Formazione 4.0: per Seghezzi non bastano solo gli sconti fiscali del Calenda/2

a livello mondiale

di Francesca Morandi ♦ Il direttore di Adapt spiega a Industria Italiana perchè  l’ attività formativa delle competenze di Industry 4.0 deve essere legata ai target aziendali, a  vantaggio di lavoratori e imprese. Con un modello già esistente, il CCNL metalmeccanici, e un obbiettivo di lungo periodo: coinvolgere i giovani orientando gli studi verso professionalità innovative.

Formazione continua e ancorata a progetti aziendali, certificazioni delle abilità acquisite dai lavoratori e “competence center” che non si limitino a far incontrare imprese e università ma siano “hub” inclusivi di tutti gli attori coinvolti nella sfida della quarta rivoluzione industriale. Per Francesco Seghezzi, Direttore di Adapt, associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 con obbiettivo lo studio e la ricerca comparata nell’ ambito delle relazioni industriali e di lavoro, e nel 2007 diventata una scuola di Alta Formazione, la mobilitazione delle risorse per attuare la seconda fase del piano nazionale Industria 4.0, per la parte finalizzata alla riqualificazione dei lavoratori, deve seguire logiche specifiche. E un modello di riferimento pratico, che già esiste: il contratto nazionale dei metalmeccanici. In attesa che vengano definiti i dettagli del nuovo Piano governativo, del quale il ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda ha fornito nelle scorse settimane solo le prime linee guida, Seghezzi rimane della convinzione che «Non saranno sufficienti gli sconti fiscali allo studio del governo per rilanciare le competenze dei lavoratori verso a quarta rivoluzione industriale .» E lancia una serie di proposte. Vediamole.

 







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Francesco Seghezzi, Direttore di Adapt

Lo sconto fiscale per la formazione nel Calenda/2

Il messaggio dell’esperto di dinamiche occupazionali, è netto: senza una tempestiva azione, a partire già dalla prossima Legge di Bilancio, sul capitolo lavoro e competenze, si rischia di vanificare il grande sforzo fatto da esecutivo e imprese tradottosi in investimenti in macchinari e tecnologia, poiché c’è il rischio che venga a mancare il capitale umano in grado di utilizzare questi strumenti nella maniera più appropriata. Allo studio dell’esecutivo c’è oggi un credito di imposta al 50% sull’attività di formazione incrementale legata alla digitalizzazione dei processi produttivi che, ha chiarito Calenda, «si applicherà solo alle spese relative ai costi del personale che ha sostenuto corsi di formazione con focus su una tecnologia dell’Industria 4.0, corsi pattuiti attraverso accordi sindacali sulle seguenti tematiche: vendita e marketing; informatica; tecniche e tecnologie di produzione».

Il presente e il futuro del lavoro in Italia :allinearsi alla domanda di competenze

Funzionerà questo sconto fiscale per la formazione? «Dipende da come verrà costruito il meccanismo e a quanto ammonterà l’investimento complessivo: lo sconto fiscale può essere efficace dal punto di vista dei costi ma non sul fronte dell’allineamento della domanda di competenze, per il quale restano fondamentali obiettivi condivisi e mirati», sostiene Seghezzi, autore, tra l’altro di diverse pubblicazioni sull’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro, soprattutto giovanile.

Dinamiche sulle quali gli esperti si dividono: un anno fa la ricerca “The Future of Jobs”  del World Economic Forum prospettava la scomparsa di 7 milioni di posti di lavoro a livello globale contro la creazione di due milioni di nuovi, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. Questo scenario, secondo studiosi come Seghezzi, non è inevitabile, o perlomeno, è “contenibile” nei suoi effetti negativi per l’ occupazione. Il direttore di Adapt ritiene si possa frenare la perdita di intere categorie di professioni “trasformandole e adattandole” alle nuove esigenze dettate dall’innovazione.

La validità di questo percorso sarebbe confermato dai dati riportati in un recente studio dell’ Ocse  che, a differenza di altre previsioni che indicano il rischio elevato di scomparsa della metà delle professioni attuali, sostiene che  la totale eliminazione riguarderà solo il 9% dei lavori, mentre una percentuale  ben più alta(circa il 35%) si applicherebbe  a una serie di lavori  che resteranno, ma saranno assoggettati a una profonda trasformazione dettata da processi di automazione e digitalizzazione.

