Siderurgia e industria: è ora di cambiare il modello decisionale UE. Antonio Gozzi a ruota libera sui principali temi macro

di Filippo Astone e Marco de' Francesco ♦︎ Intervista al numero uno di Duferco e Federacciai. Bene il Piano Mattei di Meloni. Pessime politiche industriali UE. Il Cbam? Creerà uno svantaggio competitivo. L'ambientalismo? Con gli Ets è diventato un business per il capitalismo finanziario. I limiti dell'iper-regolamentazione voluta da Bruxelles. E sull'ex Ilva...

Antonio Gozzi, presidente di Duferco e Federacciai

«Bene Meloni con il Piano Mattei (partenariato economico, energetico e sociale tra l’Italia e gli Stati Africani): è un modo per abbassare il baricentro degli equilibri decisionali europei. Oggi, infatti, questi sono troppo sbilanciati a Nord, verso Paesi che puntano alla deindustrializzazione del Vecchio Continente, sotto il peso della finanza speculativa e dell’estremismo green». Parole di Antonio Gozzi, rilasciate in un’intervista esclusiva a Industria Italiana. Parole molto rilevanti perché Gozzi è una figura centrale dell’industria e in particolare della siderurgia europea. È il leader dell’acciaio italiano. Infatti, non soltanto è presidente di Federacciai al terzo mandato, ma è il numero uno del gruppo Duferco, attivo nell’acciaio e nell’energia, che nel 2022 ha fatturato 44 miliardi di dollari. Il grosso di questa cifra è generato da attività di trading di energia, acciaio e materie prime ed è congiunturalmente ingigantito dagli ultimi corsi, ma comunque tre miliardi sono di manifattura pura. E’ stato docente universitario di materie economiche, e soprattutto è in corsa per la presidenza di Confindustria. E’ uno dei tre candidati forti per la successione a Carlo Bonomi, insieme ad Emanuele Orsini ed Edoardo Garrone. In questa intervista con Industria Italiana (rilasciata in margine a un convegno del ciclo Sette/Ottavi di Confindustria Brescia di cui riportiamo sul nostro giornale le principali conclusioni) Antonio Gozzi non ha parlato di Confindustria, perché le norme deontologiche dell’associazione imprenditoriale vietano ai candidati di esprimersi con la stampa. Ma di tutto il resto sì. E ci ha permesso di costruire un quadro completo del suo pensiero. Di come lui intende un argomento che a noi è estremamente caro: la Questione Industriale. Per quanto riguarda il suo profilo confindustriale completo, invece, in questo articolo che Industria Italiana (QUI) ha pubblicato a metà gennaio, si potranno trovare tutte le notizie che occorre sapere.

La riflessione di Gozzi parte dall’approccio europeo alle questioni dell’industria e dell’acciaio in particolare. Ad esempio, l’attuale normativa comunitaria prevede un décalage di incentivi per gli altoforni. «Produrre acciaio da ciclo primario avrà presto un costo maggiore del 30% rispetto all’attuale». È chiaro, dice Gozzi, che gli altoforni non resisteranno alla concorrenza indiana o cinese. Sono destinati a chiudere, in Europa. Con due gravi conseguenze: la perdita di personale diretto e dell’indotto, ma anche danni per i settori industriali italiani, come l’automotive, che dipendono dal ciclo primario dell’acciaio. E che si troveranno costretti ad aumentare il prezzo dei loro prodotti finali a causa dei maggiori costi dell’acciaio conseguenti a tali decisioni europee. Alla radice di questo approccio, per Gozzi ci sono tre fattori che condizionano la classe dirigente europea: l’estremismo green, che adotta misure non realistiche nel perseguire obiettivi ambientali, fino al sabotaggio industriale; il mercatismo globalista, «diffuso soprattutto nei Paesi nordici, per cui tutto si può comprare e nulla vale la pena di costruire direttamente»; e il capitalismo sempre più finanziario che trasforma anche l’ambientalismo in business. Occorre, secondo Gozzi, un approccio più realistico alla transizione green, che ponga al centro l’analisi costi-benefici e che acceleri il processo decisionale, assai lento rispetto alla concorrenza americana e cinese. In altre parole: la transizione green europea deve essere resa a pari condizioni rispetto a quelle dei concorrenti internazionali, altrimenti per il nostro patrimonio industriale c’è il rischio debacle, con tutte le conseguenze negative possibili sul piano economico, occupazionale e sociale. Per evitare equivoci, va sottolineato come Gozzi sia tutt’altro che contrario alla transizione. Anzi, nelle sue attività industriali l’ha sposata con i massimi investimenti possibili. Tanto che, recentemente, Duferco ha inaugurato a San Zeno Naviglio (Brescia) il primo laminatoio d’Europa totalmente funzionante con energie rinnovabili. Uno dei più importanti investimenti (250 milioni di euro) in siderurgia negli ultimi anni a livello italiano ed europeo.







Ma torniamo ai grandi temi della nostra intervista. Bene, dunque, la posizione italiana. Il Piano Mattei, ad esempio, con i suoi 5,5 miliardi di euro di dotazione (3 dal Fondo sociale italiano per il clima e 2,5 dalla cooperazione italiana), può da una parte contribuire ad evidenziare in Europa le potenzialità della nostra manifattura, che è la seconda del continente per fatturato ed export, e dall’altra può rafforzare il ruolo dei Paesi Mediterranei, che conterebbero di più nel contesto continentale e con una visione più realista sulle cose dell’industria. Inoltre, potrebbe essere il preludio per un reshoring mediterraneo, operazione in grado di attenuare i rischi delle filiere lunghe e quelli geopolitici (ad esempio, la crisi del Mar Rosso).

 

D: Qual è l’orientamento dell’Europa nei confronti dei problemi del settore siderurgico?

R: C’è grande insofferenza verso l’acciaio in generale e verso il ciclo primario, quello da altoforno, in particolare. Per molti burocrati europei il problema è se valga la pena produrlo. Pensate che una volta ho parlato con un funzionario dell’Unione Europea del team Margrethe Vestager, il commissario europeo per la concorrenza. Gli posi questa domanda: «Ma non è che andando avanti così si sacrifica l’industria di base, il ciclo primario?» E lui mi rispose: «Che problema c’è?» Non era importante, per lui, la perdita di un settore industriale e di posti di lavoro.

D: Come cambieranno le cose con l’introduzione della Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism: applica una tassa sul carbonio alle importazioni di determinati prodotti nei paesi dell’Ue e mira a garantire che i prodotti importati rispettino gli stessi standard ambientali di quelli Ue; Ndr)?

R: Con l’entrata in vigore della Cbam si è anche definito un décalage nella concessione di quote gratuite per gli altoforni europei. Ora: con la siderurgia secondaria, quella ad arco elettrico, si può produrre qualsiasi tipo di acciaio, ad eccezione di quello utilizzato per la stampa profonda, che è richiesto nell’automotive. Non è chiaro se sia stata una decisione consapevole, ma l’Europa con la Cbam ha creato una nuova dipendenza strategica dopo il colpo subito dall’industria automobilistica europea con il passaggio all’elettrico. Ancor più si potrebbe favorire l’ingresso sul mercato europeo di auto cinesi a prezzi notevolmente inferiori. Infatti l’Europa si trova ora dipendente per l’approvvigionamento di acciaio per le carrozzerie da paesi asiatici, che a loro volta sono grandi produttori di auto, creando così uno svantaggio competitivo per l’industria europea delle quattro ruote. Ma c’è di più.

D: Cos’altro c’è da segnalare a proposito della Cbam?

R: La Cbam imponendo alle aziende europee di tracciare le attività di fornitori lontani, oltre che produrre sovra-costi per le prime e grandi mal di testa per gli imprenditori, può aprire la strada ad una falsa documentazione. Anche la Cbam è un portato della Vestager.

Margrethe Vestager, il commissario europeo per la concorrenza. Secondo Gozzi, in Unione Europea c’è grande insofferenza verso l’acciaio in generale e verso il ciclo primario, quello da altoforno, in particolare. Per molti burocrati europei, come la Vestager, il problema è se valga la pena produrlo. Per lei, non sembrerebbe importante la perdita di un settore industriale e di posti di lavoro.

D: Cosa fare per invertire la rotta? Per evitare che l’Europa perda terreno sul piano industriale ed economico a causa del suo assetto istituzionale e delle sue scelte politiche?

R: Anzitutto deve cambiare il modello decisionale: la velocità con cui corrono americani e cinesi è tutt’altra, e l’Europa deve adeguarsi. Certo, non è facile, perché gli Stati membri mantengono un ruolo importante, ma non è impossibile. Si prenda esempio dalla Nato: alla fine, la Svezia è entrata a farne parte in soli 14 mesi. Ma ci sono altri aspetti che potrebbero aiutare a cambiare rotta.

D: Ad esempio, quali altri aspetti?

R: È necessario cambiare paradigma e cultura industriale, combattendo per proteggere il settore manifatturiero europeo e mantenere l’Europa come uno dei principali mercati mondiali. Bisogna riconoscere che ogni area industriale nel mondo è rilevante e occorre lavorare per contrastare la desertificazione industriale dell’Europa. L’Europa deve rimanere un mercato forte e competitivo, poiché la mancanza di lavoro porta anche a minori entrate per gli acquisti. Attualmente siamo al terzo posto dopo gli Stati Uniti e la Cina, ma potremmo presto essere superati dall’India, che sta crescendo rapidamente.

Il caro acciaio sta deprimendo l’industria italiana. La manifattura del nostro Paese, già in un contesto di debolezza congiunturale, sta subendo fortissimo, l’impatto di quotazioni alle stelle di quella che è una materia prima cruciale. Parliamo di automotive, costruzioni, macchine, oil &gas. Tutti settori trainanti per la nostra economia che fanno ampio uso di acciaio grezzo e soprattutto di semilavorati e componenti. Tutte le filiere citate, non a caso, hanno visto rallentare nel 2022 ricavi e redditività, che invece erano migliorati nel 2021. Fonte siderweb

D: Qual è l’ultimo aspetto da considerare?

R: Dobbiamo avere il coraggio intellettuale di valutare ciò che è andato bene e ciò che è andato male. Per me, le cose sono andate male. Negli ultimi 20 anni non abbiamo sfruttato per niente le condizioni ultra-favorevoli per il Vecchio Continente: avevamo il mercato più ricco (ora è il terzo dopo Usa e Cina), i tassi più bassi del mondo (che avrebbero consentito enormi investimenti in innovazione) e l’energia a basso costo (particolarmente in Germania che aveva stipulato patti particolari con la Russia). Ecco, dopo 20 anni si può dire che qualcosa non ha funzionato. Siamo un mercato di vecchi che pretende di decidere per gli altri. Quindi occorre un approccio umile, senza presunzione; e un discorso realistico. Perché se continuiamo così, siamo morti.

D: Ci sono altri aspetti in cui seconde Lei l’Eu sta agendo negativamente per l’industria?

R: Prendiamo ad esempio il settore dell’acciaio: da vent’anni cerchiamo di far comprendere alla Commissione europea che il rottame è la nostra principale fonte di materia prima. Peraltro, i forni elettrici rappresentano la maggiore forma di economia circolare in Europa. Tuttavia, non siamo riusciti a far riconoscere il rottame come materia prima “critica” dall’Europa. Il risultato è che quest’anno 20 milioni di tonnellate di questo materiale europeo andranno ai turchi, che lo sovvenzionano a livello statale e poi lo rivendono a prezzi più alti sui mercati europei. Abbiamo lavorato nel 2014 con Antonio Tajani (al tempo Commissario Europeo per l’industria) e abbiamo ottenuto anche un voto del Parlamento europeo, ma una lobby di commercianti tedeschi di rottame ha bloccato tutto, poiché 20 milioni di tonnellate questo materiale rappresentano un business da 120-150 milioni di euro all’anno.

La Cina rimane il principale produttore di acciaio ma a settembre c’è stato un brusco calo per problemi interni: il Paese ha una sovracapacità produttiva di circa 150 milioni di tonnellate all’anno

D: Insomma, che giudizio dare all’Europa?

R. Negativo: se dovessi dare un voto, darei un 5 o un 4.

D: A parte la lobby tedesca, in generale perché l’Europa mostra insofferenza per l’acciaio e per l’industria in generale?

R: C’è anche una questione culturale: è prevalso in Europa un certo estremismo ambientalista, per cui i politici preferivano inseguire Greta Thunberg che organizzare vertici sull’industria. Questa tendenza ha contrassegnato tutte le politiche europee, non solo di sinistra ma anche di destra. L’altro trend è stato ed è il mercatismo globalista. Il ceto politico europeo, soprattutto nei paesi del Nord, ha l’illusione che si possa comprare tutto ovunque. È unica nel mondo questa mentalità, perché nelle principali aree economiche come gli Stati Uniti, la Cina, l’India e il Giappone, tutti cercano di difendere i loro asset strategici e industriali. Questo approccio favorisce sempre la terza tessera del puzzle, che è il capitalismo sempre più finanziario. La finanza, infatti, trasforma anche l’ambientalismo in business, come nel caso dell’Ets.

