Una via italiana all’industry 4.0? Difficile, forse impossibile disegnarla. Ma ci sono utili appunti

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di Marco Dè Francesco ♦ Strategie per fare business nel dibattito conclusivo di Biennale Innovazione, moderato dal direttore di Industria Italiana Filippo Astone. Con gli interventi di Baban (Confindustria e VeNetWork), Simonato (Intesa), Busetto (Siemens), Parisatto (Kpmg), Marini (Abb), Santoni (Cisco)

«L’industry 4.0 è un concetto che è stato codificato nel 2011 in Germania nell’ambito della High Tech Strategy, una strategia di politica industriale formulata a un tavolo cui siedevano il governo federale, i lander, le aziende e le università. In realtà non si dovrebbe nemmeno parlare di Industry 4.0 ma di ”Industrie Vier Punkt Null„.  Filippo Astone, direttore di Industria Italiana ritiene doverosa la puntualizzazione, nella sua veste di moderatore del dibattito conclusivo della edizione 2017 della Biennale Innovazione di Venezia, dedicata agli impatti strategici dell’Industry 4.0 sui modelli di business delle imprese italiane. «Industry 4.0 – ha detto Astone – è un concetto molto tedesco, pensato per la realtà tedesca fatta di grandi aziende, con una leadership mondiale nel settore dell’ automotive, grandi investimenti in ricerca e sviluppo, grande propensione alla collaborazione e al fare sistema. Dopo la codificazione in Germania, questo concetto è stato cavalcato oltreoceano negli Stati Uniti (che già avevano codificato il concetto di Iot). Gli americani sono i proprietari delle principali tecnologie di ICT che sono necessarie a questa trasformazione. L’Italia vanta una leadership nella manifattura, essendo il secondo paese manifatturiero in Europa dopo la Germania e il settimo al mondo, ma ha caratteristiche che sono estremamente diverse da quelle del concetto tedesco dove è nata l’Industry 4.0 come idea».

Il parterre dei partecipanti al dibattito finale di Biennale Innovazione

Questo è il punto di partenza: come si adattano i concetti dell’ Industry 4.0 a una realtà come quella italiana? In Italia abbiamo un tessuto molto esteso di piccole e medie imprese, dove ci sono delle medie imprese manufatturiere (identificate da Mediobanca come quelle del Quarto capitalismo), che sono forti nella loro nicchia di mercato e che poi, a guardar bene, producono gran parte del valore aggiunto del Paese. Da noi la struttura del capitalismo è molto diversa da quella tedesca, ci sono piccole e medie imprese, soprattutto medie imprese, che sono forti, e soprattutto sono diversi i settori portanti: c’è la meccanica, poi la moda, il food e in parte il turismo.







Anche se la meccanica e il manifatturiero sono preponderanti, non lo sono nella stessa misura che in Germania e non esiste una leadership nella produzione di auto come in Germania. Ci sono poi minori investimenti in ricerca e sviluppo e meno propensione a muoversi in gruppo e fare sistema. Nella pratica quindi in cosa consiste la via italiana all’Industria 4.0? Si individuano alcuni tratti certi, come la forte discontinuità tecnologica, la digitalizzazione pervasiva, gli adattamenti real-time, l’interconnessione, la complessità organizzativa, l’approccio costumer-oriented, la riduzione del time-to-market.

Alcune aziende, quelle già strutturate in termini di internazionalizzazione, avanzano al passo serrato; e in generale è riconoscibile l’interesse diffuso del tessuto produttivo per la digitalizzazione e per il complesso di sconti fiscali previsti dal piano Calenda; ma l’impressione è che le PMI siano prive di una vision in materia di quarta rivoluzione industriale. Sanno che quest’ultima è una certezza in divenire, ma non sanno esattamente cosa accadrà. Esiste una via italiana a Industry 4.0 ? A questa domanda, posta ai relatori del convegno conclusivo della Biennale è mancata una risposta organica e strutturata. Sono emersi dal dibattito sprazzi, suggerimenti, suggestioni, non è stata data una risposta organica e definita. Forse questo dipende dal fatto che questa risposta semplicemente non c’è. Dunque ecco il quaderno di appunti scritto alla fine della più importante manifestazione italiana sull’Innovazione, organizzata dall’Ateneo di Ca’ Foscari con l’attenta regia del professor Carlo Bagnoli.

