanti stentavano. Ma è ovvio che avere solo imprese minori non risolve il problema. Il direttore generale dell’IRI e governatore della Banca d’Italia Donato Menichella sosteneva che bisogna lavorare con gli attrezzi che si hanno, ed è inequivocabile che stiamo assistendo a progressi tecnologici che possono essere realizzati con profitto solo dalle grandi imprese. In Germania il problema è stato risolto affiancando le medie imprese alle grandi. In questo modo, le aziende di dimensioni più contenute riescono ad appropriarsi degli avanzamenti tecnologici attraverso le subforniture. In parte queste subforniture arrivano anche alle nostre medie imprese ma ovviamente sarebbe meglio avere la filiera tutta in casa nostra.

 

 

Giorgio Basile, ceo di Isagro, uno degli esponenti del Quarto capitalismo italiano

 

A proposito del Quarto Capitalismo, che cosa pensa delle nostre medie aziende?

Si tratta di imprese specializzate, che hanno consolidato una leadership in segmenti di nicchia. È un sistema che ci consente di andare sul mercato internazionale. Non è un caso che il saldo positivo della bilancia commerciale è dato essenzialmente dalle medie imprese e dalle aree distrettuali, perché le grandi non hanno un’esportazione netta. Se ci fosse un apporto di aziende di grandi dimensioni, l’Italia potrebbe finalmente andare con il vento in poppa. D’altronde, è una cosa che la Germania realizza da tempo: la bilancia commerciale tedesca ha un forte avanzo positivo anche e soprattutto grazie ai grandi produttori di automobili. C’è anche un problema di mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo: le nostre grandi imprese fanno poca innovazione, investono poco e appena hanno vantaggi dalle innovazioni riducono la spesa in R&D. Una grande impresa è oligopolista per definizione e quindi deve dare qualcosa di positivo se vuole essere tollerata; deve dare qualcosa in più, cioè innovazione tecnologica.

 

Mario Moretti
Mario Moretti Polegato, fondatore di Geox, caso di grande successo del Quarto capitalismo
Pensa che pesino anche le sanzioni con la Russia in questo scarso apporto della grande impresa alla bilancia commerciale?

I tedeschi non hanno avuto una grande flessione, il mercato russo è importante per noi perché possiamo vendere loro i nostri beni qualificati, ma possiamo venderli anche in Cina, dove strati crescenti di popolazione (che conta 1,3 miliardi di persone) sono molto sensibili al Made in Italy e dove sta crescendo sempre più una nuova classe di ricchi e benestanti. Se vengono confermate le sanzioni contro la Russia possiamo certo soffrire, ma poi si trovano altri sbocchi, come dimostra il saldo positivo attuale della nostra bilancia commerciale.

 

Piazza Affari, Milano
Piazza Affari, Milano: le aziende quotate sono ancora una minoranza…..

 

Ma allora qual è il male oscuro delle nostre grandi aziende?

Le grandi imprese in questo momento sono deboli, mentre le più forti sono quelle dello stato. Un’imprenditoria debole diventa maggiormente interessante per la speculazione. Prova ne sia l’acquisizione di tante aziende italiane, da Pirelli fino ai brand del lusso passando, per l’appunto, per Italo. Il problema è che le aziende nascono e crescono nei territori, come progetto di vita dell’imprenditore che le fonda. La situazione prevalente è quella di una persona che sa di valere e crea con l’impresa il suo progetto di vita, che può restare piccolo o diventare grande. L’indole degli imprenditori, che nascono nel territorio e che vi rimangono, è quella di sentirsi sempre e comunque italiani, nonostante il numero di negozi o di stabilimenti che possono aver aperto in altre parti del mondo. C’è sempre l’idea di fondo del “progetto di vita”, che ha un elemento di debolezza quando rischia di dimenticarsi della criticità del passaggio generazionale. Del Vecchio non ha immaginato che non è immortale, se avesse pensato per tempo a una successione, questa azienda non sarebbe stata fagocitata da Essilor. Negli USA Thomas Edison ha lasciato dietro di sé General Electric, non ha mantenuto una visione familiare. Anche Giovanni Agnelli ha fatto crescere la Fiat e la Fiat c’è ancora, anche se si chiama FCA, ma ha ancora natura familiare. Ma torniamo sempre lì: in Italia manca la classe dirigente; Fincantieri aveva preso un cantiere francese al 66% come era al suo diritto, ma non siamo stati capaci di far affermare quell’operazione che si è ironicamente trasformata in una cessione (in corso) della nostra cantieristica militare ai francesi. Siamo partiti come compratori e finiamo come venditori. Credo che il governo debba capire che cosa vuole fare.

 

Sergio Marchionne: per Coltortil’ ad di Fiat Chrysler Automobiles è un grande manager,che ha salvato la Fiat, ma che ha dovuto cedere alle esigenze della famiglia

 

Infine, un’ultima domanda: si parla molto del futuro di FCA sia per quanto riguarda la successione di Marchionne, sia per la possibilità di tentare nuove aggregazioni e fusioni come avvenuto con Chrysler. Lei che cosa ne pensa?

La mia personale impressione è che Marchionne sia stato un grande manager che ha salvato la Fiat, ma che ha dovuto cedere alle esigenze della famiglia, perché la Fiat è stata fatta a spezzatino in modo da massimizzarne il valore. Oltre a essere emigrati in Olanda con la casa madre Exor e l’accomandita di famiglia, sono state spostate anche Ferrari (ahimé) e CNH. A mio avviso sembrano scatole pronte per essere vendute. Credo che la Fiat in sé abbia una debolezza nella parte automobili, ha di fronte concorrenti che hanno costi più contenuti e progettualità più efficaci. Ma ha dei grossi asset, come Alfa Romeo: come mai si sono accorti solo adesso del suo potenziale mentre prima l’hanno massacrata? Anche Lancia, che era la regina delle automobili, andrebbe riesumata. La Fiat si è sempre gettata sugli affari facili e sulla bassa qualità. Aveva un centro R&D molto avanzato, ha inventato tutto quello che si poteva inventare nella meccanica automobilistica, peccato che poi abbia venduto le migliori innovazioni, come il motore turbodiesel,  ai tedeschi. Senza il common rail, quando mai i tedeschi avrebbero venduto auto sportive? C’è sempre stato il desiderio di Marchionne di far sposare la Fiat con una casa più grande e più potente finanziariamente. Anche perché la Fiat, dalla scalata Montedison in avanti ha avuto una situazione pesante dal punto di vista dei debiti, mentre l’associazione con un grande produttore potrebbe darle grande stabilità. C’è però anche da dire che oggi fare una mega-aggregazione comincia a essere un’operazione poco appetibile; i giganti sono troppo rigidi; oggi è meglio andare sulle produzioni specializzate.

 

 














Articolo precedenteIl 4.0 applicato all’energia e le strategie di X3Energy
Articolo successivoStrategie per non buttare soldi con l’ Industria 4.0






1 commento

  1. Da ” vecchio” Olivettiano, vedo lo stesso percorso intrapreso il secolo scorso quando nella Divisione Elettronica Olivetti subentro’ la General Electric..
    Siamo semplicemente miopi sia a livello manageriale che politico!
    Ma si vede che deve girare così…..

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui