Marco Bonometti a 360 gradi su Industria, Governo e futuro del Paese

||Settori di business della Omr. Foto presa dal sito Omr automotive|Sergio Marchionne

di Filippo Astone ♦︎ Le idee del Presidente di Confindustria Lombardia e della Omr su automotive, flat tax, salario minimo, acciaio, diesel, politica industriale. Con due proposte choc: abolire completamente il cuneo fiscale e creare un unico contratto nazionale di lavoro, invece degli 800 oggi esistenti.  E…

Produce componenti per autoveicoli in provincia di Brescia e ha trasformato l’azienda di famiglia in una multinazionale da 650 milioni di euro e 3.600 dipendenti, con successo nel mondo. Sogna una riscossa dell’industria italiana e una politica industriale che la sostenga. Non può sentir parlare di reddito di cittadinanza, flat tax pagata a debito, salario minimo, sciocchezze pseudo-ecologiste sul diesel. Ritiene l’attuale Governo una sciagura. È un industriale vero, verace, appassionato, un animale antipolitico per eccellenza, uno che ciò che pensa dice e che non si preoccupa mai di piacere o di manipolare il consenso.







Lui è Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia e presidente e ad della Omr, acronimo di Officine meccaniche rezzatesi, che ha compiuto cent’anni poche ore fa. In passato ha guidato gli industriali di Brescia e ha salvato dal fallimento il Brescia Calcio. Con Bonometti Industria Italiana ha parlato a 360 gradi di industria, di automotive, di congiuntura e di futuro del nostro Paese. Non ha parlato – perché non si può in questa fase e comunque non rientra nelle nostre competenze – dell’indagine per presunto finanziamento illecito ai partiti, per la somma di 31mila euro. Indagine che, per quanto ci riguarda, avremmo anche evitato di nominare, visto che nulla c’entra con i nostri temi e ha tutta l’aria di un ballon d’essai destinato a sgonfiarsi presto. Ma, per non essere accusati di omissione da alcuni colleghi giornalisti, la citiamo comunque. E passiamo subito al quid industriale della nostra intervista, la prima dopo tanti mesi, peraltro.

Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia e presidente e ad della Omr

Partiamo da Omr: di cosa si occupa la sua azienda e come sta affrontando la debolezza della congiuntura? 

Omr è stata fondata nel 1919 da mio nonno materno Francesco Tirini e da suo fratello Battista. Si chiamava “F.lli Tirini” e si occupava della costruzione di macchine per la lavorazione del marmo. L’azienda ha virato sulle lavorazioni meccaniche per veicoli industriali nel 1955. Io sono entrato in azienda nel 1977, quando ancora ero uno studente di ingegneria meccanica al Polimi. L’azienda si è progressivamente specializza in componentistica per autovetture e veicoli industriali (motore, trasmissione, telaio e sospensioni) e, dalla fine degli anni Novanta, ha iniziato un percorso di internazionalizzazione. Oggi, oltre a nove fabbriche in Italia, abbiamo stabilimenti nei cinque continenti e riusciamo a cogliere le opportunità nei vari Paesi che crescono. Siamo in crescita in Brasile, India, Cina e Usa e rallentiamo in Italia. Nel 2017 abbiamo fatturato 650 milioni. Pensiamo di chiudere il 2018 a 730 e di crescere ancora nel 2020. Nonostante il declino dell’auto in Europa.

L’automotive però, al di là della vostra resilienza, è in un momento di profonda crisi. Come se ne esce? 