 

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Alberto Baban, vice presidente di Confindustria, presidente della Piccola Industria e fondatore di VeNetWork

Baban: la via italiana esiste, e consiste nella conquista di nuovi modelli, per espandersi nel mercato

Alberto Baban – vice presidente di Confindustria, presidente della Piccola Industria nonché fondatore di VeNetWork alla cui guida è stato recentemente riconfermato (e la cui mission è quella di «selezionare e valorizzare le iniziative imprenditoriali venete più innovative che necessitano di un supporto finanziario e gestionale per lo sviluppo») – ha rilevato che «esiste un esercito di 20mila aziende che attendono qualcuno che le accompagni nei mercati secondo le nuove regole, e cioè secondo le pratiche che si stanno sviluppando con rapidità». Una via italiana esiste.

Per Baban «è vero che il tessuto imprenditoriale italiano è per lo più parcellizzato in micro imprese, e che quelle medie sono poche, come pochissime sono le aziende di grandi dimensioni; ed è questo un contesto in cui il mercato “comanda” più del sistema della produzione. Ed è vero che per noi la quarta rivoluzione industriale è un’occasione per risolvere con tecnologie innovative una delle maggiori difficoltà delle nostre imprese, e cioè la bassa produttività, che è assai inferiore a quella media tedesca. Il tema del 4.0 si pone pertanto soprattutto per le aziende manifatturiere che hanno già avviato il processo di internazionalizzazione e sono attive su mercati più ampi».

Dunque, quali sono le aziende in grado di procedere con successo sulla strada dell’innovazione e della digitalizzazione dei processi produttivi? «Circa il 60% delle aziende – ha continuato Baban – non paga l’Ires (imposta sul reddito delle società) perché non fa utili; del restante 40%, la metà va malissimo ed è fuori gioco, mentre l’altra metà è performante. Quest’ultima categoria di imprese, che rappresenta circa il 20% del totale, è potenzialmente in grado di crescere secondo nuovi modelli e trascinare fuori della zona grigia il 60% delle aziende. Purché si prenda atto che le regole del mercato sono cambiate».

Per il vice presidente di Confindustria «ci sono settori, come l’edilizia e come quello legato agli investimenti del Pubblico, che hanno sofferto molto negli ultimi dieci anni. Quando lo Stato, le Regioni, le Provincie, non investono più in infrastrutture e nuove opere, in genere non si produce prodotto interno lordo. Ma, comunque sia, c’è un esercito di imprese pronte a fare un salto in avanti. Sono 20mila le aziende italiane innovative e per internazionalizzate pronte per affrontare la sfida della Quarta Rivoluzione Industriale; circa il 14% di queste sono operative in Veneto. E il fattore dimensionale non conta così tanto, a causa dei cambiamenti in atto nel mercato».

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”Il 20% del totale è potenzialmente in grado di crescere secondo nuovi modelli e trascinare fuori della zona grigia il 60% delle aziende. Purché si prenda atto che le regole del mercato sono cambiate„

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Per esempio, ha continuato Baban, «quando si parla di economie emergenti, vanno presi in considerazioni i trend demografici. Si è citata la Cina, l’Indonesia, le Filippine. La Cina è destinata a diventare il primo mercato del mondo. E poi c’è il web. Attualmente sono connessi 3,5 miliardi di utenti; ma si stima che nel 2021 ci saranno più macchine e oggetti connessi che tutti gli smartphone, i pc e i tablet messi insieme. Da questo punto di vista il 4.0 si sta già avverando. Ma il grande tema è: come si vende oggi?