D: Che capita con gli Ets?

R: Le imprese ricevono una certa quantità di crediti di carbonio, alcuni dei quali gratuiti e altri che da acquistare. Ogni credito rappresenta la possibilità di emettere una tonnellata di CO2. Ecco, la finanza, tipo il potente fondo BlackRock (società di investimento con sede a New York. Vanta un patrimonio totale di circa 9.420 miliardi di euro al 2023), specula su questi crediti, che all’industria costano di più. Ma perché dobbiamo essere condizionati da queste manovre? Perché come industriale devo comprare a 70 quello che potrei acquistare a 30? Perché il sistema europeo lo consente? Che Europa è?

Lunedì 16 ottobre 2023 è stato inaugurato il nuovo laminatoio Sbm di Duferco Travi e Profilati a San Zeno Naviglio, il più grande laminatoio travi d’Europa, frutto di un investimento strategico di 250 milioni di euro, destinato a rivoluzionare radicalmente la capacità e la potenzialità industriale del Gruppo Duferco. Il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso con presidente del Gruppo Antonio Gozzi ha tagliato il nastro inaugurale. Alla cerimonia sono stati presenti anche il Governatore di Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Questa novità dota il Gruppo Duferco di un impianto produttivo interamente verticalizzato, ottimizzando l’efficienza complessiva del processo industriale sotto tutti gli aspetti

 

D: Si può scorgere, dietro il mercantilismo globalista, il matrimonio tra la finanza americana e una parte della Sinistra europea che, esaurita la lotta di classe, non sapeva a cosa aggrapparsi?

R: C’era e c’è una generazione di anticapitalisti che hanno perso la battaglia contro il capitalismo e si sono convertiti a un estremismo ambientalista, che alla fine è sempre anticapitalista. Non capiscono che senza imprese e tecnologia non c’è transizione. Le imprese non sono solo il problema, ma anche la soluzione al cambiamento climatico. Se non si comprende questo concetto, a causa di una barriera ideologica, siamo destinati a fallire. Infatti, l’Europa non sa cogliere neppure le recenti grandi chance che si erano aperte con Biden.

D: Che c’entra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden?

R: C’è un fatto che fa capire quando sia auto-lesionista un certo atteggiamento dell’Unione Europea. Dopo i dazi di Trump del 25% alle importazioni di acciaio (con conseguenze molto negative per noi), Biden, l’ultimo presidente Usa cui stia un po’ a cuore l’euro-atlantismo, aveva proposto la realizzazione di uno spazio di mercato di libero scambio, che doveva ricomprendere gli States, il Canada e l’Europa. L’unica condizione che ci chiedeva era il mantenimento di dazi nei confronti della Cina. Ovviamente ci siamo precipitati dal Commissario europeo per il Commercio Valdis Dombrovskis, il “Falco di Riga”, e gli abbiamo detto: «Prendiamo al volo questa occasione, perché poi, forse, torna Trump!». Ma Dombrovskis ci ha risposto che non si può, che è contrario alle regole del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio.

Racconta Gozzi: il presidente Usa Joe Biden. Biden, l’ultimo leader Usa cui stia un po’ a cuore l’euro-atlantismo, aveva proposto la realizzazione di uno spazio di mercato di libero scambio, che doveva ricomprendere gli States, il Canada e l’Europa. L’unica condizione che chiedeva all’Italia era il mantenimento di dazi nei confronti della Cina. Ovviamente avremmo voluto prendere al volo questa occasione, ma il Commissario europeo per il Commercio Valdis Dombrovskis ha risposto che non si può, che è contrario alle regole del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio

D: Parliamo dell’iper-regolamentazione europea, quella che impone ad una platea sempre più vasta di aziende di presentare il bilancio di sostenibilità. Ecco: la formazione di queste regole è iniziata 10 anni fa; ma l’Italia non è stata molto presente ai tavoli continentali che contano.

R: Certo: noi abbiamo grandi responsabilità. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a mandare funzionari competenti a Bruxelles. In passato, invece, c’era l’abitudine di assegnare incarichi a politici bocciati nelle competizioni locali o nazionali. Oggi, invece, molti leader politici si candidano alle elezioni europee sapendo che poi non svolgeranno effettivamente il mandato a Bruxelles. Ciò dimostra una visione delle attività comunitarie strumentale a interessi “di casa”.

D: A proposito di questa iper-regolamentazione, quale impatto può avere sulla siderurgia nazionale?