Da settembre 2018 rileviamo il rallentamento del mercato dell’auto. Se consideriamo che su questa crisi si è innestata la nuova legge sull’ecobonus che penalizza ulteriormente il settore, possiamo concludere che, se non si corre ai ripari, non c’è possibilità di una ripresa. Bisognerebbe dunque innanzitutto eliminare l’ecotassa che penalizza le produzioni italiane e avvantaggia quelle straniere: noi non facciamo auto elettriche. Come Confindustria abbiamo fatto un tavolo sul settore e abbiamo avanzato al governo proposte significative: ora vorremmo avere un incontro per avere un confronto sugli aspetti tecnologici e innovativi dell’automotive. Ma il punto è anche che l’auto va inquadrata in un contesto europeo: persino la Cina, per la prima volta, ha registrato nel 2018 un calo del 4% nel mercato auto (che equivalgono a 27-28 milioni di veicoli dei 100 milioni che si producono in tutto il mondo). In un contesto complesso come quello attuale, in Europa è mancata una politica industriale comune dell’auto che sarebbe necessaria per affrontare tutte le sfide rivoluzionarie che abbiamo di fronte: dall’auto elettrica, alla guida autonoma, alle alimentazioni a metano e idrogeno.

Settori di business della Omr. Infografica presa dal sito Omr automotive

In questo contesto, l’ipotesi di eliminare il diesel, che è una fonte spesso meno inquinante dell’elettrico, contrariamente a ciò che forse professa l’uomo della strada, è probabilmente un azzardo. Lei cosa ne pensa? 

L’eliminazione del diesel è un suicidio: nel pianeta l’inquinamento da CO2 provocato dall’auto è solo il 7% del totale. Per alimentare i veicoli elettrici, invece, sarà necessario immettere nell’atmosfera una quota suppletiva del 30% di CO2, perché non disponiamo delle energie rinnovabili, che sono qualcosa che andava pensato e progettato anticipatamente e a suo tempo, e non certo adesso. I diesel che inquinano sono quelli vecchi. Quelli moderni non solo non inquinano, ma addirittura puliscono l’aria. Oltretutto, in Italia l’industria dei motori diesel è una eccellenza di livello mondiale, distruggerla così significa veramente farsi del male senza motivo. Più che eliminare il diesel, il governo dovrebbe fare un passo indietro sull’ecotassa e incentivare l’acquisto di motorizzazioni pulite come Euro 6 ed Euro 7, per sostituire progressivamente un parco macchine che attualmente è molto obsoleto. Dall’altra parte abbiamo chiesto una politica industriale europea dell’auto dove vanno immesse risorse europee, nazionali e regionali per il settore. È necessario strutturare un piano per l’auto dove concentrare gli investimenti in tecnologia, innovazione di processo e prodotto, comunicazione, sostenibilità, economia circolare.

 

Già, economia circolare…

Il problema dell’economia circolare è che mancano le regole che chiediamo da anni. Ovvero quelle che consentirebbero di fare la classificazione dei rifiuti speciali da cui dipende la sotto-classificazione dei prodotti riciclabili. Per continuare a produrre bene e in modo sostenibile sono necessarie regole certe.

 

A suo avviso, anche la crisi dell’acciaio si inserisce in questo contesto di mancanza di comuni intenti di livello europeo? Dipende molto dall’auto? Come se ne esce?

L’acciaio ha passato due o tre anni stabili, poi sono intervenuti i dazi Usa e non sono state, contestualmente, tutelate le produzioni europee. Dunque se ne sono avvantaggiate le aziende cinesi che invadono il mercato europeo e riescono perché per loro lo scopo della produzione non è il profitto, ma creare occupazione: fanno dumping in maniera indiscriminata. La responsabilità è dell’Europa: l’utilizzo dell’acciaio è diminuito e inoltre le opere pubbliche si sono fermate: questo pesa soprattutto in Italia dove, anche con il Decreto Sbloccacantieri, non è partito ancora un cantiere.

 

Torniamo all’auto e alle sue evoluzioni. Come valuta la fusione tra Renault e Fca?