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Magazzino Amazon in Spagna

Proprio di recente la spesa mondiale in advertising via web ha superato quella realizzata con la Tv. D’altra parte il nuovo mercato si riferisce ad un nuovo utente, il millennial, che fa acquisti via web. Si pensi all’offerta ricettiva: Airbnb, attiva da quattro anni, non possiede un hotel che sia uno, ma “gestisce”, seppure indirettamente, 650mila camere in 192 paesi; in paragone, la catena di alberghi leader su scala globale, attiva da 65 anni, con 4.400 hotel offre 645mila stanze in 100 paesi. E poi in generale, la combinazione tra crowdsourcing, sharing economy e un eccesso di capacità produttiva sta cambiando il mondo».

Per Baban, «il vero protagonista, quello che sta disintermediando il mercato, è Amazon. Prima, com’è noto, vendeva libri; ora, con 300 milioni di utenti nel mondo, vende articoli di vario genere per 136 miliardi, e le vendite nette sono pari a 35,7 miliardi di dollari. Il fatto è che il millennial ha un modello di interazione con il prodotto che è quello più moderno, quello più interessante, l’e-commerce. Così accade che grazie ad Alibaba, 350 Alfa Romeo Giulia sono state vendute in 33 secondi: sarebbe mai accaduta, una cosa del genere, con i canali di vendita ordinari? No, certo. Così, alle nostre imprese interessa capire chi ci porta sul mercato con questi elementi di novità.

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”Bisogna passare dal modello distrettuale al modello degli ecosistemi di filiera. Le dimensioni della singola azienda non contano; hanno rilievo, semmai, quelle della filiera„

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E la dimensione dell’impresa non conta. Se l’impresa riesce ad organizzarsi secondo i nuovi modelli di mercato può passare da 20 milioni a 200 in due anni; fino a qualche tempo fa non era possibile». Per Baban «ci sono 20 mila campioni pronti alle sfide del domani: attendono che qualcuno li accompagni nei mercati con le nuove regole del gioco. E, d’altra parte, sono alla ricerca di qualcuno che insegni loro come migliorare la produttività, grazie alla tecnologia 4.0. Quindi la via italiana esiste, e consiste nella conquista di nuovi modelli, per espandersi nel mercato».

Ma che succede se, nel contesto di una piattaforma aperta, la domanda supera la capacità produttiva di una singola azienda? «Bisogna passare dal modello distrettuale al modello degli ecosistemi di filiera. Le dimensioni della singola azienda non contano; hanno rilievo, semmai, quelle della filiera. Se la singola impresa non è in grado di far fronte alla domanda, deve intervenire un’altra azienda. Insomma, conta la testa di ponte, ed è importante la trasformazione del modello da B2B (business-to-business) a B2C (business-to-consumer); e ciò perché quando si incrocia il mercato i volumi possono aumentare sensibilmente».

Simonato: un ruolo determinante per le aziende capofiliera

Il direttore regionale di Intesa Sanpaolo Renzo Simonato ha sottolineato che «i distretti hanno senz’altro costituito un fattore di progresso per le aziende; in questi ambiti, le imprese hanno migliorato il prodotto e hanno appreso come realizzare ognuna una parte della produzione. Ma, parlando in termini di filiera, ciò che si pone come essenziale è che le aziende capo-filiera, che sono poi quelle che vanno sui mercati, carichino a bordo le imprese fornitrici strategiche e mostrino loro la direzione e come sta cambiando il mercato. Sarebbe un’attività molto utile, considerando che i fornitori sovente ignorano cosa stia accadendo». E cosa può fare una banca per favorire questo genere di operazioni?