 

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L’“operaio digitale” dovrà possedere competenze trasversali

ll modello CCNL metalmeccanici: formazione agganciata a obiettivi aziendali

La logica della formazione ex novo e riqualificazione del personale aziendale deve essere molto focalizzata: «Bisogna agganciare gli obiettivi formativi dell’Industria 4.0 a target aziendali», altrimenti l’effetto dell’investimento diventa “cosmetico”, e quindi, produttivamente nullo. Due cose diventano fondamentali, osserva ancora l’esperto: «Come punto di partenza un serio bilancio delle competenze presenti in azienda, e poi un’analisi dei fabbisogni per gestire gli investimenti». Azioni che richiedono «un accordo tra le parti, ovvero impresa e lavoratori, che si devono impegnare reciprocamente» affinché la formazione sia efficace.

Da qui un suggerimento: «Il governo potrebbe finanziare quelle attività di formazione che derivano da un’intesa tra le parti, azienda e dipendenti, che si fanno così garanti della qualità dell’attività formativa.» E nel caso in cui nell’impresa non sia presente una rappresentanza sindacale? «Si potrebbe agire come è stato fatto per gli accordi su salari di produttività e welfare nel contratto nazionale dei metalmeccanici (CCNL) 2016-2019, ovvero aprire alla possibilità di aderire a accordi territoriali per stipulare documenti condivisi su target formativi che rispecchino concrete esigenze aziendali”. (vedi Industria Italiana ).

Un principio nuovo: il diritto del lavoratore alla formazione

Seghezzi, che è tra l’altro coordinatore del progetto di Adapt e Fim Cisl denominato “Libro Bianco su lavoro e competenze in Impresa 4.0” –richiama l’attenzione su una novità importante del CCNL dei metalmeccanici: «Nel contratto si afferma il diritto soggettivo del lavoratore alla formazione, una garanzia già applicata a diversi ambiti, come salute, sicurezza o in funzione anti-licenziamento, ma finora non all’attività formativa. In questo modo oggi si asserisce chiaramente che il possesso di conoscenze da parte dei lavoratori è un elemento positivo per l’azienda, che viene quindi riconosciuta non solo come luogo di produttività ma anche di formazione». Si tratta di un «cambiamento culturale molto significativo» che si deve tuttavia tradurre concretamente in un ‘monte’ di ore dedicate a corsi formativi assai maggiore di quelle previste oggi: 24 ore in tre anni. Troppo poco se si compara il dato alle ore di formazione previste per i lavoratori in Germania: 600 ore (25 giorni) nel triennio.

La certificazione delle abilità acquisite fa bene all’azienda e al lavoratore

Aldilà della quantificazione del “monte” di ore per arrivare a un’efficace formazione aziendale, (le variabili principali sono le esigenze dell’impresa e il livello di competenze che i lavoratori devono assimilare) per Seghezzi un’incremento significativo del loro numero è necessario, perché « la formazione si deve radicare come un processo costante interno all’azienda». Un altro elemento di concreta utilità ai fini di una maggiore competitività aziendale è la certificazione delle abilità assimilate dai lavoratori. Il documento produce un mutuo vantaggio per il lavoratore e l’impresa: il primo avrà un beneficio sotto il profilo professionale, in termini di competenze rivendibili nel mercato del lavoro, la seconda vedrà incrementata la propria vendibilità rispetto a clienti e potenziali investitori. Ma le ore di formazione aziendale devono essere pagate? «Sì, se si tratta di un’attività formativa svolta in orario di lavoro e concretamente utile alla produzione aziendale. Ma non si possono calare direttive dall’alto, la decisione è lasciata all’accordo tra le parti».

Gli hub del Piano Calenda ? Più inclusivi

L’esigenza di vivificare le misure previste dal Piano Calenda, gestendo in maniera allargata gli ambiti di trasmissione delle conoscenza, è per Seghezzi, da tener presente a maggior ragion per i competence center. In questi centri, previsti dal Piano Calenda, e per ora di faticoso avvio, dove imprese e laboratori di alti studi o legati alle università svilupperanno insieme progetti tecnologici da sperimentare nelle imprese, «Non basterà che le università mostrino le loro tecnologie di punta alle aziende – rileva Francesco Seghezzi -. I competence center devono essere hub che includano non solo imprese, università, ma anche agenzie del lavoro, parti sociali, amministrazioni locali, fondazioni, centri di ricerca e anche gli istituti tecnici ITIS».

La quarta rivoluzione industriale chiede di attrezzarsi con nuove competenze, già oggi difficilmente reperibili

La questione della formazione aziendale rispetto alle innovazioni tecnologiche è rilevante se si guardano anche i recenti dati di Confartigianato: le imprese cercano oltre di 117mila tecnici specializzati in innovazione 4.0 ma faticano a trovarli. Gli imprenditori sono a caccia di 32.570 diplomati per i settori meccatronica ed energia e 13.350 per l’ elettronica e l’ elettrotecnica. Posti di lavoro che fanno fatica a essere riempiti. I dati di Eurostat evidenziano fra l’altro un forte gap dell’Italia rispetto alla media europea per una delle competenze basiche. Il Belpaese ha la quota più bassa di lavoratori con elevate competenze informatiche tra gli Stati dell’Ue più forti economicamente : il 29%, contro il 50% del Regno Unito, il 39% della Germania e una media Ue del 37%.

