Paolo Manfredi, Confartigianato: mid tech ed eccellenze territoriali per Industria 5.0 e Pnrr

di Barbara Weisz ♦︎ Approfondita intervista con il responsabile progetto speciale Pnrr di Confartigianato. Che ha appena scritto il libro "L'eccellenza non basta": spunti per decisori politici e imprese sul digitale. Che deve essere occasione per riannodare i fili di un'economia a forte vocazione industriale. Punti critici del Pnrr: non adatto al modello di sviluppo del nostro Paese. Puntare non sull'hi-tech ma sul mid tech: più in linea con il nostro tessuto produttivo

L’Italia deve puntare sul mid-tech. Innovare non significa inventare, ma trasformare. Nell’era digitale, la tecnologia è un alleato fondamentale, anzi la grammatica su cui impostare qualsiasi progetto. Ma il nostro Paese, sul fronte industriale, rischia di perdere colpi. «Siamo sempre meno numerosi e vecchi, i territori perdono popolazione e quindi forza economica. Un paese anziano e iniquo ha meno energia» sottolinea Paolo Manfredi, responsabile progetto speciale Pnrr di Confartigianato. Secondo il quale proprio il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che quest’anno dovrebbe iniziare a dare risultati concreti in termini di messa a terra, non è adatto al modello di sviluppo che ha tradizionalmente caratterizzato il nostro Paese. «Gli operai della Volkswagen non hanno mai pensato di aprire una propria attività. Il ragazzo di bottega a Modena, invece, diventava imprenditore. E magari tirava fuori anche un’innovazione».

Il problema è che oggi gli artigiani e le imprese, anche di medie dimensioni, faticano a trovarlo quel ragazzo di bottega. C’è un sempre più evidente mismatch fra competenze richieste dal mercato e formazione, un problema su cui il settore dell’industria insiste da tempo. E se questo dovrebbe essere uno dei punti qualificanti dell’atteso Piano Industria 5.0, di cui secondo l’esponente di Confartigianato al momento si sa molto poco, c’è anche l’esigenza di «ricostruire il tessuto connettivo nel territorio, nella società, nell’economia, con progettualità». Le singole imprese sono chiamate a sforzi molto importanti. Si parla di cambiamento di modelli di business, vedi servitizzazione, di tecnologie che ormai fanno balzi in avanti a grande velocità, come l’intelligenza artificiale, di strategie di crescita, abilitate per esempio dall’open innovation quindi dal rapporto con le start up. Ma secondo Manfredi il punto è che stiamo perdendo competitività come sistema Italia, perché non riusciamo a stimolare l’utilizzo della tecnologia e del digitale per dare continuità a un modello economico come quello dei distretti o delle filiere. «Abbiamo perso le Camere di commercio, le banche, le Province», ovvero realtà che sostenevano l’economia del territorio.







Non possiamo però pensare di abbandonare un sistema fortemente concentrato sulla manifattura, nell’industria restiamo fra i big d’Europa e del mondo. Dobbiamo riprendere una strada dalla quale senza una corretta declinazione delle potenzialità del digitale rischiamo di uscire. Propone l’esempio di un produttore di telai di biciclette che, per mantenere la qualità di un processo di saldatura artigianale, ha sviluppato grazie a un progetto con un Its un casco dotato di tecnologie di realtà aumentata da far indossare all’operaio. «Una soluzione mid tech, adatta al nostro sistema produttivo», che mette «le tecnologie al servizio di una produzione di qualità». Allo scenario che abbiamo descritto, e alle soluzioni da intraprendere per tornare a una crescita sostenuta, con numeri paragonabili a quelli che abbiamo eccezionalmente visto solo nel 2021, Manfredi ha dedicato un libro, emblematicamente intitolato “L’eccellenza non basta”. Da qui siamo partiti con questa intervista che vuole proporre spunti di riflessione ai decisori politici, alle associazioni imprenditoriali, ma anche e soprattutto alle imprese che devono fare scelte di digitalizzazione.

 

D: Prendo spunto dal titolo del suo libro. Vuol dire che siamo eccellenti?

