Il quarto capitalismo può andare a canestro

di Filippo Astone ♦ Una proposta di politica industriale territoriale di Fulvio Coltorti e Lino Mastromarino. Per fare in modo che distretti e manifattura tornino protagonisti.

Nel basket, il pivot è il giocatore interno da cui parte la manovra d’attacco e che si muove nei pressi del canestro. Nella politica industriale italiana che tutti vogliono, ma che ancora non c’è, i pivot potrebbero essere le migliori imprese del Quarto Capitalismo, capaci di portare le loro squadre (cioè i distretti industriali) a segnare un canestro fondamentale per la sopravvivenza del Paese: crescere in modo robusto, magari recuperando quel 25% di capacità produttiva che si è perso durante la recente recessione economica.







Questa idea, in estrema sintesi, è alla basa di una proposta di politica industriale per l’Italia contenuta in un dossier curato da Fulvio Coltorti e Mauro Mastromarino. Lo studio/proposta è estremamente interessante per almeno due motivi. Il primo è che si basa su una sorta di auto-organizzazione: sono i distretti stessi a darsi la loro politica industriale, a cercare gli investitori propensi a crederci e a metterci dei denari, a rafforzare le loro catene del valore. Il secondo è che, semplicemente, si tratta dell’unica proposta di politica industriale territoriale che oggi esiste, ed è anche strutturata e credibile.

Per chi non lo sapesse, o non lo ricordasse, diciamo che il Quarto Capitalismo è quello formato da 3600 medie imprese censite dall’ufficio studi di Mediobanca e protagoniste dell’economia reale. Si tratta di aziende – perlopiù manifatturiere e famigliari – che hanno elevata redditività, forti investimenti in ricerca e sviluppo, ricavi generati perlopiù da export e leadership in una particolare nicchia di mercato. Nicchia che, nella maggior parte dei casi, si sono inventate loro. Quindi aziende come Mapei, Balocco, Tod’s, Bracco, Menarini, Isagro, Cotonificio Albini e tante altre.

Fulvio Coltorti per quasi trent’anni è stato il responsabile dell’ufficio studi di Mediobanca, è lo scopritore e il grande analista del Quarto Capitalismo, oggetto di migliaia di articoli, centinaia di convegni e decine di libri. Mastromarino , che danni studia i distretti industriali , è invece stato per tanti anni il numero uno, come presidente, dell’area consulenza strategica di Price Waterhouse Cooper. Oggi Mastromarino ha creato una nuova società della galassia Price: Price Waterhouse Studi e Ricerche, il cui tipo di attività emerge chiaramente dal nome. da anni studia i distretti industriali e li sostiene, anche se per ora con scarso successo

«L’abbinamento con i distretti consente alla manifattura italiana di mantenere una posizione di preminenza a livello internazionale. Questo è dimostrato specialmente dai saldi attivi della bilancia commerciale che nel negli anni scorsi hanno toccato un massimo storico», spiega Coltorti, che poi entra nel vivo della proposta.

Tod's, una delle imprese del Quarto Capitalismo
Tod’s, una delle imprese del Quarto Capitalismo

Ogni distretto dovrebbe darsi un piano strategico

«Ogni distretto dovrebbe darsi un proprio piano strategico, elaborato e poi attuato da una apposita agenzia nella quale siano presenti le autorità locali, la camera di commercio e i corpi intermedi, oltre a un rappresentante del Governo», prosegue. Il piano strategico distrettuale dovrebbe definire linee di sviluppo comuni e coerenti con le esigenze dei singoli distretti. I punti determinanti del piano riguarderanno l’organizzazione del distretto, il finanziamento degli investimenti e il rilancio dell’occupazione. Tutto questo, sviluppato attraverso investimenti importanti in ricerca e sviluppo, e una forte collaborazione con le università locali. «Non è necessario creare altre macchine burocratiche costose, dotate di presidenti e burocrazia varia Basta un ente leggerissimo, che magari si appoggi alle camere di commercio stesse». Ma che cosa dovrebbe fare l’impresa quartocapitalistica “pivot”?

Che cosa fanno i pivot della politica industriale territoriale?

