Se il Coronavirus infetta anche l’industria italiana

di Laura Magna ♦︎ Lo stop a Pirelli, Fca, Italdesign e Armani mette a nudo le debolezze del sistema. Ma che rischi corriamo sul lungo periodo? De Felice (Anra): «In pericolo 13 miliardi di esportazioni. Tremano 2.600 imprese»

Pirelli chiude in Cina. Fca costretta a fermare la linea della 500L in Serbia per lo shortage di componentistica. Italdesign blocca le produzioni italiane per precauzione, lo stesso fa Giorgio Armani in un settore diverso. È allarme Coronavirus anche per l’industria italiana. «La possibile interruzione della produzione in Italia mentre il bollettino medico si fa più severo è un rischio tangibile, ma già il blocco cinese ha causato danni per la nostra manifattura, più o meno gravi a seconda della dipendenza dal Celeste Impero», dice a Industria Italiana Alessandro De Felice, presidente di Anra e risk manager di Prysmian.

«Danni più gravi per chi ha delocalizzato e via via decrescenti per chi ha fornitori solo cinesi e per chi ha filiali per servire il mercato locale. Si tratta di un fatto, non un semplice rischio. Un fatto che non può essere ignorato tanto che le aziende stanno già facendo le simulazioni necessarie per calcolare l’impatto potenziale a bilancio di uno stop più o meno prolungato in Cina e in Italia. Oltre che potenziali contromisure per farvi fronte quando è possibile».







 

I casi italiani di stop alla produzione

Alessandro De Felice, presidente Anra e risk manager Prysmian

Secondo l’Ufficio studi della Fondazione Italia Cina il problema principale per la parte industriale è rappresentato «dalla contrazione dei consumi e dall’interruzione delle linee produttive industriali (in Cina), che in molti casi si è prolungata oltre i 15 giorni previsti. Le fabbriche stanno riaprendo gradualmente in questi giorni ma non è al momento possibile prevedere in che misura i ritmi produttivi torneranno alla normalità».
Tutto ciò avrà un impatto sull’economia cinese, mentre, per quanto riguarda l’Italia, «oltre all’impatto negativo sui 13 miliardi di euro di esportazioni», va considerato che nella Greater China che include Hong Kong «operano circa 2000 imprese partecipate da aziende italiane, dunque l’interruzione della produzione in questi giorni non potrà non riverberarsi sul loro conto economico in Cina e in Italia. A queste si sommano le oltre 600 imprese che operano in territorio italiano partecipate da investitori cinesi che inevitabilmente subiranno dirette conseguenze».

Intanto, a macchia di leopardo, le industrie italiane annunciano i propri stop. Pirelli, per cui la Cina conta per il 12% delle vendite totali, ha sospeso l’operatività in due delle tre fabbriche in Cina, dove al momento opera a ritmo ridotto unicamente la fabbrica Car/Moto di Yanzhou. Fca ha invece annunciato la possibile chiusura dello stabilimento in Serbia dove si produce la 500L perché non riceve più componenti necessari per alimentare la linea. Gli stabilimenti italiani di assemblaggio di Melfi e Pomigliano di Arco per ora sono a regime, ma perché non dovrebbero essere coinvolti? È l’effetto Coronavirus sull’industria italiana che inizia a farsi sentire.

Ancora, è di qualche ora fa la notizia dello stop provvisorio di tutte le attività di produzione in Italia di Italdesign (gruppo Volkswagen) in quanto un dipendente dello stabilimento di Nichelino è stato risultato positivo al virus. In un settore diverso, Giorgio Armani ha deciso di chiudere per una settimana gli uffici di Milano e le sedi produttive che si trovano in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Trentino e Piemonte. Insomma, da un lato la chiusura della fabbrica del mondo si riverbera su tutta la supply chain mondiale: in particolare la sola città di Wuhan – epicentro della diffusione della pandemia – è un importantissimo snodo di distribuzione e fornitura nel settore hi-tech e automobilistico mondiali. Dall’altro la diffusione del virus anche in Italia raddoppia la potenza di fuoco del danno potenziale.

 

I rischi dello stop cinese

John Elkann, presidente di Fca e presidente e ad di Exor. Foto credits Di Exor S.p.A.