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”Abbiamo deciso di conferire un rilievo particolare alle informazioni che, rese dalla capo-filiera, riguardano i fornitori strategici. Per esempio, si tratta di indicazioni relative alla puntualità, alla qualità del prodotto o del servizio e altro„

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Riferendomi all’istituto dove lavoro – ha proseguito Simonato – anzitutto bisogna partire da un dato di fatto, e cioè che l’intermediazione creditizia c’è. L’anno scorso abbiamo erogato circa 48 miliardi; quest’anno lo faremo per cifre di grande rilievo. Il punto è: come valorizzare la filiera? Abbiamo deciso di conferire un rilievo particolare alle informazioni che, rese dalla capo-filiera, riguardano i fornitori strategici. Per esempio, si tratta di indicazioni relative alla puntualità, alla qualità del prodotto o del servizio e altro. Nel caso in cui i riscontri siano positivi, possiamo alzare il rating. Prestiamo i soldi, ottimizziamo l’accesso al credito. Ad oggi, abbiamo siglato 420 contratti di filiera; che non riguardano solo le capo-filiera, ma anche 15mila aziende creditrici e 80mila dipendenti. Insieme, le aziende aderenti hanno un fatturato di 64 miliardi.»

«C’è poi la questione dell’internazionalizzazione, termine che contempla diverse modalità, dal semplice export agli investimenti Ide (diretti estero: volti all’acquisizione di partecipazioni “durevoli” di controllo, paritarie o minoritarie in un’impresa estera – mergers and aquisitions – o alla costituzione di una filiale all’estero – greenfield; ndr). Il nostro sistema si struttura in tre linee di consulenza: la prima in filiera, la seconda a Padova, all’ufficio internazionalizzazione e la terza in 41 paesi di area extra-Ue.

Va ricordato che Intesa Sanpaolo deriva dalla fusione di Banca Commerciale, Cariplo, Istituto bancario Sanpaolo di Torino. In questi 41 paesi, anche grazie alla situazione che abbiamo ereditato con le fusioni, abbiamo costituito degli hub cui le imprese possono rivolgersi anche per incontrare i clienti. D’altra parte, i mercati emergenti sono in Giappone, in Turchia e in Cina». Infine, si tratta di divulgare il verbo dell’Industry 4.0. «A tal fine – ha concluso Simonato – abbiamo istituito Intesa Sanpaolo Forvalue, società nata per aiutare l’impresa ad affrontare al meglio le nuove sfide e accelerare il cambiamento, attraverso l’adozione di nuovi modelli di business, lo sviluppo di nuove competenze, la trasformazione digitale».

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Da sinistra a destra: Giuliano Busetto (Siemens,) Matteo Marini ( ABB), Michele Parisatto (KPMG Advisory)

Busetto: esiste una via italiana alla quarta rivoluzione industriale.

Un’azienda con il polso della situazione è di certo la Siemens, un colosso che al mondo fattura 80 miliardi di euro e che si posiziona al primo posto su scala globale per l’automazione. Il fatturato di Siemens Italia è di circa 1,9 miliardi; i prodotti dell’azienda sono istallati qua e là su tutto il territorio nazionale. Secondo il Country Division Lead Process Industries and Drives nonché Country Division Lead Digital Factory di Siemens Italia Giuliano Busetto (che è peraltro presidente Anie, la Federazione nazionale imprese elettrotecniche e elettroniche di Confindustria) le cose stanno così: «La quasi totalità dei  clienti che abbiamo nel Belpaese  vuole saperne di più in fatto di digitalizzazione e di Industry 4.0. Dunque esiste una via italiana alla quarta rivoluzione industriale»

«Ma facciamo un passo indietro per capire.- ha detto Busetto – Una forte richiesta di nuove tecnologie si fa sentire, da parte del tessuto imprenditoriale, da una decina d’anni; la differenza, oggi rispetto a ieri, è che sono state identificate quelle abilitanti. L’evoluzione in atto è quella che porta alla flessibilità del manifatturiero, alla customizzazione del prodotto e alla riduzione del time-to-market, e cioè del tempo che intercorre dall’ideazione di un prodotto alla sua effettiva commercializzazione. Si pensi alla Maserati; un tempo, occorrevano 30 mesi per realizzarne una; ora 16. »