«Dovrebbe migliorare le relazioni esistenti con le altre che sul territorio le fanno da fornitore o collaborano a vario titolo, ponendosi l’obiettivo di far crescere il giro d’affari del pivot e soprattutto della sua rete. In altre parole, si tratta di costruire nuove filiere per portare nuovi prodotti in nuovi mercati», prosegue Coltorti. Sulla base del piano, si possono poi cercare risorse finanziarie sul mercato privato, attraverso l’emissione di bond di distretto o altre forme da studiare. Inoltre, l’organizzazione dei singoli distretti in modo più efficiente e formalmente strutturato sarebbe estremamente utile per l’accesso ai finanziamenti europei. In particolare, il piano strategico distrettuale potrebbe servire per accedere alle risorse del Fesr, Fondo europeo di sviluppo regionale.

Il processo ipotizzato dallo studio di Coltorti e Mastromarino prevede una fase nazionale, con la mappatura puntuale di tutti i distretti industriali, individuando i loro punti di forza e di debolezza. La seconda fase è la “fotografia” dettagliata della situazione del singolo distretto da rilanciare. Seguono, la formulazione del piano strategico organico per il rilancio del distretto e la sua attuazione. Nella seconda parte dello studio, i distretti italiani sono catalogati in quattro possibili tipologie, e per ciascuna di esse vengono elencate le strategie di rilancio. Per esempio, la prima tipologia vede distretti con elevata marginalità ma poca crescita negli ultimi anni, ad esempio la meccanica pugliese. Questi distretti vantano spesso prodotti vincenti, ma dovrebbero rivedere la loro catena del valore per recuperare efficienza. In pratica, occorrono strategie di ristrutturazione.

Giorgio Squinzi, patron della Mapei, una delle aziende familiari di successo
Giorgio Squinzi, patron della Mapei, una delle aziende familiari di successo

Adesso i distretti si sono verticalizzati e hanno dei leader

La proposta di una politica industriale basata sui distretti e il Quarto Capitalismo prende le mosse dal mutamento di funzionamento dei distretti industriali italiani, che non funzionano più in modo orizzontale (cioè con tanti attori più o meno sullo stesso livello, che si coordinano fra loro) ma si sono verticalizzati, e vedono una o poche imprese nel ruolo di leader. Per permettere alle imprese del distretto di collaborare tra loro in modo sempre più stretto ed efficiente, Coltorti e Mastromarino propongono un uso più esteso ed efficiente dei contratti di rete. Questi ultimi, che si stanno diffondendo sempre di più (Unioncamere ne ha registrati 1.300, che coinvolgono 6.400 imprese, un terzo delle quali manifatturiere) sono sottoscritti da imprese che si impegnano reciprocamente, in attuazione di un programma comune, a collaborare, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica. «Oggi i contratti di rete vengono stipulati perlopiù con lo scopo di mettere a fattor comune servizi ai processi produttivi, offering commerciali e portafogli clienti. La nostra proposta è di estendere l’applicazione dei contratti di rete alla condivisione di varie attività importanti, come ricerca e sviluppo, marketing», dice Coltorti, «E anche alle strategie di internazionalizzazione e di delocalizzazione di capacità produttiva e/o di processi operativi di back-office. In buona sostanza, potrebbero diventare un vero e proprio strumento per lo sviluppo, al servizio del citato piano strategico distrettuale».

Il piano strategico distrettuale

L’idea è di concepire, appunto, una sorta di “piano strategico distrettuale” in grado di definire linee di sviluppo comuni e coerenti con le esigenze dei singoli distretti. I punti determinanti di tale piano dovrebbero riguardare: l’organizzazione del distretto, il finanziamento degli investimenti, il rilancio dell’occupazione. Tra le ipotesi, la creazione e il lancio di veri e propri bond di distretto. «Il livello di qualità creditizia è, da sempre, correlato allo sviluppo economico del territorio, ed è per questa ragione che il cosiddetto made in Italy e le aree distrettuali necessitano, in questo particolare momento storico, di un sistema creditizio tagliato su misura», si legge nello studio. A tale proposito il bond delle reti può essere un ottimo mezzo per finanziare quelle imprese che hanno deciso di aggregarsi, permettendo loro di ottenere un miglioramento del rating creditizio a tutto vantaggio degli investimenti in innovazione. Il piano strategico distrettuale, con tutte le iniziative illustrate qui, potrebbe essere usato per accedere ai finanziamenti del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr). Quest’ultimo, attraverso l’approccio, denominato “concentrazione tematica”, destina fondi per innovazione e ricerca, agenda digitale, sostegno alle piccole e medie imprese; economia a basse emissioni di carbonio. Analogamente il Fse -che investe sulle persone, riservando speciale attenzione al miglioramento delle opportunità di formazione e occupazione – potrebbe essere sfruttato per sostenere finanziariamente le attività nel settore delle risorse umane.

