Imprenditori e la grande svolta del commercio internazionale: che fare?

di Piero Formica* ♦︎ Catene di fornitura corte, ritorno a operare in prossimità geografica e tecnologie digitali: sono questi i trend che hanno modificato il trade transfrontaliero. Che si evolve sempre più verso beni e servizi. Per stare al passo, è necessario favorire scambi di know-how. Il caso Cina

Si dischiudono nuovi e inaspettati orizzonti agli operatori nel commercio internazionale che sta evolvendo più velocemente del nostro pensiero, spesso e volentieri prigioniero dell’attività economica limitata alla produzione di beni. Gli scambi internazionali da tempo hanno travalicato quel confine per penetrare nel territorio dell’immateriale che conferisce qualità alla ricchezza materiale.

Con 655 miliardi di dollari l’Italia è in ottava posizione nella classifica mondiale dell’export e siamo il quinto mercato mondiale delle macchine per l’industria meccanica. Tra le regioni dell’Unione Europea, il nostro Nordest si trova nel gruppo alto degli esportatori per valore e intensità (export pro-capite) È, dunque, per noi imprescindibile sintonizzarci sulle lunghezze d’onda della velocità di corsa del commercio internazionale e delle direzioni che prende. Tra il 1990 e il 2008, pre-crisi finanziaria, era stato sostenuto il trend di crescita delle merci scambiate internazionalmente. Fatto pari a 100 il loro volume nel 2005, nel 2017 l’indice aveva superato quota 140.







La navigazione nello stretto tra Scilla (il mostro finanziario) e Cariddi (il mostro epidemico) hanno tanto rallentato la corsa da far scendere quell’indice sotto 100. Dalla fine del secondo millennio, a far da traino le catene globali del valore (cgv) hanno sostituito il commercio tradizionale (le merci prodotte interamente in un Paese e consumate in un altro). Ora stiamo assistendo all’arretramento dell’onda alta cgv. Le catene di fornitura si accorciano. Le imprese propendono nuovamente ad operare in prossimità geografica. Per un verso, esse temono l’interruzione dei flussi commerciali causata dal susseguirsi ravvicinato di crisi globali della più diversa natura. Dall’altro lato, vogliono cogliere l’opportunità offerta dalle tecnologie digitali di potere da casa operare a distanza comunicando online.

Tra il 1990 e il 2008, pre-crisi finanziaria, era stato sostenuto il trend di crescita delle merci scambiate internazionalmente. Fatto pari a 100 il loro volume nel 2005, nel 2017 l’indice aveva superato quota 140. La crisi e la pandemia hanno tanto rallentato la corsa da far scendere quell’indice sotto 100. Dalla fine del secondo millennio, a far da traino le catene globali del valore (cgv) hanno sostituito il commercio tradizionale (le merci prodotte interamente in un paese e consumate in un altro). Ora stiamo assistendo all’arretramento dell’onda alta cgv

Se una strada che le imprese stanno percorrendo indica il “ritorno a casa”, una seconda va in direzione della qualità. Il commercio transfrontaliero si evolve verso beni e servizi la cui movimentazione internazionale dipende in misura crescente:

  • Dalla qualità del trattamento riservato ai lavoratori, dalle misure a favore dell’economia verde e, più in generale, dal campo di gioco delle relazioni intangibili e degli scambi materiali, un campo non inquinato da pratiche discriminatorie e, perciò, sottomesso al principio della parità di condizioni tra gli operatori.
  • Dai valori immateriali come l’immaginazione, il capitale relazionale e reputazionale.
  • Dalle risorse immateriali come il know-how, i brevetti e i marchi, le immagini e le mode, i ruoli, le reti e le nuove concezioni.

È questo lo scenario in cui si muovono attori del calibro del Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione finanziaria par eccellenza; della Cina verso cui convergono interessi contrastanti circa l’organizzazione dei processi produttivi delle imprese localizzate in Paesi diversi; del dollaro e del renminbi – l’uno dominatore delle transazioni internazionali e l’altro che aspira a sostituirlo come valuta di riserva mondiale.

