Sapelli: la sentenza sull’ex-Ilva è l’addio all’acciaio italiano

di Marco de' Francesco ♦︎ L'economista parla a Industria Italiana: con l'imminente pronuncia della Cassazione e lo stop imposto a una parte degli altiforni si sta apparecchiando una via d'uscita per lo stato dal mondo della siderurgia. Tra ambiente e industria viene sacrificata la seconda, con conseguenze catastrofiche sull'economia

«Ex Ilva? Verso la chiusura, ma è solo l’ultimo atto di una strategia di dismissione dell’acciaio italiano». Parola di Giulio Sapelli, economista, storico e accademico torinese e anticonformista autentico. Com’è noto, proprio l’altro giorno la Corte di Assise di Taranto ha emesso una sentenza pesantissima relativa a presunti fatti di reato che avrebbero determinato, ai tempi della proprietà Riva, un disastro ambientale nella città pugliese. La sentenza prevede la confisca di parte dello stabilimento. Sarà operativa solo a seguito della pronuncia della Cassazione; ma comunque vadano le cose dal punto di vista giudiziario, pensa Sapelli, la misura rappresenta per lo Stato un ottimo argomento, quasi una scusa, per sganciarsi da una situazione indesiderata.

Vero che lo scorso 15 aprile lo Stato ha dato vita, tramite Invitalia e insieme a Arcelor Mittal, ad Acciaierie d’Italia – società che, guidata dal Ceo Lucia Morselli, ha come asset principale appunto lo stabilimento tarantino. Ma lo ha fatto obtorto collo, perché le cose con Arcelor Mittal si erano messe male. Il milieu culturale dominante è quello che ha messo in contrapposizione ambiente e industria, e che è pronto a sacrificare la seconda per motivi ideologici. È frutto della stagione delle privatizzazioni dell’apparato industriale pubblico, quando fu inventato dal nulla per nascondere i possibili svantaggi di quelle operazioni. È ancora molto radicato, e avrà un peso significativo nel compimento del destino dello stabilimento tarantino. Tutto ciò, naturalmente, secondo Sapelli, che abbiamo intervistato.







 

Giulio Sapelli, economista e accademico

D: La sentenza della Corte di Assise di Taranto è una specie di terremoto, soprattutto per le ambizioni dello Stato in Acciaierie d’Italia.

R: Ma no, è tutto molto più semplice: è una sentenza che non discuto, per carità, ma che appare in continuità con il pensiero dominante. Mi riferisco a quel milieu culturale che associa giustizia e ambientalismo, e che mette in contrapposizione ambiente e industria, ambiente e lavoro. Nulla di nuovo, sotto il sole: è così dagli anni dalla fine degli anni Ottanta, dall’era delle privatizzazioni di Prodi; ma di recente questa ideologia ha trovato un nuovo slancio, con la convinzione, molto diffusa in Europa, che si possa fare economia solo grazie alle rinnovabili e al green. Invece l’economia globale si fonda sui derivati del petrolio e sull’acciaio.

 

D: Scusi, ma che c’entra l’ex presidente del consiglio Romano Prodi?

R: C’entra, perché l’uomo in un certo senso ha finito per rappresentare proprio quel periodo, quello della vendita dell’apparato industriale pubblico e dello spezzatino dell’Iri (di cui Prodi è stato presidente) – che tanti danni hanno creato all’occupazione, all’economia del Paese e a migliaia di piccole e medie imprese fornitrici -: è proprio in quella stagione che viene inventata l’antinomia tra industria e ambiente. A mio avviso, era una cortina fumogena, una barriera artificiosa per distogliere l’interesse pubblico dalle operazioni in corso.  E così, non so quanto consapevolmente, si è giunti a dar vita ad una rappresentazione non coincidente con la realtà industriale dei tempi nostri: ad esempio, si può produrre l’acciaio in modo green. Ma la gente fatica a crederci, dopo decenni di martellanti campagne pseudo-ambientaliste.

 

D: Al di là dell’antinomia tra industria e ambiente, in che senso la pronuncia è in continuità con il pensiero dominante ai tempi nostri?

