Hpe: il data center aziendale è il primo mattone della trasformazione digitale

di Renzo Zonin ♦︎ Modernizzare il centro elaborazione dati preoccupa molte imprese soprattutto per i costi. Ma soluzioni cloud, as a service e pay per use riducono le spese iniziali delle infrastrutture. Il ruolo dei partner nei progetti di innovazione e la cultura it centrica. Ne parliamo con Carlo Vaiti di Hpe

Molte aziende, soprattutto fra le Pmi, vedono il passaggio del proprio data center da un’architettura legacy a una più moderna, per esempio un hybrid cloud, come un vero e proprio salto nel buio. I motivi portati dalle aziende per evitare di cambiare l’architettura del proprio sistema informativo sono diversi, ma in genere hanno a che fare con una scarsa conoscenza dei vantaggi conseguibili adottando architetture più moderne. Per esempio, le paure più diffuse riguardano i costi del passaggio, e quelli a regime con la nuova impostazione, quando dovrebbe essere noto a tutti che formule come il cloud, l’as a service, il pay per use sono in grado di ridurre i costi iniziali di infrastruttura – e spesso anche quelli di gestione tout court.

Altre resistenze derivano dalla convinzione che l’intera infrastruttura informatica vada migrata in un solo passaggio, con il rischio, se qualcosa va storto, di trovarsi l’azienda bloccata fino a che tutto è finalmente in funzione. In realtà, nella maggior parte dei casi – di fatto sempre, a parte nelle startup dove non c’è alcunché di legacy da migrare – il passaggio alla nuova architettura avviene passo dopo passo, pianificando in anticipo quali servizi modernizzare, come reingegnerizzarli e come implementarli. Tanto che l’approccio più seguito è quello di partire con piccoli progetti pilota, capaci di dare risultati concreti (in termini di ROI e KPI) nel giro di poche settimane, per poi mano a mano completare il quadro della migrazione. La cosa importante, naturalmente, è di realizzare anche il primo progetto pilota pensando già alla sua futura integrazione con il nuovo paradigma del sistema informativo, in modo da non ritrovarsi di nuovo con nuove isole che mal comunicano con il resto dell’infrastruttura aziendale.







Abbiamo parlato di come si affronta una migrazione in ottica digital transformation con Carlo Vaiti, distinguished technologist di Hpe Italia. Al quale abbiamo chiesto, prima di tutto, perché le Pmi manifatturiere italiane dovrebbero cambiare l’impostazione dei propri data center e sistemi informativi, e come dovrebbero agire per rinnovarla.

 

Modernizzare serve per il business

Carlo Vaiti, chief technologist officer di Hpe

«Se un’azienda vuole rimanere competitiva, dovrà cambiare qualche cosa nel suo applicativo. Altrimenti non riuscirà a rispondere alle richieste del mercato. Quello che noi facciamo è di condurre una discovery, un’analisi di tutto il parco applicativo che il cliente ha. Sia che si tratti di una piccola azienda manifatturiera, sia di un’enterprise. Dopodiché si vanno a identificare i workload. È un workload classico Erp, gestionale, As400? O è del tipo big data analytics? Oppure è di tipo Vdi, mobile workplace? Una volta identificati applicativi e workload si va a esaminare punto per punto l’architettura attuale del sistema».

E spesso si vede che l’architettura è decisamente vecchia – per questo non riescono a rispondere alle esigenze del business con la velocità richiesta oggi. «Spesso è proprio questo il motivo per cui ci chiamano. Magari hanno una commessa in più e il sistema non gli permette di soddisfarla. Qui entra in gioco la nostra analisi applicativa. Creiamo una mappa dei workload, e poi entriamo nel dettaglio: quali delle applicazioni analizzate sono veramente legacy, ovvero sono applicazioni che per il modo in cui sono fatte mi rallentano il business? E a quel punto inizia uno studio in cui si valutano opzioni di moving, di hosting, di rehosting, di refactoring, di replatforming, insomma si va a vedere se l’applicazione legacy possa essere modernizzata, e per modernizzata intendiamo portarla in modalità cloud-native». Tramutare un’applicazione legacy in un’applicazione cloud native significa, tecnicamente, reimpostarla in una modalità a microservizi, ovvero spezzare i vari job che sono all’interno dell’applicativo in tante piccole funzioni. Il vantaggio è che diventa granulare: se in futuro dovrò modificare una funzione dell’applicativo, probabilmente mi basterà intervenire su un microservizio, e non dovrò intervenire sull’intero applicativo. «Una volta definite le applicazioni legacy da modernizzare, si passa a definire quali applicazioni vanno invece riscritte da zero, perché completamente assenti nel vecchio workflow. Naturalmente queste verranno scritte già in modalità “cloud native”, e il cliente in genere apprezza la rapidità con la quale possono venire utilizzate. In tutta questa fase del lavoro vengono valutati i costi e benefici, così da poter già valutare dei KPI e informare il cliente sui costi delle varie ipotesi».