Fca era da tempo in cerca di un’aggregazione. Circa cinque anni fa Sergio Marchionne aveva previsto che al mondo sarebbero rimasti 5 o 6 produttori perché sarebbero stati necessari investimenti sempre più ingenti per sostenere i costi delle piattaforme necessarie a realizzare l’innovazione richiesta dai clienti. Da anni si cercavano soluzioni. A parte Gm che è stata un’incompiuta, oggi l’aggregazione più strategica è proprio quella della Renault con la Fca. Se venisse coinvolto anche il mondo Nissan, ne risulterebbe la più grande casa auto al mondo, davanti a Volkswagen e Audi, con una diversificazione amplissima in termini di prodotto e tecnologie e con una presenza globale in tutti i mercati di Asia, Usa ed Europa. Auspichiamo dunque che il merger vada in porto. Il management di Fca non ha aderito per ora alle richieste dei francesi, per salvaguardare la produzione italiana che è eccellente, grazie ai salti tecnologici e innovativi compiuti dagli stabilimenti locali. La verità è che alcuni stabilimenti italiani sono migliori e tecnologicamente più competitivi di altri di Renault. L’accordo è strategico, ma deve essere concluso salvaguardando l’indipendenza e non cedendo all’assuefazione con i francesi. Questo è possibile solo conservando rapporti di forza equi in termini di azionariato, che sono possibili anche con l’eventuale ingresso di Nissan. Ma soprattutto è fondamentale la governance: è fondamentale chi comanda, chi definisce i modelli e le strategie industriali.

Linea di produzione Fca

Marchionne è ricordato come il salvatore della Fiat. Non crede che il manager abbia in realtà fatto più che altro operazioni di equilibrismo finanziario sfruttando il Chapter 11 in cui era finita Chrysler e trattando per inglobare un gruppo in fin di vita come Gm? In più avendo alle spalle un azionista poco propenso a investire. Un azionista che non aveva mai fatto un aumento di capitale se non due anni fa, aumento di capitale che poi ha ripreso attraverso il dividendo straordinario con l’operazione Magneti Marelli. Insomma, si potrebbe dire che Marchionne ha fatto le nozze coi fichi secchi fin che ha potuto, ma poi non poteva durare…

Di fatto Marchionne ha salvato la più grande industria italiana, la Fiat, che all’epoca era di fatto fallita. È riuscito a creare un gruppo internazionale senza avere più risorse alle spalle, se non la sua credibilità, fattore fondamentale trovare l’appoggio del governo Usa. Senza di lui non saremmo qui a raccontarci dell’auto. Marchionne è stato un elemento determinante della riscossa dell’industria italiana. Anche se, come dice lei, certamente ha dovuto in qualche modo fare le nozze coi fichi secchi.

I dati recenti sull’industria italiana sono debolucci…

L’industria italiana sta andando molto male. Noi lo stiamo dicendo da quando si è insediato questo Governo. Da settembre avevamo fatto la previsione sui dati, ma anche calandoci nella psicologia delle aziende. Quando diminuiscono gli ordini dall’estero e gli investimenti calano, si ferma la produzione e non si va avanti. Abbiamo davanti due anni, fino a fine 2020, di lacrime e sangue. Inoltre, ci distinguiamo in Europa in senso negativo per la serie di norme recenti scritte per ragioni che non sono certo di facilitare lo sviluppo dell’industria. Quota 100,  reddito di cittadinanza, salario minimo e l’ipotetica flat tax: sono misure che vengono finanziate dal debito e non creano sviluppo.

Sergio Marchionne

Non le piace il salario minimo? Potrebbe essere un modo per uscire dal cortocircuito che ci fa essere in Paese con le minori retribuzioni di Europa…

Macché. Salario minimo vuol dire 6,5 miliardi di euro a carico delle imprese. Aumentare la competitività e il potere di acquisto sono le priorità: il salario minimo fa aumentare invece i costi indotti e si ottiene l’effetto contrario sulla competitività. Nell’industria nessuno paga poco i dipendenti: ci sono le regole e i contratti nazionali e quelli andrebbero fatti rispettare. Se si vogliono tutelare i raiders che portano i cibi a casa o alcuni lavoratori agricoli, sarebbero più efficaci delle normative ad hoc. Per rilanciare il mercato interno e i consumi la strada è abolire il cuneo fiscale, dando tutto il beneficio al lavoratore, senza sovraccaricare le imprese di costi suppletivi e difendendone nel contempo la competitività. Il potere d’acquisto schizzerebbe se a un operaio che oggi guadagna mille euro e costa all’azienda 2500, venisse trasferito tutto il delta di costo. Il salario minimo equivale invece a riportare in vita la scala mobile e snatura la contrattazione di secondo livello legata a meritocrazia e produttività.