R: Non mi pare che in tutta questa vicenda si sia applicata una valutazione costi-benefici. E lo dico da presidente della siderurgia più decarbonizzata d’Europa: certo noi industriali italiani dell’acciaio non siamo “negazionisti”. Ma promuoviamo una politica per fattori, che miri a incentivare l’obiettivo della competitività industriale.

Recentemente, Duferco ha inaugurato a San Zeno Naviglio (Brescia) il primo laminatoio d’Europa totalmente funzionante con energie rinnovabili. Uno dei più importanti investimenti (250 milioni di euro) in siderurgia negli ultimi anni a livello italiano ed europeo

D: E poi, anche in certe vicende abbiamo la nostra responsabilità. Quella dell’Ilva è colpa dell’Europa?

R: Lì l’errore lo ha fatto Carlo Calenda, allora ministro dello Sviluppo economico. Guidò la privatizzazione e fece un bando appiattito sulle regole della Vestager. Il risultato è che l’impianto finì nelle mani della franco-indiana Arcelor Mittal, disinteressata allo sviluppo locale e alla risoluzione dei tanti problemi. Chi aveva speso molto per la manutenzione erano i Riva (la famiglia che guidò lo stabilimento dal 1995 sino all’inchiesta della magistratura per reati ambientali del 2012; Ndr) che io ho difeso eroicamente; ma in ciò ero perfettamente isolato. Sempre sull’ex-Ilva, va detto che certe regole europee valgano solo per noi italiani.

D: Quali regole europee valgono solo per noi italiani, nel caso dell’ex Ilva?

R: I tedeschi hanno stanziato due miliardi e 200 milioni di euro per Thyssenkrupp, per costruire a Duisburg una cokeria verde da 2.000 tonnellate, mentre i francesi hanno dato 1,8 miliardi di euro ad Arcelor Mittal a Dunkerque. Quindi, se gli Stati possono investire così tanto all’estero, non si capisce perché l’Italia non possa spendere due miliardi per la decarbonizzazione dell’ex-Ilva. Sono “aiuti di Stato” solo per noi?

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Veduta dello stabilimento dell’ex Ilva. Secondo Gozzi, nella gestione dell’ex Ilva sbagliò in primis Carlo Calenda, allora ministro dello Sviluppo economico. Guidò la privatizzazione e fece un bando appiattito sulle regole della Vestager. Il risultato è che l’impianto finì nelle mani della franco-indiana Arcelor Mittal, disinteressata allo sviluppo locale e alla risoluzione dei tanti problemi.Adesso il problema sono i costi da sostenere per manutenzione impianti e decarbonizzazione. Per Gozzi dovrebbe farsene carico lo Stato, con circa due miliardi di investimento. Altrimenti, sarà difficile trovare un privato che abbia convenienza a rilevare il tutto.

D: Si dice che il Governo stia cercando di dar vita ad una cordata di privati per salvare l’ex Ilva.

R: Non si può chiedere ai privati di accollarsi 120 milioni di debiti verso l’indotto e altri 70 verso altre aziende. E poi ci sono altri due ostacoli da superare: quello della manutenzione, che non si fa con accuratezza dai tempi dei Riva, e quello della decarbonizzazione, che costerebbe due miliardi. Dovrebbe farla lo Stato, con una partecipazione transitoria. Risolte queste questioni, se no può parlare.

D: E cosa dovrebbe fare il governo Meloni per sostenere le posizioni italiane in Europa?

R: L’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, con un’economia industriale di grande rilievo. Anche nel 2023, un anno di rallentamento economico, abbiamo registrato 600 miliardi di euro di esportazioni su un totale di 1.200 miliardi di fatturato. Questo dimostra la nostra forte competitività e la capacità di diversificare la produzione in molti settori in cui siamo leader. È il nostro biglietto da visita principale nei confronti degli altri paesi. Quando siamo criticati per il nostro alto debito pubblico, questa è la carta che possiamo giocare.

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Bruxelles, Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea. Secondo Gozzi, il governo Meloni per sostenere l’Italia in Europa deve far valere il suo ruolo di gigante economico. L’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, con un’economia industriale di grande rilievo. Anche nel 2023, un anno di rallentamento economico, abbiamo registrato 600 miliardi di euro di esportazioni su un totale di 1.200 miliardi di fatturato. Questo dimostra la nostra forte competitività e la capacità di diversificare la produzione in molti settori in cui siamo leader. È importante sottolineare i temi dell’industria e le politiche industriali che consentono alla manifattura europea di sopravvivere in questa fase difficile di transizione.