 

Lo scoglio dei costi

Il problema dei costi è appunto uno degli scogli sui quali si arenano le ipotesi di trasformazione digitale, soprattutto nelle aziende medio piccole. «Il fatto è che bisogna calcolargli un ROI. Quello che noi facciamo è costruire un modello di business, per poter dire al cliente che in un tot di mesi rientrerà dell’investimento e che quindi di lì in poi vedrà che i soldi spesi per la trasformazione digitale danno un valore aggiunto». Questo dunque è, a grandi linee, il metodo che Hpe segue nei progetti di trasformazione digitale; poi, naturalmente, ogni azienda è un caso a sé, perché ognuna ha una differente composizione di applicativi e infrastrutture da far migrare. «Ci sono aziende per esempio che hanno solo legacy e nulla di modernizzabile, e in quel caso i tempi si allungano, perché tanto più un’applicazione è “non moderna”, tanto più tempo impiego per fare replatforming, refactoring eccetera. Ci sono degli strumenti che Hpe fornisce insieme ai suoi partner per fare questo lavoro di modernizzazione delle applicazioni, che in definitiva consiste nel migrarle a un ambiente “a container”, gestito da Kubernetes».

il 29% delle imprese ha un approccio reattivo al digitale, ossia si rivolge a tecnologie specifiche solo in caso di estrema necessità, senza un percorso strutturato. Il 57% del campione ha un approccio tattico, cioè comincia a vedere le basi della trasformazione digitale ma ancora non è votato al ripensamento del modello di business. Infine, il 14% mostra un approccio strategico: si tratta di pmi che vedono nel digitale uno strumento per potenziare il proprio business, poterlo rivedere per essere sempre più competitivo anche sui mercati esteri

Al di là della modalità tecnica con la quale si opera, è importante il risultato finale che viene ottenuto: l’azienda con il sistema modernizzato riesce a rispondere velocemente alle esigenze del mercato, cosa che prima non riusciva a fare, e quindi rimane competitiva. Si ottiene insomma un miglioramento dell’efficienza complessiva. «Un caso interessante ci è capitato con un ospedale che aveva l’esigenza di analizzare i dati provenienti dalle radiologie dislocate sul territorio, e voleva capire se un’architettura moderna di tipo edge, con computer posizionati localmente presso  le unità radiologiche, avrebbe potuto evitare la movimentazione dei dati fino al data center centrale dell’ospedale, consentendo di realizzare l’analisi direttamente all’interno della struttura sanitaria ed evitando così i costi, molto elevati, per la movimentazione e la custodia dei dati. Abbiamo fatto un modello dell’architettura e abbiamo potuto dire all’ospedale che, realizzando l’infrastruttura che avevamo progettato, avrebbe recuperato i suoi investimenti nell’arco di circa 12 mesi».

Il ruolo dei partner

Stefano Venturi, presidente e amministratore delegato di Hpe Italia

La struttura peculiare del sistema industriale italiano, costituito di una miriade di Pmi, rende quasi obbligatorio per i grandi player del digitale avvalersi di partner per seguire efficacemente la clientela. «Abbiamo una rete di partner che fanno capo alla struttura InnoLab, che ha appunto queste competenze. È chiaro che noi facciamo da secondo livello. Interveniamo in particolare sugli aspetti di consulenza strategica». Il progetto degli Innovation Lab è nato da una collaborazione fra Hpe e un certo numero di partner (li trovate qui), e ha dato vita a una rete di centri di innovazione tecnologica a disposizione delle aziende italiane, all’insegna del motto “tecnologia a chilometro zero”.

Obiettivo del progetto è di far diventare i vari Lab dei veri e propri centri di competenza per tutte le tecnologie Hpe e per le soluzioni specifiche proposte dai partner stessi, in modo da poter fungere da abilitatori della Trasformazione Digitale per la clientela italiana. Giusto per fare qualche nome noto ai nostri lettori, fra i partner di Hpe nell’implementare soluzioni 4.0 per le imprese manifatturiere ci sono aziende come Alfaproject.net, nata nel 2000 nell’ambito dell’Acceleratore d’Impresa del Politecnico di Milano, specialista nel mondo del Digital Operation Manufacturing e operante negli ambiti del Lean Manufacturing, World Class Manufacturing e Itil (Information Technology Infrastructure Library); e Lutech, gruppo con oltre 20 anni di esperienza nell’It, che con le sue tre divisioni (Technology, Digital e Products) fornisce soluzioni integrate e che proprio recentemente, completando la fusione con Telesio, ha consolidato la sua offerta di soluzioni di migrazione dell’It verso ambienti misti ed eterogenei.

