Lobbying, autogenerazione e patti di filiera: le possibili vie d’uscita al salasso energetico

di Marco de' Francesco ♦︎ I continui rincari stanno mettendo in crisi realtà come Feralpi e Yara, ma anche interi settori, fra cui la ceramica. Per rispondere al problema è necessario fare pressioni sul governo, ma anche investire sull'autoproduzione e rinegoziare i contratti. Le opinioni dell'economista Giulio Sapelli, dell'imprenditore delle rinnovabili Massimo Marengo e di Carlo Scarlata di Anie-Aice

Chiedere al governo lo stanziamento di risorse per calmierare gli effetti del caro-energia, come è stato fatto per i privati; agire sull’efficienza degli impianti, con l’autogenerazione; e stringere patti di filiera, per rinegoziare i contratti che coinvolgono vari segmenti della supply chain in modo che la congiuntura non pesi troppo su certi fornitori o su certi clienti. Sono (forse) le uniche tre possibili risposte che le industrie possono mettere in atto nell’attuale contingenza, quella della crisi energetica causata dall’impennata dei prezzi.

Cos’è accaduto? Una combinazione di fattori ha portato all’esplosione dei prezzi: quello del Brent viaggia a quota 80 dollari, e il gas naturale è passato in un anno da 2,5 dollari al metro cubo a circa 6 dollari. Anche il carbone ha rialzato la testa, da 50 a circa 220 dollari a tonnellata. Il problema si è verificato quando la Cina, per agganciare la ripresa, ha sperimentato un consistente rialzo della domanda, destabilizzando il sistema globale della fornitura. Al contempo, per ragioni non chiare, la Russia ha rallentato il suo apporto di gas verso il Vecchio Continente, che però, ha le proprie responsabilità. Il piano sulle politiche energetiche europee (Green Deal), che ruota tutto attorno alle rinnovabili, ha disincentivato l’attività mineraria e di stoccaggio delle compagnie di settore, con il risultato che le riserve sono al lumicino. Tutta l’industria è in difficoltà, ma soprattutto quella energivora: a pagare il prezzo più alto sono la siderurgia, con imprese come la bresciana Feralpi costretta allo stop di alcuni importanti impianti, nelle ore in cui l’elettricità costa di più; la chimica, con la filiale italiana della multinazionale norvegese Yara che ha fermato lo stabilimento ferrarese; la ceramica e le cartiere, che sperimentano costi di produzione troppo alti rispetto ai ricavi. Ma è chiaro che se la situazione continuerà di questo passo, i guai finiranno per riguardare tutta la manifattura. Veniamo ora alle “soluzioni”.







 

Soluzioni: pressione sul Governo, autogenerazione, patti di filiera

Il presidente di Feralpi Giuseppe Pasini

Il governo Draghi ha tenuto conto solo dell’impatto sulle famiglie, calmierando con appositi fondi gli aumenti in bolletta dal 60% al 40%. È bene che faccia lo stesso per le aziende. Non si può chiedere a queste ultime di agganciare la ripresa, se sono in ginocchio con i conti. L’autogenerazione: associando più soluzioni insieme, dalla cogenerazione del metano alle rinnovabili e ai sistemi di accumulo, si può autoprodurre quote fino al 100% delle necessità della fabbrica, soprattutto in termini di energia elettrica, risparmiando un bel po’ di soldi.  Questo, però, vale per la generalità delle aziende manufatturiere, ma non per quelle energivore, le cui necessità sono molto più importanti.

I patti di filiera: tutte le aziende, indipendentemente del segmento della supply chain al quale appartengono, subiscono gli effetti della crisi. Ma in maniera diseguale, perché i costi dipendono dai processi. È opportuno che le imprese manufatturiere si siedano attorno ad un tavolo, e che rinegozino i contratti in modo da raggiungere un equilibrio che consenta a tutte di sopravvivere, senza lasciare indietro nessuna. Per realizzare questo articolo, ci siamo avvalsi delle competenze dell’economista, storico e accademico torinese Giulio Sapelli; in tema di “soluzioni per l’industria” abbiamo sentito il ceo e fondatore del Gruppo Marengo, Massimo Marengo e il Chief Commercial Officer di Prysmian Italia nonché presidente di Anie Aice Carlo Scarlata.