Secondo l’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro gli effetti significativi della quarta rivoluzione industriale sul sistema produttivo italiano ancora non si percepiscono pienamente, ma il trend dell’automazione dei processi aziendali è comunque in atto – rileva Seghezzi – e come ormai avviene dagli anni Settanta, accresce la componente intellettuale della prestazione, che richiede necessariamente un “reskilling” del capitale umano.«L’evoluzione degli occupati in Italia mostra come nel corso degli ultimi quindici anni siano le professioni intellettuali, più ancora di quelle tecniche specializzate, ad essere cresciute parallelamente ad una diminuzione del numero degli operai – evidenzia l’esperto -, questo richiede rapide e precise azioni di riqualificazione e formazione continua per poter adattare la forza lavoro ai nuovi process».

 

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L’operaio del futuro tra robotica e software guida

Processi aziendali altamente tecnologizzati come quelli propri di Industry 4.0 richiederanno un maggiore coinvolgimento intellettuale del lavoratore che dovrà possedere una vasta gamma di competenze, da quelle tecniche a “soft skills”. Oltre alle abilità tecniche l’ “operaio digitale” dovrà infatti possedere competenze trasversali, perché la produzione 4.0 è molto aperta agli stimoli esterni, fortemente ancorati alle esigenze mutevoli del consumatore. Questo avverrà attraverso una vasta gamma di dati “consegnati” tramite computer all’operatore, che dovrà essere in grado di elaborarli e interpretarli. Per questo non si potrà più concepire un soggetto ‘fermo’ alla sua postazione, passivo rispetto all’ambiente circostante. «I processi produttivi previsti dall’Industria 4.0 sono poco standard e molto imprevedibili – precisa il direttore di Adapt -, e si renderà allora necessaria una forte interazione con l’ambiente esterno da parte del lavoratore che dovrà possedere anche capacità decisionali rapide e una costante comunicazione con colleghi di altri settori, dall’esperto di marketing all’ingegnere».

E’già in fabbrica il mondo digitale dei giovani

Parlare di innovazioni future significa soprattutto parlare della nuova forza lavoro, dei giovani, per i quali il tasso di disoccupazione è oggi al 35.1% (dati disponibili relativi ad agosto 2017). Dall’altro lato abbiamo i recenti numeri diffusi da Confartigianato che evidenziano la difficoltà degli imprenditori a reperire 14.990 operai nelle attività metalmeccaniche ed elettromeccaniche (pari al 43% del totale) e 14.430 tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione (39%).

Dov’è il corto circuito? «Oggi i giovani percepiscono le fabbriche come grigie officine dove si lavora alla catena di montaggio e ci si sporca le mani di olio, giudizi basati su canoni del passato – afferma Seghezzi -. Bisogna far capire loro che il mondo digitale che amano così tanto, non è poi così lontano da quello della ‘meccatronica’. Devono comprendere che la realtà è cambiata e lavorare per un’azienda ad alto contenuto tecnologico non è meno interessante che lavorare per Facebook».

 Fondamentale il meccanismo dell’ alternanza scuola-lavoro

«La scuola deve portare i giovani a ‘vedere e sperimentare’ le fabbriche, già dalle scuole medie, con incontri e eventi dedicati», dice ancora il direttore di Adapt, secondo il quale è poi fondamentale il meccanismo dell’alternanza scuola lavoro. Lo sono altrettanto i contratti di apprendistato, la cui contribuzione deve essere però azzerata (oggi prevedono uno sconto contributivo al 10%). La questione è anche culturale: è fondamentale diffondere il messaggio che le facoltà scientifiche si possono affrontare senza avere doti eccezionali e, che una volta concluse, portano lavoro.«Basta con l’idea che chi studia matematica o fisica è obbligato a fare il ricercatore o l’insegnante», aggiunge Seghezzi, precisando però che «la soluzione non è spostare tutto il percorso di apprendimento verso le facoltà scientifiche» perché «la formazione scolastica e accademica non deve essere esclusivamente improntata alle esigenze del mercato. La cultura umanistica serve, anche nell’attuale panorama di innovazione tecnologica: oggi si cercano ‘umanisti’ in grado di interpretare i cosiddetti Big Data – conclude il direttore di Adapt -. Una formazione umanista permette inoltre di comprendere meglio il comportamento dei clienti o mettere in atto un’efficace strategia di promozione del prodotto. Il nodo è moltiplicare le competenze».














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