Paolo Manfredi, responsabile progetto speciale Pnrr di Confartigianato

R: «No, vuol dire che abbiamo storicamente prodotto molte eccellenze, siamo unici in questa quantità di eccellenze viste anche le nostre dimensioni. Quello che sostegno è che questo non basta più».

D: Perché non basta più?

R: «Perchè è tutto più difficile, utilizzando una metafora marinara con l’aumento delle maree la nostra barca si è rimpicciolita in tre dimensioni: demografia, iniquità nello sviluppo dei territori, età media. In parole semplici, siamo sempre più piccoli e vecchi, e i territori perdono popolazione e quindi forza economica. Un paese anziano e iniquo ha meno energia. In passato abbiamo prodotto tante eccellenze, a livello di aziende, perchè avevamo tanta energia, voglia di esprimerci attraverso la creazione di impresa. C’era la possibilità di investire su se stessi e sul proprio mestiere, e questo stimola l’imprenditorialità. Oggi, siamo un paese che si sta contraendo».

D: Beh, continuiamo a essere una delle più importanti manifatture del mondo, e i dati sulla crescita sono relativamente in linea con quelli europei.

R: Si, ma con un tasso di ricambio più lento e casuale, e questo è un problema. Abbiamo tante imprese, ma non contribuiscono al benessere sistemico, sono poche le imprese inserite in sistemi complessi. E i territori a cui fanno riferimento sono in crisi, hanno perso un po’ di ruolo. Così come i distretti industriali non hanno la forza che avevano prima».

D: E la ricetta qual è?

R: «Ci sono due opzioni. La prima è non fare nulla, contando sul fatto che ci sono ancora sufficienti eccellenze che ci consentono di vivere di rendita. Ma questo ha un costo. Ma io penso che ci sia anche un piano b: quello che oggi non è eccellente, ma ha un senso perchè produce benessere su territori, può costituire un vivaio analogo a quello prima avevamo e ora sempre meno. L’energia che c’era può diventare ancora una possibilità concreta di creare valore. E’ quello che chiamo economia paziente».

Le previsioni per l’Italia del Centro Studi Confindustria

D: Cosa significa economia paziente?

R: «Significa ricostruire il tessuto connettivo nel territorio, nella società, nell’economia. Non posso pensare di tagliar via tutto quello che è sotto soglia, ci devo fare i conti e investire. Con progettualità. Bisogna pazientemente creare le condizioni per fare in modo che chi sta fuori dal circuito delle eccellenza abbia la sua chance. Io credo che o riusciamo a trasportare il grosso del sistema manifatturiero dandogli un’anima digitale, il capitale umano, e l’energia necessaria, oppure non andiamo da nessuna parte. Visto che non possiamo sostituire la manifattura con qualcos’altro, dobbiamo potenziarla. Non possiamo sostituire l‘impresa diffusa con le start up. Abbiamo un valore e dobbiamo traghettarlo nel nuovo paradigma».

D: A chi spetta questo compito?

R: «Sono coinvolti la politica, l’economia, l’organizzazione della società. Siamo di fronte a un paradosso: terzi in Europa per numero di ragazzi che non studiano, e allo stesso le imprese non trovano lavoratori. Significa non aver gestito correttamente la modernizzazione, il che porta oggi ad avere queste situazioni disorganiche.

D: La digitalizzazione però sta producendo buoni risultati nell’industria. Nel 2021 ha trainato la ripresa del pil, nel 2022 comunque ha mantenuto buoni livelli, il più modesto risultato 2023 è dovuto a una serie di fattori anche esterni. E comunque nel settore dei macchinari e nella robotica anche il 2023 è stato un anno positivo, penso ai dati Federmacchine, Ucimu, Siri.

R: «Tutti i dati positivi vanno bene, ma continuo a pensare che serva un cambio di marcia. Partendo dai territori, che si sono impoveriti, nel senso che hanno perso centralità. La destrutturazione non ha toccato solo le imprese, ma la governance dei territori. I parlamentari non sono più legati al posto in cui sono stati eletti, abbiamo perso le Camere di commercio, le banche, le Province. Sono quei sistemi che potevano fare micro-governo dei processi territoriali».

L’industria italiana delle macchine utensili. Fonte Ucimu

D: Il piano 5.0 può rappresentare uno stimolo?