Più in particolare, dice De Felice: «Ci sono tre tipologie di produzioni italiane che possono subire un impatto negativo da questa situazione: la prima è quella delle aziende che ricevono componentistica dal Celeste Impero, come l’automotive, che rischiano di dover interrompere la produzione anche in Italia come conseguenza dello stop cinese».

«Questa tipologia è probabilmente oggi la più difficoltà perché di fatto in Cina è tutto fermo da fine gennaio ed esiste un ritardo accumulato sulle linee di almeno due settimane, che si estende anche alle aziende che sono ripartite ma la cui logistica continua a non essere a regime. Queste aziende che producono in Italia ma le cui linee dipendono dalla componentistica in arrivo dalla Cina possono trovarsi costrette a chiudere, ma hanno ancora la possibilità di salvarsi trovando fornitori alternativi. La seconda categoria invece è quella più esposta alla crisi: parlo delle aziende che hanno delocalizzato in Cina e producono tutto là per poi importare in Europa e in Italia. In questo caso l’intera catena logistica è nel cuore della pandemia. E la produzione sconta un ritardo dalle due alle tre settimane da cui può scaturire un reale tracollo», spiega de Felice.

Il terzo gruppo a rischio, infine, è quello delle aziende che hanno filiali in Cina e fanno produzione per il mercato locale: «per loro l’impatto negativo sarà solo parziale e limitato geograficamente», aggiunge De Felice che invita a considerare che queste perdite sono già un fatto: «Parliamo non di rischio ma di certezza: si tratta solo di fare la conta dei danni. Certamente i piani di emergenza e di business continuity sono già stati avviati dalle aziende che se ne erano dotate. Ma politiche di disaster recovery possono essere messe in piedi solo se esiste una gestione del rischio strutturata, non possono essere improvvisate».

 

… e quelli del panico italiano

Marco Tronchetti Provera, ceo e vice presidente esecutivo di Pirelli

Dal 21 febbraio, poi, la situazione è precipitata anche in Italia ma è tutta in divenire: «le aziende di servizio e back office hanno risolto con il remote working e continuano a lavorare. Certamente per chi fa produzione è allarme perché in questo caso le fabbriche possono essere bloccate d’autorità come accaduto in Cina. Tuttavia, l’impatto per l’industria italiana è tutto da valutare, bisogna vedere se le misure contenitive attuate dal governo riescono nell’obiettivo di contenere i focolai nelle zone in cui hanno avuto origine. Se l’epidemia si allarga oltre i Comuni oggi interessati, certamente si avranno impatti su produttività, profitti attesi e finanza aziendale», dice De Felice. Che però invita alla calma.

«Non abbiamo evidenza per parlare oggi di numeri e sarebbe terroristico fare previsioni di quello che potrebbe succedere alla produzione in Italia. Le zone focolaio sono sicuramente collocate in un tessuto fortemente produttivo ma non hanno un peso tale da bloccare l’economia del Nord: mi attendo sicuramente che uno zero virgola di Pil andrà perso per strada, ma dobbiamo aspettare di conoscere la dimensione del problema per dire di più sul calo della produzione industriale. In questa fase si sta cercando ancora di capire quanto e come è diffuso il morbo e cosa questo farà decidere a chi di dovere. Poi si potranno fare delle stime sulle perdite industriali», dice De Felice.

Stime che sicuramente tutte le aziende stanno facendo al loro interno: «Tutte stanno facendo valutazioni di impatto sulla marginalità e la cassa attesa basandosi sulle ipotesi di fermo impianti di uno, due, tre o 5 mesi e stanno valutando le alternative che possono essere adottate e con quali impatti».

 

E se dalla crisi nasce un’opportunità?

La mappa del Coronavirus. Data sources: WHO, CDC, NHC and Dingxiangyuan

Ma provando a guardare oltre, De Felice crede che da questa crisi possa nascere qualcosa anche di buono. «Ci sono effetti collaterali interessanti: per esempio, potrebbe accadere che quello che non arriva dalla Cina lo ricominciamo a produrre qui. Sarebbe un rovescio della medaglia con impatto positivo sula produzione. Molte aziende proprio perché si è bloccata la catena di produzione cinese hanno avuto un’opportunità». Senza considerare che l’esperimento forzoso del remote working possa riuscire talmente bene da creare una diffusione spontanea di qualcosa che finora è stata osteggiata dagli stessi lavoratori. Da ogni crisi, in fondo, possono nascere opportunità inaspettate.














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