Diana Bracco, presidente del gruppo farmaceutico
Diana Bracco, presidente del gruppo farmaceutico

Il rilancio dell’occupazione

I due studiosi parlano di un ripensamento radicale del tema lavoro, da inserire nel piano strategico distrettuale. «Andrebbero recuperati i valori tradizionali del distretto, la pro-attività, lo spirito d’iniziativa, la cooperazione, il coinvolgimento dei lavoratori sulla base dei quali progettare nuove e più efficienti filiere all’interno del distretto. Nello specifico, in un’ottica più complessiva e soprattutto più organica, eventuali esuberi su alcune attività razionalizzate di una filiera potrebbero costituire nuova capacità produttiva e quindi nuova forza lavoro per quelle filiere che, invece, sono bisognose di professionalità», spiega Coltorti.

I contratti di rete

I contratti di rete sono sottoscritti da imprese che si impegnano reciprocamente, in attuazione di un programma comune, a collaborare, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica. Da alcuni anni ormai lo strumento sta riscuotendo un notevole apprezzamento tra i vari soggetti industriali appartenenti ai distretti e non. Molte aziende scelgono questo nuovo istituto giuridico per mettere a fattor comune risorse, know how, informazioni, mantenendo, al contempo, l’autonomia gestionale che tanto cara è ai piccoli imprenditori del nostro Paese. La diffusione, per così dire, spontanea dei contratti di rete non è, a nostro avviso, sufficiente per sfruttare appieno il potenziale di tale strumento, soprattutto nel comparto manifatturiero. Sarebbe necessaria una riflessione di carattere più istituzionale su quali potrebbero essere le modalità per renderlo sempre più rispondente alle esigenze delle imprese. Definendo, per esempio, il ruolo che dovrebbe avere il sistema delle Camere di commercio in collaborazione con altri attori del territorio, quali le associazioni di categoria, per promuovere in maniera più sistematica e consapevole lo strumento. «La mera diffusione dei contratti di rete, però, a nostro avviso, non non basta tuttavia a stimolare la crescita: potrebbe essere utile creare una sorta di agenzia per il controllo della “qualità” del contratto di rete», si legge nello studio, che prosegue ipotizzando come questa agenzia potrebbe far capo a Unioncamere, cioè a un ente terzo che, attraverso il monitoraggio continuo del successo o fallimento di tali iniziative, sia in grado di disegnare, proporre ed implementare i correttivi necessari alla politica industriale dei territori ai quali detti contratti di rete fanno riferimento.

Estendere i contratti di rete a tutte le attività possibili

Oggi i contratti di rete vengono vengono stipulati perlopiù con lo scopo di mettere a fattor comune servizi ai processi produttivi, offering commerciali e portafogli clienti. La proposta di Coltorti e Mastromarino è di estendere l’applicazione dei contratti di rete alla condivisione di varie attività importanti, come ricerca e sviluppo, marketing. E anche alle strategie di internazionalizzazione e di delocalizzazione di capacità produttiva e/o di processi operativi di back-office. In buona sostanza, potrebbero diventare un vero e proprio strumento per lo sviluppo, al servizio del citato piano strategico distrettuale. Attuare questo approccio significherebbe incidere sull’organizzazione delle aree territoriali industrializzate, innescando più consapevolmente i processi legati all’innovazione attraverso un rapporto più sistematico tra imprese e università. Significherebbe, infine, considerare l’area territoriale come un’unica azienda che abbia un’unica visione strategica e si dia una missione conseguente, evitando di frammentare interventi sui diversi soggetti che compongono il sistema. Un approccio di questo tipo può, a nostro avviso, garantire risultati win-win per tutti gli stakeholder.