Romano Prodi, ex Presidente del Consiglio

R: Preciso di non parlare della decisione in sé, che ovviamente non discuto, ma dell’ambiente culturale nel quale potrebbe essere maturata.  Questo è un Paese che ha fatto di tutto per disfarsi della siderurgia. Quello in corso è soltanto l’ultimo atto. L’Ilva avrebbe potuto avere un’altra storia ben diversa. Era un’industria con un’importanza fondamentale per la manifattura italiana, e avrebbe potuto svolgere un ruolo globale rilevantissimo, soprattutto in Medio Oriente, che ha sempre avuto e che ha un enorme bisogno di acciaio. Venivano tecnici ed esperti dal Giappone, dalla Corea del Sud, per studiarne il funzionamento nel dettaglio. Lo smembramento dell’Ilva ai tempi della liquidazione di Italsider e Finsider, la cessione ai privati dell’impianto di Cornigliano, la chiusura di quello di Bagnoli, la vendita dell’acciaieria di Piombino al gruppo bresciano Lucchini, e dell’attività più significativa, il grande polo siderurgico di Taranto, al Gruppo Riva, hanno certamente rappresentato un enorme favore che l’Italia ha fatto all’industria franco-tedesca.  Ripeto: non so in base a quale consapevolezza, ma è andata proprio così. Immagino che nel corso degli anni Novanta a Parigi e a Berlino abbiano stappato diverse decine di bottiglie di Champagne: la concorrenza italiana lasciava volontariamente il campo di battaglia.

 

D: Lo spezzatino con vendita dell’apparato industriale pubblico è un fatto storico di trenta anni fa. Quale rilievo può avere oggi?

R: Ha un rilievo, eccome! Perché, ripeto, questo è secondo me l’ultimo atto. È chiaro che si va verso la chiusura di Taranto. Da questo punto di vista, la spada di Damocle della confisca dell’area a caldo è determinante, ma anche questa sembrerebbe in linea con una certa politica giudiziaria. Che non discuto, ma che mi pare un dato di fatto».

 

D: Quale politica giudiziaria?

R: Beh, si ricorderà che i Riva sono stati espropriati ancor prima del processo, ancora nel 2012. Non ricordo altri casi di esproprio di un industriale nel mondo Occidentale.  Anzi no: a ben vedere Louis Renault fu espropriato dal generale De Gaulle. Ma lì era una questione piuttosto complessa che aveva a che fare con un presunto tradimento dello Stato. Alla liberazione di Parigi, nel 1944, Louis venne arrestato come collaborazionista e morì dopo un mese, senza processo. L’anno seguente la sua società venne sottratta alla famiglia e nazionalizzata. La vicenda francese, cioè, va inquadrata in periodo storico particolare, quello della resa dei conti in cui tante cose possono accadere e in cui il normale funzionamento delle istituzioni è alterato. L’esproprio dei Riva, onestamente, lo capisco molto di meno.

 

l’Ex Ilva di Taranto

D: Però i Riva sono accusati di fatti molto gravi.  Pur nell’assoluto rispetto della presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato, va però segnalato che in primo grado Fabio e Nicola Riva sono stati condannati rispettivamente a 22 e a 20 anni di reclusione, nel contesto del processo Ambiente Svenduto (47 imputati) relativo ai reati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

R: I Riva hanno commesso degli errori? Non lo so: saranno le sentenze a stabilirlo. A mio avviso, però, non è vero che si sono disinteressati della questione ambientale: se ricordo bene, avevano speso tre o quattro miliardi tra autorizzazioni integrate ambientali e lavori di ammodernamento. Forse si sta calcando troppo la mano su di loro, forse ci si sta focalizzando troppo sul loro ruolo. L’Ilva non è nata con loro.

 

Lucia Morselli, amministratore delegato di Acciaierie d’Italia S.p.A.

D: Poi, il commissariamento; e dopo, l’arrivo della multinazionale franco-indiana Arcelor-Mittal.