R: «Per ora non ho capito in cosa consiste esattamente questo piano. Mentre il 4.0 era molto chiaro, questo mi sembra molto meno definito per il momento. Per il momento, restano i crediti d’imposta 4.0, con aliquote più basse. Bisogna vedere se le nuove misure andranno incontro alle esigenze di investimento e digitalizzazione degli artigiani e dell’industria. C’è il rischio che si ripeta l’errore che era stato fatto all’inizio del Piano 4.0, troppo concentrato sulle grandi imprese. E resta ferma la formazione, su cui invece bisognava investire. Per questo la chiamo economia paziente: perchè bisogna misurare l’efficacia delle policy, non solo produrre con risultato immediato».

D: Le sembra che il Pnrr possa contribuire a un cambiamento anche strutturale?

R: «Il Pnrr è stato pensato male. Tradizionalmente, i nostri migliori risultati non sono mai venuti da una meticolosa programmazione, ma dalla capacità di liberare energie a fronte di poche risorse. Con il Pnrr torniamo a un’idea pesante della programmazione, mi pare una cosa che culturalmente non sta nelle nostre corde. Stiamo parlando di un programma di investimenti pubblici, iperstringenti, che vanno fatti dalla pubblica amministrazione. Rilevo più di un errore in questa impostazione: dopo 20 anni, anche di più, in cui abbiamo detto che la PA deve essere solo ridimensionata, tagliata, perché il pendolo verso il privato, ci sono state prima una crisi finanziaria, e poi la pandemia, per cui ora abbiamo deciso che il privato non ha tutte le risposte e improvvisamente torniamo verso il pubblico. E diciamo a quelle stesse amministrazione a cui prima tagliavamo i fondi che adesso devono salvare l’economia italiana e costruire condizioni per lo sviluppo. Trovo che sia un piano che poggia su spalle fragilissime, come ad esempio quelle dei Comuni. Voglio chiarire una cosa: non ce l’ho con questo Governo, in realtà il Pnrr è precedente, l’esecutivo Meloni si trova a dover proseguire su una strada che era già stata intrapresa».

Nel settore della robotica anche il 2023 è stato un anno positivo. Fonte Ucimu

D: Pur con tutte queste premesse, stiamo parlando di un piano da quasi 200 miliardi di euro. Come può non essere un’occasione per superare alcuni ostacoli, per esempio infrastrutturali?

R: «Siamo in ritardo, bisogna aprire i cantieri. Ma continuiamo a essere un Paese che fatica a spendere risorse pubbliche, e abbiamo un maxi-programma di investimenti pubblici da realizzare in pochissimi anni con milestone stringenti».

D: Ci sono delle strategie che le imprese possono adottare? Per esempio, negli ultimi tempi si parla molto di servitizzazione

R: «Va bene la servitizzazione, così come bisogna spingere sull’intelligenza artificiale. In generale, è corretto utilizzare al meglio gli strumenti che le tecnologie abilitano. E qui la cosa importante è spiegarlo agli imprenditori. Pensiamo all’intelligenza artificiale: dobbiamo utilizzarla in modo selettivo, calandola nella realtà delle singole imprese. Anche qui insisto sull’economia paziente. Quante imprese potranno essere protagoniste dell’IA? Bisogna governare questo processo, aiutare le imprese a codificare la propria conoscenza, entrare nella datification. E le associazioni imprenditoriali possono a loro volta svolgere un ruolo. Per esempio: il distretto della calzatura del maceratese, un’area di crisi complessa da dieci anni, come può utilizzare l’intelligenza artificiale per accrescere la competitività del sistema che lo compone? Questo vuol dire governare i processi di trasformazione, anche digitale. Invece l’approccio impaziente consiste solo nel capire che bisogna fare qualcosa, senza selezionare invece strategie adeguate alle singole realtà che producano risultati».

I dati della produzione industriale. Fonte Confindustria

D: Facciamo qualche esempio di come un’impresa può adottare una strategia vincente, o paziente che dir si voglia?