Le catene di fornitura si stanno accorciando. Le imprese propendono nuovamente ad operare in prossimità geografica. Per un verso, esse temono l’interruzione dei flussi commerciali causata dal susseguirsi ravvicinato di crisi globali della più diversa natura. Dall’altro lato, vogliono cogliere l’opportunità offerta dalle tecnologie digitali di potere da casa operare a distanza comunicando online

In un’intervista rilasciata a Martin Wolf sul Financial Times dello scorso 18 gennaio, Kristalina Georgieva, direttrice operativa dell’FMI, ha dichiarato: «La ripresa sta arrivando, ma sarà parziale e disomogenea. Per avere successo, deve essere sostenuta da un’azione decisiva e unificata, agendo tutti insieme. Tale co-operazione potrebbe tradursi in un tasso di crescita dell’economia mondiale del 5,2 per cento, un aumento significativo dal meno 4,4 per cento previsto dal FMI per lo scorso anno. Nel 2021, la ripresa non ci porterà al livello precedente al 2019. Permettetemi di ricordare che non eravamo in gran forma nel 2019. Avevamo bassa produttività, bassa crescita. Prevediamo una perdita totale di 28tn di dollari di produzione entro il 2025». La Georgieva invoca “incentivi per un buon comportamento” nel corso della ripresa. Ciò si dovrebbe tradurre in una cooperazione globale per sradicare le erbacce delle distorsioni che hanno infestato il terreno del commercio internazionale. Tra il 2009 e il 2020, la quota del commercio mondiale colpita da incentivi e limiti all’esportazione, sussidi e tariffe all’import, è salita dal circa il 40% ad oltre il 70%. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare qui, c’è allora da sgombrare il terreno dal serpente velenoso della competizione intesa come un gioco finito, con un vincitore e un perdente. Chi morde vince. Al suo posto subentra la cooperazione che crea opportunità a vantaggio di tutti i giocatori. È un gioco senza fine che si evolve spontaneamente verso la coopetizione in cui coesistono comportamenti cooperativi e competitivi tra le parti in campo. Si dice che per conciliare cooperazione e competizione gli asiatici siano diventati maestri nella pratica della coopetizione. Allorché le catene di approvvigionamento sono riformattate e la produzione è riportata in patria, è il gioco coopetitivo che la Cina intenderebbe portare nello scacchiere delle relazioni commerciali affinché beni e servizi continuino a viaggiare attraverso i confini?

In un recente discorso pubblicato da una rivista del Partito Comunista, Qiushi, Xi Jinping ha così riconosciuto le sfide economiche in corso: «Profondi aggiustamenti interessano l’economia internazionale, la tecnologia, la cultura, la sicurezza e la politica; il mondo è entrato in un periodo di turbolenti cambiamenti. Ci troviamo di fronte a un ambiente esterno battuto da forti venti contrari, e dobbiamo prepararci a rispondere a una serie di nuovi rischi e sfide». Intanto, nel 2020 l’economia cinese è cresciuta del 2,3 e del 6,5% negli ultimi tre mesi rispetto allo stesso periodo del 2019. A guidare l’economia nel 2021 sarà l’export, con il settore manifatturiero in prima linea. Nell’ultimo quarantennio l’incidenza cinese sulle produzioni ed esportazioni manifatturiere globali è salita, rispettivamente, dal 5% al 20% e da sotto il 5% ben al di sopra del 15%. La scalata prosegue. Un esempio tra i tanti: allo Xuzhou Construction Machinery Group, nella provincia di Jiangsu, gli impianti funzionano giorno e notte per tenere il passo con la domanda di nuove macchine movimento terra e battipali. Negli anni delle globalizzazione con l’espansione economica hanno fatto un salto in alto i salari. Se nel 2000 i salari statunitensi erano 35 volte più alti dei cinesi, nel 2018 quel multiplo è sceso al valore di 5.