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” La quasi totalità dei clienti che abbiamo nel Belpaese vuole saperne di più in fatto di digitalizzazione e di Industry 4.0. Dunque esiste una via italiana alla quarta rivoluzione industriale„

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Comunque sia, esiste una fascia di aziende, anche PMI, che è sempre più orientata verso le esportazioni; anzi, a seguito della cosiddetta “crisi”, queste aziende si sono ulteriormente internazionalizzate abbandonando, per così dire, il mercato interno. Queste aziende manifatturiere, questi produttori di macchine, sono inseriti in filiere internazionali e per operare in mercati competitivi hanno appreso tecnologie vincenti. È naturale che siano interessate al 4.0. E siccome i piano governativo consente lo sviluppo di macchine in Italia, il movimento in corso dovrebbe aiutare anche il mercato domestico».

“Scossa” il battello elettrico by Siemens, in navigazione a Venezia, sede della Biennale Innovazione

Ma non esiste un problema dimensionale? «Ovviamente, poche sono le aziende italiane di grosse dimensioni, ma esistono, per esempio, industrie italiane leader a livello globale nel packaging. E poi – ha terminato Busetto – non è necessario che tutte le tecnologie siano integrate». Comunque sia, per Busetto attorno al 4.0 «c’è curiosità, effervescenza».

Marini: ci deve essere visione, un’idea generale

Altro leader tecnologico pioneristico è ABB, multinazionale operativa nei settori dell’energia e dell’automazione. Sede a Zurigo, ha 132mila dipendenti e un fatturato di 35,4 miliardi di dollari. In Italia ABB Spa, circa 6mila dipendenti, fattura 2,2 miliardi di euro. Secondo Matteo Marini, Presidente ABB Italia, si tratta di proporre alle medie aziende italiane tecnologie testate con successo negli stabilimenti operativi nello Stivale. «Disponiamo di 13 grandi fabbriche in Italia – ha affermato -: è evidente che se vuoi essere credibile con i clienti devi invitarli a valutare l’acquisto di dispositivi già funzionanti. D’altra parte, già negli anni Novanta abbiamo iniziato a studiare come ridurre il time-to-market e come modificare i prodotti in funzione dell’utilizzo particolare che si vuole praticare. Ora, cerchiamo in particolare di comprendere quali obiettivi intenda realizzare il cliente.

Qui, per esempio, siamo a Venezia, e ci sono le grandi navi. Ebbene, queste funzionano grazie a propulsori azimutali, che possono essere ruotati secondo un asse verticale e pertanto orientati in una qualsiasi direzione orizzontale. Il sistema consente una maggiore manovrabilità della nave rispetto al modello costituito da eliche fisse e timone. Immaginatevi una nave da migliaia di tonnellate che ruota su se stessa. E Azipod è il marchio registrato con cui ABB commercializza la gamma di propulsori azimutali elettrici per navi.

YuMi+is+the+world’s+first+truly+collaborative+robot
Il robot collaborativo YuMi® (courtesy ABB)

Poi si è passati ad una seconda fase, quella dei servizi avanzati che operano grazie a sensori e all’IoT. Ma il modello di business innovativo è un altro. Per esempio, se dispongo di dati previsionali relativi alla direzione e all’intensità delle correnti, o al funzionamento del motore, posso vendere servizi di garanzia relativi alla durata della navigazione. Posso assicurare che entro dieci giorni un certo carico deperibile arriverà in un certo porto, a destinazione». Ma quale processo deve essere sotteso alla trasformazione di imprese grandi e piccole in ottica 4.0?

