C’entra, con la crisi dell’Ex-Ilva, l’esasperato soggettivismo istituzionale degli ultimi due esecutivi, condotta che non ha consentito ai decisori di avere un quadro completo degli effetti delle proprie scelte, e che li ha portati a mettere sullo stesso piano acciaio e cozze, miliardi e milioni. C’entra la mancanza di dialogo con i rappresentanti dell’industria e del mondo del lavoro; se così non fosse, certi provvedimenti sarebbero quasi inspiegabili: in poche mosse, i due governi sono riusciti a disattendere la parola data dallo Stato, a compromettere la reputazione del Paese, a mettere a repentaglio più settori della manifattura – nonché migliaia di posti di lavoro – e a pregiudicare l’opera di risanamento ambientale iniziata a Taranto dalla multinazionale Arcelor Mittal.
Tutto ciò, senza avere un piano B. Perché non c’è niente da fare: la “colpa” è da una parte sola, visto che anteriormente al primo annientamento dello scudo penale per il suo management, mai il colosso indiano-franco-ispanico aveva detto una parola sul ritiro dal contratto siglato due anni fa; e dato che solo dopo la seconda cancellazione (post reintroduzione) dello scudo Arcelor Mittal ha sbattuto la porta. Ora c’è una sola cosa da fare: tornare indietro. «Operazione che non sarebbe umiliante, ma che anzi consentirebbe allo Stato di riprendere in mano la situazione» – afferma il presidente di Federmeccanica Alberto Dal Poz, che abbiamo intervistato. Questa volta, però, sarebbe opportuno che il governo non si chiudesse a riccio e ascoltasse la voce di industriali e lavoratori.
Perché la crisi dell’ex-Ilva è così pesante per l’industria italiana?
«Perché per avere filiere robuste, soprattutto nella meccanica – e ciò in un Paese dove ci si salva con l’export e dove il mercato indoor langue da anni – occorre disporre di forti produttori di materia prima, di acciaio. In certi settori, come ad esempio nella cantieristica, è in buona sostanza una pre-condizione per lavorare. E quello che sta accadendo a Taranto finisce per collegarsi a ciò che sta succedendo su scala globale, e che ha effetti pesanti sulle nostre filiere. La crisi manifatturiera italiana è in buona parte ascrivibile alle tensioni internazionali: alla guerra dei dazi tra Usa e Cina, ad esempio. Questi contrasti hanno finito per compromettere le nostre esportazioni e quindi per colpire la “fascia alta” delle nostre filiere; con il pasticcio dell’Ex-Ilva, invece, si va a nuocere la “fascia bassa”, quella delle tante piccole aziende che si erano risollevate con il piano Calenda fino alla metà del 2018. Insomma, nella loro completa estensione, ora le nostre filiere potrebbero essere danneggiate. A guadagnarci, peraltro, sarebbero giusto quei Paesi che con le loro reciproche avversioni hanno deteriorato il commercio internazionale ledendo i nostri interessi».
Quali settori sarebbero i più colpiti nel caso in cui le cose volgessero al peggio?
«Tutti quelli caratterizzati da una grande densità di acciaio. Immediatamente si considerano il Bianco e l’automotive, per le lavatrici, le sospensioni e tutti gli apparati di movimento. In realtà però, ci sarebbero comparti altrettanto danneggiati, o anche di più. Si pensi alla già menzionata cantieristica, e quindi all’enorme uso che si fa del metallo per realizzare una nave; ma anche al ferroviario, e poi ad uno dei settori più importanti per l’industria italiana, quello delle macchine utensili. Infine, non viene in mente a molti, ma anche l’edilizia pagherebbe dazio: ci sono tondini di acciaio nel cemento armato. Peraltro, l’industria delle macchine per l’edilizia è uno dei settori più colpiti dalla crisi, dal 2008 in avanti. Questo potrebbe essere il colpo finale».
C’è chi pensa che l’industria a Taranto possa essere sostituita dalla mitilicoltura. C’è un atteggiamento anti-industriale, nell’attuale Maggioranza?