 

Un passo per volta verso il 4.0

Succede che il cliente voglia una sola applicazione in cloud senza toccare il resto del sistema? Per esempio il remote working implementato da molte aziende nel 2020? «Succede, certamente. Nel caso del VDI per esempio, il mobile workplace è un’isola separata, quindi vado a costruire un’architettura di Virtual Desktop Interface, con software come Citrix, come Horizon di Microsoft, che realizzano la nuova postazione di lavoro in mobilità; quindi le applicazioni le ho sia sul Pc che sul device. Dal punto di vista del back-end è chiaro che dobbiamo andare a installare una parte applicativa, ma questa non va a stravolgere l’intero data center. È diverso se il cliente mi chiede di modificare il suo gestionale core Erp, per esempio per fare pianificazione della produzione. Allora probabilmente andrà fatta prima un’analisi dei processi, si dovrà stabilire quali potranno essere digitalizzati, e solo in seguito si andrà a toccare l’Erp, il gestionale che sta dietro. Tenendo presente che questo potrebbe per esempio impattare l’applicazione di logistica, o quella di trasporto. In casi come questo, si finisce per andare a toccare un po’ tutta la gestione. Ma si può anche cominciare con un singolo servizio ad hoc, e poi da lì espandere l’intervento sugli altri, perché l’approccio è graduale, non è che andiamo a stravolgere l’azienda. Soprattutto su quelle piccole facciamo un passo alla volta, magari partiamo con il classico pilot di tre settimane con il quale gli facciamo vedere che già dopo la prima settimana la macchina utensile è collegata al data center, e che quindi possono già avere dei vantaggi che prima non avevano».

L’importanza del digitale per la sopravvivenza del business emerge a ogni livello, a partire dal crescente interesse dimostrato da manager e titolari per la formazione strategica in questo ambito, con un +20% rispetto al 2019: il 67% investe tempo sull’aggiornamento professionale, pur in modo sporadico e non continuativo. Ancora elevata tuttavia la percentuale (40%) di imprese che non hanno alcun responsabile dedicato a tematiche ICT&digital. Fonte Osservatori Politecnico di Milano

Approccio tattico ed enfasi sulla riduzione dei costi

Hpe Secure Edge Data Center

Con le aziende più piccole, in particolare, l’approccio step by step, graduale e molto tattico più che strategico, sembra quello che riscuote maggiore gradimento. «Soprattutto l’approccio deve guardare subito alla riduzione dei costi. Perché deve concentrarsi immediatamente sul core business dell’azienda. Devo dare al cliente in tempi rapidi un servizio migliore e più veloce. Tornando all’esempio del pilot, in qualche settimana il tornio del cliente diventa un “tornio 4.0”, collegato con la parte data center. Da quel momento il cliente comincia a vedere che calano i canoni di manutenzione, e io gli posso spiegare che questo è il risultato del conoscere perfettamente i dati di funzionamento, con la possibilità quindi di fare manutenzione predittiva. Ma posso anche spingermi oltre, spiegando al cliente che, conoscendo i dati di funzionamento del tornio, posso preparargli un piano di leasing tagliato su misura per quel tornio, per farglielo pagare in modalità as a service, in pay per use. A quel punto, il tornio non sarà più nemmeno un asset aziendale, diventa un Opex e non più un Capex».

Non si tratta di un esempio astratto: solo qualche settimana fa è stato fatto il collegamento di una laminatrice in un’azienda del Nord Italia, e una finanziaria ha costruito un piano di ammortamento ad hoc per quell’apparecchiatura. I dati inviati dalla macchina consentono di sapere in tempo reale quanti pezzi produce, quanto viene utilizzata, ma anche informazioni sofisticate come quale sia il suo valore residuo. E tutte queste informazioni permettono di offrire al cliente ulteriori servizi su quella specifica macchina (o gruppo di macchine): manutenzione predittiva, asset tracking, identificazione delle metriche critiche eccetera. Grazie a questi servizi, il cliente beneficerà di una struttura di costi inferiore, per esempio perché i canoni di manutenzione saranno ridotti, perché la polizza di assicurazione della macchina sarà più conveniente vista la diminuzione del rischio, e così via. È un cerchio che collega cliente finale, società di leasing, fornitore di tecnologia, società di assicurazione, e dal quale tutti ricavano un vantaggio. «Progetti di questo tipo per la manutenzione predittiva permettono di realizzare funzionalità come controllo di qualità, monitoraggio in tempo reale, riduzione dei costi, eliminazione dei fermi macchina, riduzione degli sfridi. Sono cose ormai consolidate, eppure quando andiamo a parlare con i clienti può ancora capitare di trovare qualcuno che ti chiede perché mai dovrebbe collegare la macchina utensile al sistema informativo. O che ha paura che poi i suoi dati di produzione non rimangano riservati. In questi casi è importante mostrare che si tratta di pratiche già affermate, magari portiamo il cliente a vedere installazioni già eseguite presso altri. Solo così si riesce a convincere il piccolo imprenditore ad adottare le tecnologie 4.0, mettendo sul tavolo i vantaggi concreti».