 

Che cosa sta accadendo: una partita internazionale

Attutiti gli effetti della pandemia, nei primi mesi dell’anno in corso la domanda cinese di energia è cresciuta considerevolmente: ad esempio è aumentata del 25% quella di gas naturale liquefatto. Ora il gigante asiatico è il maggior consumatore al mondo di questa fonte, avendo superato il Giappone. Ciò di per sé ha prodotto un rialzo dei prezzi; ma c’è di più. Si sta giocando un’importante partita geopolitica sul gas, che riguarda soprattutto la Russia di Putin. Questa ha deciso di rallentare la catena di fornitura al Vecchio Continente, tanto che Gazprom, le cui revenue erano calate da 120 a 87 miliardi di dollari con la pandemia, non ha garantito tutte le forniture previste dai contratti a lungo termine. Alcuni osservatori internazionali (come Jason Bardoff, su Foreign Policy) sospettano che ciò sia dovuto alla volontà di Mosca di accelerare l’approvazione del gasdotto North Stream 2, che dovrebbe collegare la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. In pratica, dal momento che l’Europa si troverà in difficoltà quest’inverno, potrebbe essere costretta a concedere un rapido via libera, a prescindere dalla certificazione Ue sui requisiti richiesti dalla regolamentazione continentale.

Ma perché l’Europa si trova così a malpartito? Anzitutto Strasburgo ha posto in essere un proprio piano sulle politiche energetiche (ma anche climatiche e dei trasporti), il Green Deal, che si fonda largamente sul ricorso alle fonti rinnovabili e sulla compressione di quelle fossili. Questo ha scoraggiato le aziende energetiche a proseguire le attività minerarie, e ora che si è scoperto che le fonti green non bastano a soddisfare la domanda in questa congiuntura, non si sa più cosa fare. «È anche un colossale fallimento manageriale – ci ha spiegato Sapelli -: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee, avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time non funzionava più e che bisognava fare scorte. È anche vero che lo strabismo della Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E ora ci troviamo senza riserve». C’è anche da dire che l’Unione Europea ha messo in piedi un meccanismo malato e controproducente. Ad esempio, le aziende e le imprese energetiche devono rispettare delle quote e devono chiedere permessi di emissione per ogni tonnellata di Co2 prodotta. È nata una sorta di compravendita delle share, vendute all’asta. Si fatica a comprendere la relazione tra il beneficio ambientale e questa pratica, ma non è colpa di chi scrive. Comunque sia, il problema è che dal momento che i permessi sono numericamente contenuti, questi costano sempre di più. Anche questo ha inciso, in Eu, sull’aumento del prezzo dell’energia elettrica e sulla diminuzione dei livelli di stoccaggio. L’Europa è messa così.

 

Gli effetti sull’industria energivora: alcuni casi

Giulio Sapelli, economista e accademico

1)      Feralpi e la siderurgia

Il gruppo siderurgico Feralpi ha pianificato sospensioni dell’attività nelle fasce orarie in cui l’elettricità costa di più. È una decisione molto significativa sul piano industriale, anche per gli effetti che avrà sulla supply chain e sul sistema produttivo nazionale. Il gruppo, infatti, nato più di mezzo secolo fa nel Bresciano e cresciuto al centro della più importante siderurgia europea, tra la Germania e il Belpaese, guida l’avanguardia di un settore che in Italia vale 60 miliardi e che occupa 33.400 dipendenti, e che vanta nomi quali Ori-Martin, Duferco, Arvedi, Danieli, Acciaierie Venete, FinMar (Marcegaglia). Il Gruppo – 1,2 miliardi di fatturato per 1.700 dipendenti tra Italia, Europa e Africa, con stabilimenti a forno elettrico in sei Paesi che producono 2,5 milioni di tonnellate d’acciaio con il 93% di materiale riciclato – è una realtà industriale che ha fatto della siderurgia al servizio dell’edilizia il proprio core business ed è guidato dal presidente Giuseppe Pasini, che peraltro è past-president dell’associazione industriale bresciana. Le sospensioni riguardano gli stabilimenti di Lecco, Brescia e Lonato del Garda. Oltre a quello tedesco di Riesa. Sull’attività pesa anche l’aumento delle materie prime. È un campanello d’allarme per la siderurgia italiana. Secondo Alessandro Banzato, presidente di Federacciai, se la crescita dei prezzi continuerà di questo passo, tra non molto si dovrà valutare se e come fermare gli impianti.

 

2)      Yara e la chimica

Si dedicheranno alla sola manutenzione i 140 dipendenti della filiale italiana (a Ferrara) di Yara, multinazionale norvegese che produce fertilizzanti derivati da processi chimici su base azotata, come l’urea. L’azienda, con 13mila dipendenti, ha fatto registrare un fatturato pari a 236 milioni di euro, nel 2020. Peraltro, a Ferrara si realizza oltre la metà dell’Adblue prodotto in Italia, una soluzione a base di ammoniaca utilizzata per abbattere le emissioni (ossido di azoto) dei motori a gasolio. Senza questa sostanza, le macchine diesel non possono circolare. In realtà, tutta l’industria chimica è energivora. In Germania, il gigante Basf (60 miliardi di fatturato e 110mila dipendenti) ha dovuto fermare Ludwigshafen, il più imponente stabilimento al mondo per la produzione chimica integrata: utilizza 6 terawattora di elettricità all’anno. In queste circostanze è normale che il settore, in Italia, sia molto preoccupato.

