Non solo Trump. Con Patrizio Bianchi analizziamo gli effetti dei prossimi cambiamenti politici sull’industria europea

di Marco De' Francesco ♦︎ Secondo il noto economista industriale la rielezione di Donald Trump non è da escludere. L'elettorato chiede politiche neo-nazionaliste, che rischierebbero di indebolire la già fragile Europa. E di acuire la "guerra fredda" fra Usa e Cina. L'impatto dei conflitti in Medio Oriente e della rivolta degli Houti sul Vecchio Continente. Il rischio che la ripresa economia sia trainata dalla spesa militare, trascurando altri settori chiave. E sulla Via della seta...

Donald Trump

«Le politiche isolazioniste di Trump rischiano di indebolire un’Europa già divisa e vulnerabile, gettando ombre sull’industria e sull’economia del Vecchio Continente». Lo afferma Patrizio Bianchi, uno dei maggiori economisti industriali italiani nonché ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi. Autore di centinaia di pubblicazioni, è stato ordinario (ora emerito) a Ferrara, dove è diventato prima preside di Economia e poi Rettore. È stato presidente di Sviluppo Italia (ora Invitalia) e consigliere di amministrazione dell’Iri. Il ragionamento di Bianchi riguarda l’ipotesi di una possibile rielezione di Donald Trump alle presidenziali del 5 novembre. Non è un’ipotesi astratta: un recente sondaggio realizzato dal New York Times insieme al Siena College rivela che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si trova al dietro di cinque punti rispetto a Trump. Ma dov’è il problema? Il fatto è che lo stesso elettorato chiede a Trump di perseguire politiche neo-nazionaliste. L’approccio ha riscosso successo soprattutto tra coloro che vivono nelle periferie e negli stati interni, dove le condizioni economiche sono peggiorate nel tempo. Gli americani impoveriti desiderano che il lavoro venga mantenuto all’interno dei confini nazionali, come mezzo per affrontare le crescenti disuguaglianze socioeconomiche. La classe operaia, che tradizionalmente aveva sostenuto posizioni di sinistra, si sta spostando a destra in cerca di soluzioni più radicali e impattanti. Trump, secondo Bianchi, può essere rieletto solo grazie a questo meccanismo.

Solo che già l’attuale presidente Joe Biden ha già posto pesanti sanzioni. Non all’Europa, ma alla Cina. Commerciali, finanziarie e tecnologiche. Questo ha determinato un cambiamento delle dinamiche geopolitiche e dei flussi commerciali, rendendo necessario un riposizionamento dell’industria europea. La Germania, infatti, rappresenta l’epicentro del sistema manifatturiero continentale, e ciò che accade in questo Paese ha ripercussioni su tutta l’Unione Europea. Con le sanzioni, Berlino è stata scalzata dalla sua posizione di primo partner commerciale della Cina; e anche il progetto di interscambio “La Via della Seta”, che vedeva Berlino come terminale occidentale, è fallito. L’Italia paga dazio di conseguenza, dal momento che è fra i principali produttori di componenti per l’industria tedesca. Nuove sanzioni alla Cina si tradurrebbero in un ulteriore danno all’economia europea. E non va dimenticato che Trump, quando era presidente, ha posto sanzioni anche nei confronti di alcuni prodotti europei: si pensi all’acciaio.







Né, secondo Bianchi, si può pensare che Trump sia veramente interessato a metter fine ad alcune situazioni geopolitiche pericolose, some il conflitto in Ucraina, quello in Palestina e la rivolta degli Houti nel Mar Rosso. Trump farebbe ciò che conviene all’interesse americano, che non necessariamente è ciò che giova al resto del mondo. È anzi la “personalizzazione” delle possibili soluzioni a scalzare gli organismi internazionali come l’Onu, e quindi ad allontanare la fine dei conflitti. Che danneggiano economicamente soprattutto la debole Europa, intrappolata nella competizione tra le due superpotenze.

D: Quali effetti avrebbe sull’economia e sull’industria italiana ed europea una possibile rielezione di Trump?

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L’economista Patrizio Bianchi.