R: Un errore clamoroso da parte dello Stato, a mio modo di vedere. La cosa sbagliata al momento sbagliato. Lì c’erano due cordate: una guidata da AM InvestCo, e cioè da ArcelorMittal, e l’altra da Jindal South West (Jsw), con la Delfin di Leonardo Del Vecchio, Cassa Depositi e Prestiti e Arvedi. Queste ultime due si erano sfilate a giugno del 2017, quando la partita era già in corso. Come siano finite le cose, lo sanno tutti. Solo che mentre la seconda cordata puntava su tecnologie innovative, quali l’utilizzo del forno elettrico alimentato a pre-ridotto, non ancora presente in Europa e a minore impatto ambientale, e aveva un interesse concreto all’aumento della produzione, la prima era più legata al carbone e l’azienda maggiore, ArcelorMittal, aveva dichiarato che si trovava, in Europa, in una condizione di sovracapacità produttiva. Logicamente, come potevano andar bene le cose?

 

D: Ad aprile, però, è nata Acciaierie d’Italia: Invitalia ha sottoscritto un aumento di capitale per 400 milioni di euro nel capitale sociale di AM InvestCo Italia, diventando così socio con una partecipazione del 38% e con il 50% dei diritti di voto. Ed entro maggio 2022 è previsto un secondo investimento da parte di Invitalia fino a 680 milioni, che la porterà a detenere una quota pari al 60% del pacchetto azionario. Il governo dell’azienda sarà congiunto. Però, e Lei ne ha fatto cenno, c’è di mezzo la confisca dell’area a caldo.

Domenico Arcuri
Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia

R: Potrei dire che la confisca dell’area a caldo disposta dalla Corte di Assise di Taranto sarà una ragione sufficiente per abbandonare questa partita, anche se la misura diventerà operativa solo dopo il giudizio della Cassazione. Peraltro, ci sono altri processi in corso, di tipo amministrativo. Il Consiglio di Stato, a giorni, potrebbe decretare lo spegnimento dell’impianto: e una volta fermato, un forno a carbone non può più ripartire. Ma non sarebbe tutta la verità. Queste, a mio avviso, sarebbero soltanto degli appigli, degli aiuti insperati per lo Stato nel contesto di una deriva anti-industriale che l’Italia ha intrapreso molti anni fa, e che ora va a compimento. L’acciaio era facile da demonizzare, soprattutto perché collegato al carbone. Semplicemente, sta calando il sipario su questo genere di attività industriale. Una scusa si trova sempre; e non sorprende che siano tutti d’accordo tranne, credo, i sindacati.

 

D: Nel contesto culturale che Lei descrive, è possibile una “riappacificazione” fra industria e ambiente?

R: Di certo, non tra l’ambiente e il tipo di industria che l’ex-Ilva esprime.

 

D: Come definirebbe il milieu culturale che porterà alla chiusura dell’Ilva?

R: Quello giusto per accelerare la decadenza industriale del Paese.

 

LA QUESTIONE GIUDIZIARIA IN PILLOLE: 

Le indagini nascono nel 2008 a seguito di un esposto sulla diossina presentato in Procura da PeaceLink, un’associazione eco-pacifista italiana. Dopo il citato sequestro dell’intera area a caldo del sito di Taranto del 2012, su provvedimento del gip Patrizia Todisco, vengono nominati quattro custodi giudiziari, e otto dirigenti dell’Ilva finiscono ai domiciliari: tra questi, il patron Emilio Riva, il figlio Nicola, l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso e altri dirigenti. A loro carico sono ipotizzate le accuse di disastro colposo e doloso, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, e altro. A novembre arrivano altre ordinanze di custodia cautelare.  Il quadro istruttorio si allarga, sia in termini di presunti responsabili che di presunte condotte illecite.

Nichi Vendola, ex presidente della Regione Puglia. Di dati.camera.it, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32839711

Il 30 ottobre 2013 sono notificati avvisi di chiusura dell’indagine preliminare a 53 persone fra cui Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia; gli imprenditori Emilio (1926-2014), Fabio e Nicola Riva; e altri. Il procedimento penale, che ne scaturisce è denominato “Ambiente Svenduto” ed è curato dalla Corte D’Assise di Taranto. Poi, la sentenza di primo grado: sono condannati a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva. I giudici hanno disposto non solo la citata confisca dell’area a caldo, ma anche quella per equivalente del profitto illecito delle tre società Ilva spa, Riva Fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro.  Sono condannati anche Nichi Vendola (concussione) e diversi dirigenti della società, anche a pene molto pesanti. Naturalmente prevale il principio di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, e ci vorranno ancora molti anni per l’accertamento definitivo della verità processuale.














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