 

3)      La ceramica e le cartiere

Alessandro Banzato, presidente di Federacciai.
Alessandro Banzato, presidente di Federacciai

La ceramica è un settore di circa 270 aziende che occupa 27mila dipendenti, di cui quasi due terzi dalle parti di Sassuolo, lungo la via Emilia. Il prodotto per eccellenza è la piastrella, esportato in tutto il mondo. Già alcuni forni sono spenti, e altri saranno disattivati presto. Il guaio, anche in questo caso, è il caro energia: se i prezzi non diminuiranno, il comparto nel 2022 pagherà una bolletta di oltre 1,2 miliardi di euro, affossando i bilanci di molte imprese. La concorrenza turca, peraltro, si trova in una situazione di netto vantaggio.  Per questo, il presidente di Confindustria Ceramica Giovanni Savorani invita i governi europei ad intervenire. Non se la passa meglio l’industria cartaria, che in Italia conta 150 imprese, che producono 8,5 milioni di tonnellate per un fatturato (2020) di 6,3 miliardi di euro. Di per sé, fino a poco tempo fa le cose sembravano andare bene: i primi sei mesi del 2021 hanno fatto registrare una crescita delle vendite del 2,9% per il tissue e del 4,7% per il packaging. Gli ordini non mancano. Ma un insieme di fattori – l’aumento del costo della materia prima, la cellulosa, e dell’energia – stanno destabilizzando il comparto. Sia dalle parti di Verona che di Lucca, lì dove c’è la maggior concentrazione delle imprese di settore, si sta già pensando di sospendere la produzione.

 

Cosa possono fare le aziende per superare l’attuale congiuntura

1)      La rivendicazione di un trattamento paritario rispetto a quello riservato alle famiglie

Il governo italiano ha trovato le risorse per calmierare le bollette delle famiglie, i cui aumenti sono stati ridotti dal 60% al 40%. È insensato non farlo per l’industria, che da una parte è chiamata ad agganciare la ripresa per risollevare le sorti del Paese e dall’altra rischia seriamente di fermarsi di nuovo o, in certi casi, di chiudere definitivamente i battenti. Le aziende, pertanto, dovrebbero chiedere all’esecutivo di adoperarsi per realizzare un trattamento paritario a quello riservato ai privati.

 

2)      L’autogenerazione

Massimo Marengo, presidente e ceo Gruppo Marengo

Una possibilità per calmierare la spesa delle aziende è quella di agire sull’efficienza energetica degli impianti e sull’autoproduzione diretta della propria energia. Se ne occupa, ad esempio, il citato Gruppo Marengo di Alba (Cuneo) che, con una cinquantina di dipendenti fattura circa 20 milioni di euro e si occupa di energia da più di 50 anni. In pratica, associando più soluzioni insieme, dalla cogenerazione a gas metano alle rinnovabili, ai sistemi di accumulo e nel prossimo futuro, l’idrogeno, si possono autoprodurre quote fino al 100% delle necessità della fabbrica, soprattutto in termini di energia elettrica, ma anche termica, risparmiando un bel po’ di soldi. Ad orchestrare il sistema, gli algoritmi di un software proprietario, sviluppato internamente negli anni, che è diretto a realizzare il massimo ritorno dell’investimento in base alle informazioni provenienti in tempo reale dai sensori posizionati sugli impianti produttivi e agli input che è in grado di dare per una gestione automatica e intelligente. Industria Italiana se ne è occupata in questo articolo. Ma occorre fare un importante “distinguo”. Per Massimo Marengo, fondatore e Ceo del gruppo «questo vale sicuramente per l’80% delle industrie manifatturiere, ad esclusione ovviamente delle grandi energivore: nel caso di un cementificio o di una fonderia, il sistema produrrebbe un vantaggio molto più limitato».