Nel 2020 l’economia cinese è cresciuta del 2,3 e del 6,5% negli ultimi tre mesi rispetto allo stesso periodo del 2019. A guidare l’economia nel 2021 sarà l’export, con il settore manifatturiero in prima linea. Nell’ultimo quarantennio l’incidenza cinese sulle produzioni ed esportazioni manifatturiere globali è salita, rispettivamente, dal 5% al 20% e da sotto il 5% ben al di sopra del 15%

Come negli anni Ottanta del secolo scorso spiegò il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, «la valuta di un Paese che è importante nei mercati mondiali sarà una candidata migliore per essere moneta internazionale rispetto a quella di un Paese più piccolo. In altre parole, un’economia globalmente dominante è l'”hardware” per una valuta di riserva internazionale». La Cina ha oggi l’hardware necessario per scalzare il dollaro nel ruolo di moneta di riserva e, conseguentemente, di porsi al comando delle transazioni finanziarie e commerciali? Rispondono affermativamente quanti sostengono che oltre ad essere primo commerciante nel mondo, la Cina è anche la più grande economia in termini di parità di potere d’acquisto. Lungo la “Belt and Road”, la nuova Via della seta, i suoi clienti dei Paesi emergenti e in via di sviluppo stanno iniziando a utilizzare il renminbi nelle loro crescenti transazioni commerciali e finanziarie con la Cina. Secondo le più recenti stime (ottobre 2020) del FMI, tra il 2019 e il 2025 nei in quei Paesi il Pil pro-capite crescerà intorno al 15% contro il 5% circa nei paesi avanzati. Grazie anche all’influenza cinese nel progresso geo-economico di quell’area, il renminbi è attualmente ai massimi da 30 mesi contro il dollaro. L’hardware da solo non è però sufficiente per comandare i flussi commerciali e finanziari internazionali. Almeno altrettanto importante e il “software”. Sue componenti primari quali la fiducia degli investitori nel sistema bancario cinese e l’affidabilità del suo apparato statale sono tuttora fortemente carenti. Il percorso verso il traguardo delle alte qualità è lungo. Osservata da questa prospettiva e con l’occhio puntato sulle grandi democrazie, la Cina non appare una così grande potenza. Nel 2019, la quota sul totale mondiale del Pil cinese rapportato al potere d’acquisto è stata nell’ordine del 20% a fronte di quasi il 50% delle grandi democrazie.

Orientato verso la qualità, per il commercio internazionale perdono attrattiva i Paesi che siano “fabbriche del mondo” a basso costo del lavoro, ad alta intensità di importazione di tecnologia, ad elevato tasso d’inquinamento e che creano forti tensioni sociali. Molto più allettante è favorire gli scambi di cervelli affinché le imprese integrate mondialmente possano avere accesso alle migliori risorse umane da impiegare nei loro centri di ricerca e sviluppo, e anche per incubare nuove iniziative imprenditoriali. In prima fila stanno gli imprenditori che si allenano a manovrare gli strumenti della produzione creativa, interagendo con i consumatori che diventano essi stessi creatori di innovazione. Con i giovani potenziali imprenditori che sognano di creare imprese che possano competere in una vasta arena che va dall’industria dei contenuti all’industria culturale, il commercio internazionale funge da locomotiva che si accinge a trainare un convoglio ad alta velocità lungo i paesaggi dischiusi dall’economia della conoscenza.

Lo sviluppo basato sulla conoscenza si sta consolidando come approccio strategico nelle regioni e nei Paesi che hanno raggiunto i più alti livelli di sviluppo sostenibile. Tra Milano, Bologna, Padova, Treviso e Venezia, nel Nordest vengono alla luce iniziative che fanno fluire la conoscenza dall’origine al punto di massima necessità o opportunità per migliorare la performance economica, il benessere socio-politico e offrire un’alta qualità di vita ai cittadini. La comunità internazionale ha dato a tali iniziative il nome di “Zone di innovazione della conoscenza”, centri di interazione connessi, creativi, vivibili, e attraenti per le persone di talento e per gli investitori. I leader stanno imparando; i seguaci cominciano a familiarizzare con questi nuovi percorsi di trasformazione. Dalle città sopra citate e da altre nella Penisola a Barcellona, Melbourne, Montreal e Manchester, per citarne alcune fiorenti all’estero, il commercio internazionale si arricchisce di correnti di scambio che, insieme ai prodotti e ai servizi, trascinano i valori intangibili.

 

 

*Piero Formica è Professore di economia della conoscenza, Senior Research Fellow dell’International Value Institute presso la Maynooth University in Irlanda. Presso il Contamination Lab dell’Università di Padova e la Business School Esam di Parigi svolge attività di laboratorio per la sperimentazione dei processi di ideazione imprenditoriale














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