R: «Penso a un produttore di telai di biciclette, che non trova più saldatori e ha un problema di time to market. Forma persone che, appena acquisiscono competenze, trovano impieghi maggiormente remunerativi. Allora partecipa a un progetto sponsorizzato da Cariverona e gestito da Upskill 4.0, di cui io sono co-fondatore, e lavora con un ITS di Modena per lo sviluppo con il design thinking di un casco da saldatore dotato di tecnologie di realtà aumentata. Il casco suggerisce che tipo di saldatura fare in una determinata situazione. Mi sembra un esempio paradigmatico: unisce capacità produttiva, innovazione, ed energia positiva, in un sistema basato sul dialogo e non sull’imposizione. E’ un’impresa che ha  sviluppato una soluzione mid tech, adatta al nostro sistema produttivo, mettendo le tecnologie al servizio di una produzione di qualità. E attivando anche un bridge generazionale. E’ questo a cui penso quando parlo di sistema diffuso delle imprese. Mi pare che invece si stia perdendo la collaborazione sistemica».

D: Il legame fra manifattura, crescita e innovazione non si può coniugare ad esempio attraverso strategie di open innovation?

R: «Non credo che l’innovazione si risolva lasciando liberi i capifiliera di fare i capi. Ripeto: fino ad oggi non abbiamo organizzato adeguatamente la complessità, per cui c’è chi si muove bene e chi meno bene. Ma resta il fatto che non abbiamo investito sul vivaio. E ora abbiamo anche una questione demografica che è particolarmente preoccupante».

D: Il problema è la demografia, e non l’innovazione?

Il libro “L’eccellenza non basta” di Paolo Manfredi

R: «No, bisogna anche continuare a costruire cultura dell’innovazione. Ho recentemente lavorato a un progetto con gli artigiani di Bergamo: era stata fatta una survey in cui il 60% si riteneva in linea con l’innovazione. Io ho fatto presente che nessuno, nemmeno Elon Musk pensa di essere a posto con l’innovazione».

D: Ecco, prendiamo Elon Musk. E’ riuscito ad entrare in un settore caratterizzato da grandi colossi internazionali puntando tutto sulla tecnologia.

R: «Molto difficilmente avrebbe potuto farlo senza un’intuizione innovativa, ma anche senza trovarsi in un territorio in cui c’è una concentrazione di capitali straordinaria, la Silicon Valley. Le innovazioni disruptive hanno bisogno di straordinarie concentrazioni di capitali, e in California si concentra la maggioranza dei capitai mondiali. Quindi, un enorme talento del digitale va in Silicon Valley. Sul very high-tech ci sono concentrazioni globali di capitali, risorse e persone. Noi abbiamo sempre funzionato non sul disruptive, ma perchè siamo bravi sul mid-tech, che vuol dire adattare la tecnologia, e rispondere a problemi ed esigenze peculiari. Quindi abbiamo un’organizzazione economica, sociale e produttiva diversa. Ma abbiamo un dominio sulla produzione di beni materiali ancora molto importante. Dobbiamo insistere perchè incontri il mondo del digitale, e utilizzare in questa modo l’opportunità di questa nuova stagione economica. E questo significa dedicarsi a ricostruire tessuto connettivo, microprocessi. Prendiamo la meccanica di precisione: abbiamo perso molto del sistema culturale che ci stava dietro. Lo dobbiamo ricostruire».

D: Ripeto, non è uno scenario troppo pessimista? Restiamo un big della manifattura o no

R: «Sì, ma sono pessimista sulla demografia. Se le aziende hanno un’età media della forza lavoro over 50, non ce la facciamo. Dobbiamo lavorare in termini di stimoli al tessuto imprenditoriale. Perché il problema non è solo che non si trovano i lavoratori, rischiamo anche di perdere vocazione imprenditoriale. La nostra tradizione è la storia del ragazzo di bottega che si mette in proprio e dopo tre generazioni abbiamo una bella azienda.
Gli operai della Volkswagen non hanno mai pensato di aprire una propria attività. Il ragazzo di bottega a Modena, invece, diventava imprenditore. E magari tirava fuori anche un’innovazione. Oggi gli artigiani non trovano le persone che vanno a bottega, quindi rischiamo di perdere lo spirito imprenditoriale.

In sintesi, dobbiamo ragionare molto su come le tecnologie possono potenziare il nostro tessuto produttivo, puntando non sull’hi-tech ma sul mid tech».














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