Quello su cui si potrebbe incidere, tuttavia, è un plateau molto significativo – soprattutto sul tessile, sulla meccatronica, sull’alimentare, sulla farmaceutica, sulla plastica, l’edilizia e altro. E allora perché non si è fatto su larga scala? Per Marengo è mancata un po’ di visione strategica e di politica industriale energetica: «Lo Stato e il Ministero dello Sviluppo Economico negli ultimi anni, non hanno mai veramente incentivato e stimolato le aziende ad investire in autoproduzione efficiente di energia escludendo specificatamente questi sistemi da Industria 4.0 e dalla detrazione fiscale (poi credito di imposta) del 50% che invece tanto bene ha funzionato, e sta funzionando, per tutti i macchinari produttivi, consentendo alla aziende di innovare e abbattere i costi di produzione». Marengo è anche critico con le associazioni di categoria di cui ha fatto parte: «Nelle territoriali (di Confindustria), ho anche partecipato commissioni che si occupavano di energia. Purtroppo anche qui non c’è mai stata una vera spinta e interesse al tema dell’autoproduzione dell’energia, il che è molto strano perché i benefici interessano potenzialmente la stragrande maggioranza delle Pmi produttive, un vero peccato perché si è perso tanto tempo e i rincari degli ultimi mesi avrebbero potuto essere in gran parte assorbiti e fortemente limitati con un forte beneficio per le aziende produttive».

Una domanda però, sorge spontanea: dal momento che il rincaro del prezzo del metano si è già verificato, conviene ancora inserire nel sistema un impianto di cogenerazione? Non si compra, comunque, energia ad alto costo? Per Marengo «Premesso che il prezzo dell’energia elettrica in Italia è collegato al mercato del gas, si possono ancora imbastire trattative convenienti con i venditori di energia e materia prima, purché si punti su un prezzo fisso e sul lungo termine. Bisogna però conoscere questo mercato, sapere a chi riferirsi e quando farlo. Noi offriamo anche questo servizio, in un pacchetto complessivo. Di fatto, collaboriamo all’acquisto per i clienti. Ora, tutto considerato, facendo due conti, si può dire che la vita media di un impianto di cogenerazione è minimo di 10 anni, e che il Roi si ottiene dopo tre-quattro anni. Nell’attuale situazione quindi non cambia nulla, anzi, perché anche se il gas aumenta, pure l’energia elettrica aumenta in proporzione, anche di più, perché gravata da maggiori oneri fiscali, quindi auto producendo la propria energia l’azienda ci guadagna sempre e si rende competitiva ed efficiente, anche magari con una quota di energia rinnovabile che oltre a convenire molto è anche totalmente green e tra poco arriva l’idrogeno verde».

 

3)      Le filiere industriali devono riunirsi attorno ad un tavolo e ridiscutere i contratti

Carlo Scarlata, Chief Commercial Officer Italia di Prysmian

«Bisogna rinegoziare i contratti in termini di filiera». Parola di Scarlata che, abbiamo detto all’inizio, riveste un duplice ruolo: in Prysmian a in Anie Aice. Quanto alla prima, è una multinazionale italiana leader globale nella produzione di cavi per applicazioni nel settore dell’energia e delle telecomunicazioni e di fibre ottiche. L’azienda, guidata da Valerio Battista, è quotata in Borsa e con 28mila dipendenti ha realizzato l’anno scorso revenue per oltre 10 miliardi. Quanto a Anie Aice, che rappresenta le aziende produttrici di cavi per l’energia, per la comunicazione e accessori. Nel 2020 le imprese associate hanno realizzato un volume d’affari complessivo pari a 3,1 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi di euro di esportazioni. Ora sono molto preoccupate.

«Nel corso del 2021 il costo energetico per i produttori (euro per kWh) si è più che triplicato, con particolare intensità dopo agosto, con un impatto sui costi di produzione che varia dal 5% al 20% a seconda del tipo di processo». Normalmente l’attività consiste in trafilare vergelle per ottenere fili molto sottili, che poi vanno ricoperti con materiale isolante; ma ci sono alternative e lavori collaterali: di qui la diversa incidenza dell’energia sulla spesa. Per la verità, per le imprese di settore la congiuntura è assai più pesante. Si trovano nel contesto di una tempesta perfetta.  Sono esplosi i prezzi del rame (ora a quota 9 euro al kg) dell’alluminio e della plastica, le materie prime; che sono diventate irreperibili – «e ciò impedisce alle imprese di impegnarsi nelle consegne». Si tratta, dunque, di trovare una quadra per superare il momento. Non è semplice, ma Scarlata parte da un principio: «Le imprese di settore fanno parte di filiere, e sia i fornitori che le aziende clienti subiscono, anche se in misura diversa, gli effetti della crisi energetica.  Noi non possiamo permetterci di perdere né gli uni né le altre; ma lo stesso vale per loro nei nostri confronti. Quindi l’unica soluzione che intravedo è incontrarci». Occorre, cioè, come si diceva, un tavolo di filiera. «È evidente che i alcuni contratti che regolano i rapporti tra le parti devono essere rivisitati, in modo da trovare un equilibrio che consenta a tutti di sostenere il peso della congiuntura sfavorevole. È nell’interesse di tutti i segmenti della supply chain. Prysmian lo fa già: è bene che l’intero comparto si muova in questa direzione».

 

(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 24 ottobre 2021)














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