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”Già negli anni Novanta abbiamo iniziato a studiare come ridurre il time-to-market e come modificare i prodotti in funzione dell’utilizzo particolare che si vuole praticare. Ora, cerchiamo in particolare di comprendere quali obiettivi intenda realizzare il cliente„

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«Ci deve essere visione, un’idea generale». In Italia ABB dispone di stabilimenti molto avanzati. A Dalmine, per esempio. «Lì ci occupiamo di prodotti e sistemi di media tensione – ha continuato Marini – e la fabbrica è altamente automatizzata. Ma è forse lo stabilimento di Frosinone, che produce 2,6 milioni di interruttori all’anno, quello più ingegnerizzato». ABB è nota anche per il robot YuMi® . Due braccia, telecamere, mani sensibili, è un esempio di robotica collaborativa. «Svolge con precisione – ha spiegato Marini – attività ripetitive a alienanti per il personale umano. Ed è dotato di sistemi di sicurezza molto avanzati».

ABB, ha ricordato Marini, sta lavorando su quattro pilastri che “ rappresentano un approccio che potrebbe rappresentare un modello anche per imprese medie e piccole italiane nella via alla digitalizzazione.”

 º Rendere smart i prodotti e i sistemi ABB (attraverso sensori e connettività) con attenzione integrata alla cybersecurity, proporre servizi avanzati (energy&asset management, customizzati basati sui dati raccolti dal’impianto che stanno generando anche nuovi business model, di cui possiamo raccontare delle esperienze dirette

º Puntare allo smart manufacturing nelle fabbriche del gruppo, come naturale continuazione di un processo di ottimizzazione avviato già alla fine degli anni ’90, attraverso l’applicazione di tecnologie digitali abilitanti, la spinta all’automazione e alla robotica

º Proseguire nella messa a punto di partnership digitali che possano affiancare nell’implementazione delle soluzioni cloud e intelligenza artificiale

º Identificare le  competenze digitali richieste dal journey to digital, mappatura della digital readiness e allineamento dei team con nuove professionalità interdisciplinari

Si diceva che secondo Marini occorre “visione”. «La mia impressione – ha concluso – è che le imprese abbiano colto i vantaggi a breve termine, quelli legati ad aspetti fiscali; ma che non si siano fatte un’idea precisa dell’utilità pratica della trasformazione digitale».

Parisatto: trovare un modo per aiutare l’economia lavorando sull’ecosistema

Per Michele Parisatto, Managing Partner KPMG Advisory, «negli Stati Uniti ciò che noi definiamo Industria 4.0 ha fornito lo spunto per rivedere il modello di business. Naturalmente, le dimensioni delle aziende americane hanno costituito un aiuto, un vantaggio in questa direzione, anche in vista dell’efficienza dei propri investimenti. Noi, in Italia, abbiamo tardato a comprendere l’importanza della trasformazione in corso altrove, e siamo rimasti un po’ indietro. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che non si tratta solo di una questione di tecnologia; occorre una visione più ampia, per capire cosa cambia per l’azienda, per il mercato e per il prodotto.»

Parisatto ha anche sottolineato che in un Paese come l’Italia, che dallo scoppio della crisi ha fatto registrare un crollo degli investimenti in capitale produttivo, «servirebbe un’azione di sistema per ri-connettere il sistema bancario a quello industriale, tornando a ragionare ad esempio su strumenti di finanza agevolata a medio lungo termine che consentano agli imprenditori di mettere a punto nuove strategie d’investimento digitali.» Sempre secondo il Managing Partner KPMG Advisory «le ridotte dimensioni delle aziende italiane non aiutano a fare investimenti; ma bisogna trovare un modo per aiutare l’economia lavorando sull’ecosistema. Non è semplice, anche perché c’è un po’ di ritrosia. Per esempio, l’università dovrebbe entrare nelle aziende per studiare i modelli funzionanti»