D: E quindi?

R: Siamo un gigante economico: invece, siamo poco influenti sotto un profilo politico. Dunque, dobbiamo fare questo passo in avanti, e riuscire ad essere autorevoli ed ascoltati anche in questa seconda dimensione. Il governo deve far rispettare l’Italia, far valere il suo ruolo. Non possiamo permetterci di essere trattati come San Marino. È invece importante sottolineare i temi dell‘industria e le politiche industriali che consentono alla manifattura europea di sopravvivere in questa fase difficile di transizione.

D: Nel contesto da Lei delineato come le pare che si stia muovendo il governo Meloni?

R: Il governo italiano sta facendo alcune cose giuste. Come ho spiegato in precedenza, quella che mi emoziona di più è il Piano Mattei (un nuovo partenariato tra Italia e Stati africani, e al contempo un piano energetico e sociale; Ndr) perché si tratta di abbassare il baricentro degli equilibri europei: il Mediterraneo deve diventare sempre più importante dal punto di vista economico, demografico e strategico. Bisogna utilizzare l’empatia culturale di cui gli italiani godono in Nord Africa e nei Balcani per promuovere lo sviluppo in quelle aree del mondo, e ciò consentirebbe anche la crescita del sistema economico italiano. Potrebbero emergere nuove opportunità, ad esempio il reshoring mediterraneo.

La premier Giorgia Meloni.Secondo Antonio Gozzi, il governo italiano sta facendo alcune cose giuste. Come il Piano Mattei, perché si tratta di abbassare il baricentro degli equilibri europei: il Mediterraneo deve diventare sempre più importante dal punto di vista economico, demografico e strategico. Bisogna utilizzare l’empatia culturale di cui gli italiani godono in Nord Africa e nei Balcani per promuovere lo sviluppo in quelle aree del mondo, e ciò consentirebbe anche la crescita del sistema economico italiano. Potrebbero emergere nuove opportunità, ad esempio il reshoring mediterraneo

D: Il reshoring mediterraneo?

R: Sono sotto gli occhi di tutti le grandi incertezze generate dalle supply chain allungate e dalla crisi del traffico commerciale nel Mar Rosso. Se le forniture che oggi riceviamo dall’estremo oriente le potessimo reperire dal Nord Africa, dai Balcani, dall’Italia meridionale e dalla Spagna, sarebbe un grande vantaggio strategico ed economico per l’industria del Belpaese.

D: Invece, cosa sta facendo di sbagliato il governo italiano?

R: Sulle politiche energetiche il governo ha realizzato un piano di misure strutturali, l’Energy Release. Questo prevede contratti triennali di somministrazione a prezzi ridotti per clienti finali prioritari (industriali, Pmi, energivori); tuttavia, per impianti di potenza, la tariffa incentivante per Mwh è di 120 euro; ecco: non riusciamo a fare come Francia e Germania che hanno stabilito un prezzo di 60 euro.

Costruzioni, automotive e macchinari occupano i 2/3 del consumo di acciaio in Europa. Fonte Eurofer

D: Prima abbiamo citato l’automotive. Alcuni esponenti del Governo italiano vorrebbero modificare in Eu alcuni vincoli di politica industriale: ad esempio il divieto di immatricolare veicoli a scoppio previsto per il 2030 e quello di circolazione stabilito per il 2035.

R: In effetti c’è stata battaglia, in Europa, sulla tassonomia, e cioè sulle tecnologie che possono essere considerate sostenibili dal punto di vista ambientale. Credo che la prima cosa che dovremmo fare, in Italia, è un confronto sulle politiche industriali che vogliamo portare avanti, perché è necessario definire un elenco di priorità. Solo allora, sulla scorta di ciò, sarebbe utile e profittevole farsi sentire in Europa.

D: Occorre un piano industriale per l’Europa?

R: Noi del settore privato non possiamo essere sostenitori dei piani centralizzati tipo Gosplan sovietico (l’agenzia dei famosi “piani quinquennali”). Per noi, la politica industriale significa anzitutto controllare il costo dell’energia. Come Europa, poi, dovremmo assicurarci che il rottame non diventi uno svantaggio competitivo. Queste sono politiche industriali. È inoltre importante incentivare la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, come è stato fatto in Italia con l’iniziativa Industria 4.0, che sta andando avanti bene.

(Ripubblicazione dell’articolo del 31 gennaio 2024)














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