R: Non credo che nella testa di Trump l’Italia e l’Europa esistano. Credo che abbia un’idea molto vaga del Belpaese e del Vecchio Continente. E poi il problema non è Trump in sé: è cosa vuol fare l’Europa da grande. Infatti, quando si verifica una situazione complicata, i Paesi dell’Unione vanno tutti per conto loro, quando ormai non hanno più le dimensioni per poterlo fare. Neanche la Germania. Quindi, un Trump ostile si troverebbe di fronte ad un’Europa divisa. E debole: nei nuovi settori, nelle grandi piattaforme tecnologiche, non ci sono aziende europee, ma solo cinesi o americane. Il Vecchio Continente pare fare margini solo con la Salute (dove investe assai più che gli Usa) e con l’ambiente. E poi da noi manca un mercato finanziario unificato, come negli Usa, che investa nelle imprese. Da noi è suddiviso in mercati nazionali, deboli e con una scarsa capacità di investimento. Come dice Draghi, l’Europa non si è compiuta, non ha realizzato l’integrazione finanziaria; e ora ne paga lo scotto, perché è incapace di affrontare tematiche importanti, come quella della duplice transizione digitale e green. Insomma, l’Europa ha i suoi guai a prescindere da Trump – che comunque non è destinato a migliorare la nostra situazione, in caso di ri-elezione.

D: Perché Trump non è destinato a migliorare la nostra situazione?

R: Perché è un neo-nazionalista, che porta avanti un disegno protezionista. Ha successo in patria perché l’America è molto cambiata. Non ci sono soltanto Boston, New York, Chicago e la California: c’è tutto il mondo delle periferie e degli stati interni, dove la gente se la passa peggio di una volta. Gli americani impoveriti e marginalizzati chiedono che il lavoro sia riportato entro i confini nazionali anche per limare le consistenti disuguaglianze che si sono andate a creare. La classe operaia, che prima votava a sinistra, ora vota a destra, perché propone soluzioni più estreme, quelle che avrebbero un maggior impatto. Ma l’isolazionismo americano certo non favorisce l’economia e l’industria del Vecchio Continente. Che vivono di complessità, e che quindi possono essere messe a rischio dalle semplificazioni di Trump. Si pensi solo alla globalizzazione dei trasporti, della logistica. È sempre più complicata: la Via della Seta è paralizzata perché tra Pechino e Berlino sono in corso cinque guerre; e il Mar Rosso è diventato rischioso a causa dei ribelli Houti. Sì, in questa situazione particolare nuovi dazi sarebbero deleteri per l’Europa.

D: Perché Trump è così avversato dalla finanza internazionale, che ha sempre sostenuto i suoi avversari?

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Una possibile rielezione non è un’ipotesi astratta: un recente sondaggio rivela che Biden si trova dietro di cinque punti.

R: In generale, la finanza globale vede l’isolazionismo come una minaccia alla crescita, all’efficienza e alla stabilità dell’economia mondiale. Le politiche isolazioniste possono generare incertezza e volatilità nei mercati globali, influenzando negativamente il clima di investimento e potenzialmente portando a crisi finanziarie locali o regionali che possono avere ripercussioni mondiali. Insomma, anche la finanza vive di complessità.

E alla finanza non sfugge che i mercati interni – compreso quello americano – sono segnati da importanti indebitamenti. Nessuno stato, compresi gli Usa, può andare avanti da solo.

D: Basta l’appoggio dei marginalizzati degli Usa per riportare Trump al potere?

R: No; ma c’è diffidenza anche nei confronti di Biden, e a vari livelli. La sua posizione rigorosa verso la Cina sta portando problemi a varie industrie, vista l’ampiezza dell’interscambio. E il reshoring promosso da Biden con il suo atto più importante, l’Inflation reduction act (Ira) in realtà sta comportando un near shoring in Messico e in Vietnam, dove vanno anche le aziende cinesi che intendono sfuggire ai dazi americani.