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”Dobbiamo prendere coscienza del fatto che non si tratta solo di una questione di tecnologia; occorre una visione più ampia, per capire cosa cambia per l’azienda, per il mercato e per il prodotto„

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Da un punto di vista organizzativo è fondamentale ad esempio abbattere i sylos aziendali tra funzioni, creando degli ambienti collaborativi che siano in grado di valorizzare le interdipendenze. « Le aziende italiane devono abituarsi a collaborare con soggetti terzi (Università, Start Up, Società di Consulenza, Provider Tecnologici) – ha detto Parisatto -che possono facilitare l’adozione delle nuove tecnologie, accelerando la business transformation. Servono nuovi modelli d’impresa basati su logiche aperte, “ecosistemi” in grado di valorizzare competenze provenienti da tanti soggetti diversi.- ha sottolineato Parisatto, che ha concluso :  – Occorre una riflessione molto approfondita, e gli imprenditori e manager oltre a intraprendere significativi processi di reskills possono sentire il bisogno di consulenza strategica per selezionare le scelte più adeguate».

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Santoni: non solo internet of things, ma anche internet of everything.

Al confronto ha partecipato anche Agostino Santoni, Ad di Cisco Italia e coordinatore del neo istituito “Comitato Digitale” in seno ad ANIE. Cisco si definisce come la società «leader mondiale nelle tecnologie che trasformano il modo con cui le persone si connettono, comunicano e collaborano, attraverso reti intelligenti e architetture che integrano prodotti, servizi e piattaforme software». La multinazionale, fondata nel 1994, ha sede a San Josè (California) ed impiega in tutto il mondo circa 70mila dipendenti, con un fatturato di 48,6 miliardi di dollari. «Bisogna riflettere sul processo di selezione del prodotto – ha affermato Santoni – che oggi giorno è diverso da quello cui eravamo abituati. Il consumatore si informa sul web. In buona sostanza, ciò che è cambiato è l’esperienza del consumatore; e ciò significa che chi è in grado di rendere unica l’esperienza del consumatore può incrementare il proprio business in modo considerevole».

Per Santoni «Cisco è una di quelle industrie che sta vivendo la trasformazione; d’altra parte, chi non è in grado di evolversi non ha futuro. Si assiste ad una interconnessione globale. Più che di internet of things, è corretto parlare di internet of everything. E così il nostro modo di fare ricerca e sviluppo è cambiato sensibilmente, negli ultimi sette mesi. Del resto, la R&D non basta più; serve, in un certo senso, una caratterizzazione geografica, visto che l’innovazione può nascere ovunque. Serve formazione. Ciò che sta accadendo, avviene alla velocità della luce». Il cambiamento è oggi. «D’altra parte – ha continuato Santoni – oggi lo sviluppo del codice è assai più agevole e repentino che in passato; e ciò non può non avere un impatto sui modelli di business e in rete».

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”Ciò che è cambiato è l’esperienza del consumatore;  significa che chi è in grado di rendere unica l’esperienza del consumatore può incrementare il proprio business in modo considerevole„

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Quando tutto cambia, cambia anche il modello di rete. Si pensi a Cisco. Cisco Digital Network Architecture (DNA) è un’architettura aperta, flessibile e definita dal software: secondo l’azienda accelera la digital trasformation, riducendo costi, complessità e anche rischi. «Il tema della sicurezza riveste una grande importanza – ha dichiarato Santoni -. Comunque sia, ragionando sulla trasformazione in corso, non si può negare che la capacità di collaborare è un altro elemento di rilievo. Si pensi al passaggio tra lo sviluppo del codice, quello del software, e la creazione di una piattaforma aperta e programmabile. Esiste un rapporto tra collaborazione, tra la capacità di fare sistema e l’innovazione. Voglio ribadire che oggi la tecnologia è più semplice e più sicura. Applicarla alle competenze del sistema italiano, quella è esattamente la via italiana al 4.0».

 














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