I sistemi monolitici di vecchia concezione sono in difficoltà a gestire nuovi carichi di lavoro che derivano dai nuovi trend quali: intelligenza artificiale (AI), Big Data analytics, Internet of Things. A questo si aggiunge la modalità architetturale Hybrid Cloud fra infrastrutture on-premise dei clienti e Public Cloud a rendere la sfida ancora piu complessa

Dati e catena del valore

Al di là della riduzione dei costi, argomento che catalizza immediatamente l’attenzione delle aziende, ci sono vantaggi ben più profondi nell’adottare i nuovi paradigmi per il data center, dal cloud e hybrid cloud all’ ”as a service” di Greenlake. Il punto fondamentale è dare importanza alla catena del valore del cliente. «Bisogna dare al cliente un valore che prima non aveva. L’implementazione dei servizi intelligenti, dei servizi personalizzati sull’esperienza del cliente, è possibile solo se riusciamo a contestualizzare i dati del cliente stesso. Nel momento in cui riesci a collegare i dati, si apre un mondo di possibilità. C’è tutto il discorso DOM, Digital Operation Manufacturing. Noi lo facciamo con dei partner che sono specializzati nella parte MOM (Manufacturing Operation Management) e in quella logistica, mentre noi forniamo la connessione della macchina utensile, il collegamento fra l’Ot e l’It». Ne avevamo parlato fra l’altro qui e qui.

Hpe GreenLake introduce i vantaggi del cloud agile direttamente per l’altro 70% di carichi di lavoro, attuali e futuri. Con un modello pay-per-use, offre un unico modello operativo coerente, con visibilità e controllo sui cloud pubblici e sull’ambiente on-premise

Ma far passare alle Pmi il messaggio della maggiore competitività sul lungo periodo data dall’adozione di soluzioni 4.0, o della opportunità di rinnovare la propria business proposition, di rivedere le proprie procedure in ottica lean, e quelle informatiche secondo logiche cloud-native, non è per nulla facile. Il concetto di risparmio sui costi, fortunatamente, arriva facilmente a tutti. Un po’ come quello degli incentivi statali, che però rischiano di essere fuorvianti. Nel senso che se l’azienda inizia un progetto di trasformazione digitale solo per accedere a contributi statali e sgravi fiscali, difficilmente si otterranno gli effetti a lungo termine auspicati. «La leva economica è fondamentale, ma da sola non basta. Se vado da un imprenditore che non ha problemi, che riesce a soddisfare le commesse, che realizza il suo fatturato, è difficile riuscire a proporgli qualcosa di innovativo. Ma il punto è, sarà sempre così? Perché il mercato è sempre più veloce e se arriva un concorrente che è più veloce o più economico di te, magari proprio perché utilizza le tecnologie di cui abbiamo parlato (cloud, operational technology connesso, eccetera) il problema si pone, e chi non ha voluto cambiare si ritrova svantaggiato». Probabilmente c’è nella piccola azienda anche un problema di mancanza di competenze, e in particolare di non conoscenza dei vantaggi di lungo periodo ottenibili con le nuove tecnologie del 4.0. Ma in generale è il “qui abbiamo sempre fatto così” che continua a rivelarsi un tallone d’Achille di tantissime piccole aziende, che preferiscono cullarsi nella posizione raggiunta invece che fare ricerca su come migliorare la qualità del prodotto, su come ridurre gli scarti, su come diventare più rapide, in una parola su come arrivare meglio al cliente. «Noi partiamo dall’idea di far diventare la piccola azienda italiana cliente-centrica, ovvero orientata a soddisfare i suoi clienti, e non It-centrica. Quindi l’It deve essere al servizio del business, non viceversa. Se si va dal cliente con questo approccio, il cliente ti segue. Se vai a proporre di acquistare dell’infrastruttura, cloud o tradizionale che sia, non arrivi al risultato».














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