D: Un uomo forte al potere, però, potrebbe forse aiutare a risolvere alcune crisi geopolitiche, come ad esempio il conflitto in Israele o la rivolta degli Houti nel Mar Rosso. Trump ha più volte sottolineato che durante il suo mandato precedente queste crisi non c’erano.

R: Io penso anzitutto che la situazione mediorientale vada considerata nel suo insieme: va valutata anche la condizione di Siria, Libano, Giordania. Ci sono interrelazioni che non possono essere trascurate. Ma personalmente non penso che debba pensarci Trump: credo che le istituzioni internazionali come l’Onu, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario, non abbiano “toccato palla” finora, e che invece debbano essere rafforzate nel loro ruolo di intermediazione. Altrimenti non se ne esce. L’Europa, poi, esprime tutta la sua fragilità.

D: Trump non può farcela da solo?

R: C’è una eccessiva personalizzazione in questi conflitti. Alla fine, non si tratta solo di Trump. A parte il fatto che il mondo americano è più articolato di quanto non si pensi e che le decisioni non dipendono solo dal presidente, è appunto il fatto di rimettere le speranze della pace all’autorità di Trump, Biden, Putin o Xi Jinping ad indebolire e destabilizzare gli organismi internazionali.

D: Che effetto hanno le vicende mediorientali sulla nostra economia?

R: Direi che soprattutto la crisi del Mar rosso sta producendo un impatto importante, perché mette a rischio il principale canale di comunicazione commerciale tra Occidente e Oriente, e questo tocca la logistica mondiale, e quindi l’industria italiana ed europea. Si sta peraltro evidenziando nel Vecchio Continente un certo distacco tra i Paesi del Nord e quelli del Sud, che sono i più colpiti. In generale, l’Italia è colpita in modo particolare dalla destabilizzazione globale. Vende beni di fascia alta, che non si commercializzano in un mondo impaurito e impoverito. La destabilizzazione danneggia l’industria e promuove la speculazione.

D: Trump dice che con lui al potere finisce la guerra in Ucraina.

Trump afferma che, con lui al potere, finirebbe la guerra in Ucraina. Un tema sul quale Bianchi mostra scetticismo.

R: Non si capisce come dovrebbe accadere. Accettando lo status quo, e cioè con la perdita di una parte del territorio da parte dell’Ucraina? Io vedo anche i rischi di una soluzione di questo tipo, così come noto che la Nato ha proceduto con l’espansione a grandi falcate verso l’Est europeo. È una situazione molto complicata, che però ha già un effetto perverso.

D: Qual è questo effetto perverso?

R: Si sta diffondendo l’idea che l’economia possa essere trainata dall’industria militare; e così si investe di meno in altri settori, anche di rilievo.

D: Lei pensa che l’Italia parteciperà alla ricostruzione dell’Ucraina?

R: Soltanto se l’Europa sarà in grado di gestire la fine della guerra. Solo in questo caso l’Italia e gli altri Paesi comunitari avranno la possibilità di partecipare alla ricostruzione. Ma non è scontato.

D: Pensa che la “guerra fredda” tra Usa e Cina possa acuirsi con Trump?

R: Io non credo che sia desiderabile per l’industria americana, e di questo Trump, semmai venisse rieletto, dovrebbe tenerne conto. Alla fine grandi aziende come Apple o Boeing devono parecchio alla Cina, visto che il basso costo del lavoro ha consentito loro la delocalizzazione e l’espansione. È anche vero che la Cina sta sostituendo gli Stati Uniti in alcuni settori: si pensi all’automotive, dove una volta Pechino non contava nulla e ora conta per più di un terzo del mercato globale. Ma la nuova industria vive di interrelazioni, e la nuova Cina robotizzata ed efficiente può servire a tutti, anche alle aziende a stelle e strisce.

D: Però si parla di crisi, per la Cina.

Dopo anni di crescita a doppia cifra, l’economia cinese sta rallentando e si parla di crisi. Ma, secondo Bianchi, non è detto che una Cina destabilizzata convenga all’Occidente.