 

Ma è davvero sempre così? Non sarebbe una tutela maggiore per un operaio – e anche per la sua fidelizzazione verso l’azienda che gli dà lavoro – avere la certezza che ha diritto a una retribuzione che garantisce uno status di vita dignitoso?

In realtà il salario minimo non serve perché ci sono già i contratti nazionali che fissano i livelli salariali al di sotto dei quali non si può scendere. In seconda battuta, i contratti aziendali prevedono di distribuire la ricchezza generata in fabbrica. Il sindacato ha dato molto spazio alla contrattazione aziendale che è un riconoscimento delle capacità professionali della persona ed è legata alla flessibilità, ovvero al fatto che un operaio che lavora di più prenda più soldi.

Da sinistra, Fabio Storchi (presidente di Federmeccanica), Vincenzo Boccia (presidente di COnfindustria) e Marco Bonometti (numero uno degli industriali bresciani).jpg
Da sinistra, Fabio Storchi (presidente di Federmeccanica), Vincenzo Boccia (presidente di Confindustria) e Marco Bonometti (presidente di Confindustria Lombardia e presidente e ad della Omr)

 

Ma la contrattazione così com’è le piace? Non ha bisogno di essere riformata?

Opterei per la semplificazione. Bisogna rivedere tutti gli 800 contratti in essere in Italia, facendo un contratto unico dove il 40% della retribuzione si affida al salario minimo e l’altro 60% alla contrattazione.  Inoltre, noi siamo il Paese con il maggior numero di giorni ferie e permessi, che vanno  a scapito della competitività. In Usa è molto più semplice anche per il collaboratore: ci sono tariffe fissate, che possono essere accettate o rifiutate e il livello salariare dipende dalla quantità di lavoro. Infine, bisogna orientare la produzione su prodotti vendibili all’estero, ma questa è un’altra storia.

 

E la flat tax?

La flat tax come è strutturata oggi non ha le coperture: sarebbe possibile solo con l’aumento del debito pubblico. Una follia! Una condizione invece indispensabile oggi per crescere, anzi per sopravvivere, è congelare il debito. Finora abbiamo avuto Mario Draghi alla Bce che con il Quantitative Easing ha reso possibile minimizzare il peso degli interessi. Ma fra poco non ci sarà più. E allora? Che facciamo? Aumentiamo i debiti e balliamo sull’orlo del baratro? Facciamo debiti per finanziare gli interessi? Dovremmo invece incidere sul denominatore del rapporto debito / pil, aumentando il pil e dunque il fatturato delle aziende.  Per arrivare a questo risultato sono però indispensabili politiche industriali efficaci ed adeguate. Ma oggi non se ne sente nemmeno parlare. E questo è molto preoccupante.

 

Quale ruolo può avere Confindustria? Come può cambiare?

Confindustria dovrebbe aumentare il proprio ruolo di rappresentatività e essere il soggetto che sottolinea quando i provvedimenti dei vari governi vanno o no nell’interesse generale dei cittadini. Confindustria è oggi l’unico partito di opposizione serio. Nel futuro il suo ruolo è di rappresentanza pura, rappresentanza degli interessi generali: perché l’industria non è solo di una parte, ma di tutti, è un bene sociale. La difesa dell’impresa è la difesa della società. Dunque Confindustria più rappresentativa, più forte e flessibile. In concreto raccogliendo l’adesione di tutte le imprese non più associate. A cui dobbiamo comunicare con forza che Confindustria è l’unica realtà che può contribuire alla crescita del Paese e dell’occupazione.














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