«Personalmente, non ho nulla contro l’allevamento delle cozze, né contro chi si dedica a questa attività. E non ho nulla contro il turismo, che in Puglia potrebbe giocare un ruolo rilevante. E penso che a Taranto restino cruciali i temi della preservazione dell’ambiente e della sicurezza dei lavoratori. Ma bisogna anche riflettere sul fatto che il valore aggiunto dell’industria dell’acciaio è enormemente più rilevante di quello della mitilicoltura – miliardi di euro contro pochi milioni – e che attorno all’ex-Ilva ruotano tantissimi supplier locali. Quando si pensa all’acciaio italiano si pensa a Taranto. Perdere un’industria di valore globale, di visibilità mondiale, sarebbe molto penalizzante per la città. Una sconfitta. E poi c’è un altro aspetto di cui tenere conto: la componente di riqualificazione ambientale è molto importante nel contratto con Arcelor Mittal. L’azienda stava provvedendo alla realizzazione di un hangar sigillato e di passaggi coperti per il trasporto della materia prima che arriva a Taranto via nave. Un modo per evitare la dispersione delle polveri e, insieme, una costosa operazione. Con l’eventuale chiusura, chi ci penserà?».
Come si è arrivati a questo punto?
«Non bisogna dimenticare che Arcelor Mittal aveva esternato l’intenzione di ritirarsi solo dopo il primo annientamento dello scudo legale da parte del governo con il Decreto Crescita, a giugno. Prima, non aveva detto niente. E che una volta ripristinato lo scudo, il colosso dell’acciaieria sembrava essere tornato indietro sui propri passi. Solo dopo la seconda abolizione il problema è riemerso in tutta la sua drammaticità».
Come se ne esce?
«Con il ritiro dei fattori perturbatori che hanno impedito ad Arcelor Mittal di portare avanti il suo disegno e i lavori di riqualificazione ambientale. E non sarebbe una resa, da parte dello Stato; casomai, questo si porrebbe nella condizione di governare la situazione, che ora gli sta sfuggendo di mano. E poi, per uno Stato, mantenere la parola data, tener fede agli accordi, sono elementi di credibilità internazionale di grande rilievo, che vanno oltre l’importanza del caso specifico».
Ma secondo Lei la classe politica italiana è pronta a fare un passo indietro?
«Dovrebbe esserlo. Il rischio, in termini sia industriali che di reputazione, sono troppo grandi per non prenderli in considerazione. Devo anche ammettere che alcuni aspetti della Manovra sono fonte di più di qualche dubbio a proposito di una visione realistica delle dinamiche dell’economia e dell’industria. Si pensi alla tassa sulla plastica o quella sulle auto aziendali».
Che c’entrano le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali?
«Quando c’è una crisi, un governo può prendere delle scelte anticicliche, e cioè contrastanti con l’andamento del ciclo economico. Ad esempio, la diminuzione delle imposte. Ma può anche fare il contrario, e aggravare la situazione. Ad esempio, una tassa sull’auto aziendale, proprio nel momento della più grave crisi per i carmaker degli ultimi anni, si fatica a interpretare. Certamente preoccupa, come d’altra parte la tassa sulla plastica, che fatalmente incide anche sulle aziende della meccanica in difficoltà. Sono iniziative che possono produrre danni occupazionali».
E con ciò?
«Come nel caso dell’ex Ilva, è mancato il dialogo del governo con le associazioni degli industriali di settore e con il mondo del lavoro in generale. C’è questa linea di comportamento che unisce il primo esecutivo Conte al secondo: il governo va per i fatti suoi, e non interloquisce con nessuno sui temi critici, e sugli aspetti collaterali delle scelte che si vanno a definire. L’impressione è che non si conoscano né si prevedano gli effetti delle decisioni sui comparti, e che l’esecutivo vada avanti lo stesso a prescindere da questi, con modalità che risultano fortemente penalizzanti per il sistema-Paese».
Dunque, che appello fare al governo?
«Quello di favorire, finalmente, la coesione del Paese con il dialogo sulle scelte cruciali; ascoltando la voce della manifattura per non realizzare Manovre politiche ma dannose, e per non mettere a repentaglio gli investimenti esteri in un Paese già poco amico dell’industria italiana e straniera».