R: Forse la crescita rapida è “arrivata al tetto”, e questo comporta un progressivo rallentamento. Ma come poteva continuare come negli ultimi 30 anni? Quando nel 1978 Deng Xiaoping prende il potere, i cinesi avevano un reddito medio di 158 dollari all’anno, 50 centesimi al giorno; nel 2022, 12.770 dollari all’anno. Nel mezzo, l’apertura al mercato degli anni Novanta; la grande delocalizzazione in Cina, l’acquisizione degli standard produttivi occidentali, l’entrata nel Wto. E quindi la grande crescita. Che però sconta diversi problemi di impostazione, che stanno emergendo. Un cinese di Pechino, di Shanghai o della Costa ha in genere un reddito fino a quattro volte tanto quello di un cinese delle regioni interne. C’è una grande disuguaglianza – che rappresenta un fattore un po’ strano per una Repubblica Popolare. Ora è entrata in crisi l’edilizia, che era il comparto in cui il cinese medio investiva. Anche a seguito di alcuni fallimenti, non c’è fiducia nel sistema: la gente preferisce mantenere il proprio denaro liquido piuttosto che investirlo o spenderlo. Ma senza investimenti non c’è crescita; almeno, non c’è quella cui la Cina ci aveva abituato. Le sanzioni commerciali, finanziarie e tecnologiche americane stanno peggiorando il quadro. Ma non è detto che una Cina destabilizzata convenga all’Occidente.

D: Perché dovrebbero interessarci le sorti della Cina e del fatto che gli americani pongano nuove sanzioni a Pechino? Alla fine, l’Italia esporta più in Belgio che in Cina.

R: Perché le connessioni industriali ed economiche tra i Paesi dell’Unione Europea, in particolare tra Germania e Italia, sono profonde e strette. Un anno fa, quando il Pil tedesco stagnava mentre quello italiano registrava una crescita, alcuni commentatori esprimevano soddisfazione per questa disparità. Tuttavia, io riflettevo sul fatto che se la locomotiva si ferma, inevitabilmente anche i vagoni subiscono lo stesso destino, prima o poi. E, di fatto, è proprio quello che è successo.

D: Cos’è successo alla Germania in Cina?

Il progetto cinese “Belt and road initiative” (la nuova Via della Seta)) mirava a potenziare i collegamenti economici e infrastrutturali tra Asia, Europa e Africa. Un piano che però ha trovato la forte opposizione degli Usa

R: La Germania rappresentava il principale partner commerciale della Cina. Il progetto cinese noto come la già citata “Via della Seta” o “Belt and road initiative” (Bri) mirava a potenziare i collegamenti economici e infrastrutturali tra Asia, Europa e Africa. Tuttavia, questo piano incontrava una forte opposizione dagli Stati Uniti, i quali hanno incoraggiato l’India a sviluppare il Corridoio Economico e Ferroviario Indo-Giapponese (Igic), un’alternativa che attraversa il Golfo e si propone come sostituto della rotta cinese. Poi, come già accennato, Biden ha emesso un decreto che introduce ulteriori restrizioni sugli investimenti degli Stati Uniti in aziende con sede a Pechino, soprattutto nel settore della tecnologia avanzata, con particolare attenzione a settori ritenuti cruciali per le capacità militari, di intelligence e di sorveglianza. Le tre principali aree coinvolte sono i semiconduttori, la tecnologia quantistica e l’intelligenza artificiale, considerate di fondamentale importanza strategica. Questo provvedimento richiede un aggiustamento delle posizioni per tutti gli Stati occidentali. Inoltre, la Germania si trova ora ad affrontare la perdita di uno dei pilastri della politica seguita sotto la guida di Merkel: mantenere una stretta alleanza con la Nato e con l’Occidente, e al contempo stabilire relazioni (anche commerciali) con i Paesi dell’Est. Di conseguenza, importanti aziende tedesche dovranno ora rimuovere dalla propria infrastruttura più della metà dei componenti forniti da aziende cinesi. Tutto ciò danneggia la Germania, e indirettamente anche noi, che siamo tra i principali componentisti dell’industria tedesca. Insomma, nuove sanzioni sarebbero deleterie, per la Germania, per l’Europa, e per l’Italia.














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