Il rilancio dell’occupazione nell’ambito del contratto di rete

Fabbrica vicino a Roma
Fabbrica vicino a Roma

Nell’ambito del contratto di “Rete territoriale” potrebbe essere utile avere un organismo che, in maniera centralizzata, segua tutte le tematiche legate alla gestione delle risorse umane, oggi a carico di ogni singola azienda. Tale nuova unità organizzativa – da costruire con la collaborazione dei principali attori interessati (sindacati e associazioni di categoria) – potrebbe gestire la politica del personale dell’intera area territoriale, in definitiva una sorta di human resources department di rete distrettuale. Tale organismo potrebbe anche occuparsi di incentivare, organizzare e supportare la realizzazione di nuove forme imprenditoriali all’interno del distretto, ridando vigore a quella forma di “imprenditorialità diffusa” che, facendo leva sui valori caratterizzanti il territorio, faccia tornare a crescere il germoglio dello sviluppo. In tale ottica l’obiettivo di rendere efficienti parti o intere filiere produttive all’interno di un territorio che comporti l’eventuale esternalizzazione di alcune attività operative, potrebbe essere perseguito dagli stessi lavoratori (esuberi e non) organizzati, per esempio, in cooperative.

Piano strategico di distretto: come potrebbe funzionare

Per dare vita a tutto questo occorre mappare i distretti italiani, creare un comitato per seguire i distretti rilevanti, e poi iniziare le attività, monitorandole. A livello nazionale, questi temi potrebbero essere seguiti dal ministero dello Sviluppo economico insieme con Unioncamere. La redazione di ogni singolo piano di distretto potrebbe essere a cura del comitato di distretto, composto da rappresentanti delle istituzioni (comune, regione…), delle Camere di commercio, delle associazioni datoriali (Confindustria, Confartigianato, Confapi…), dei lavoratori e degli altri corpi intermedi presenti significativamente sul territorio.

Le diverse fasi

1 Mappatura puntuale dei Distretti Industriali

Una politica industriale efficace non può prescindere dalle peculiarità dei singoli sistemi produttivi e dalle esigenze dei mercati in cui questi ultimi operano. Pertanto, una classificazione delle sopracitate realtà rispetto a valore aggiunto, fatturato aggregato, Mol sarebbe indispensabile di fare riflessioni di merito rispetto alle priorità di intervento. Questa attività potrebbe essere condotta dal Mise, con il supporto di Unioncamere.

 2 Fotografia dettagliata della situazione attuale del distretto da rilanciare

Quest’attività può essere effettuata misurando concretamente le performance at- traverso la progettazione di un set di indicatori ad hoc (key performance indicators). 
Tali indicatori devono far emergere i fenomeni più rilevanti della catena del valore, con particolare riferimento ai colli di bottiglia e alle inefficienze. Su tali basi oggettive e confrontabili sarà possibile formulare ipotesi alternative miranti alla creazione del valore. 
Un tavolo presso il Mise che coinvolga gli amministratori locali e le aziende pivot del distretto in questione potrebbe essere lo strumento per il lancio e l’esecuzione di quest’attività.

 3 Piano strategico organico per il rilancio del distretto

Il piano dovrebbe considerare il sistema produttivo locale in modo unitario cercando di razionalizzare e non frammentare gli interventi. 
Il distretto andrebbe inteso come un’unica impresa da rilanciare e, a seconda delle esigenze, il piano d’azione potrebbe includere attività del tipo:

  • miglioramento della catena del valore (es. finanziamento di iniziative di ristrutturazione, incentivazione di workers buy-out attraverso i fondi recuperati dalla CIG, contratti di solidarietà espansivi);
  • riconversione di parte o di intere filiere (es. corsi di formazione tecnica dei lavoratori attraverso fondi europei, sostegno agli investimenti in nuove attrezzature produttive finanziati con bond di rete/filiera);
  • incentivazione della ricerca e sviluppo (es. defiscalizzazione degli utili reinvestiti in R&S, supporto all’internazionalizzazione, sistematizzazione attraverso joint venture con il mondo accademico);
  • semplificazione (es. sportello unico per gli investimenti esteri sul territorio in questione, facilitazioni burocratiche per nuovi insediamenti produttivi ed espansione degli stessi.













Articolo precedenteI radar di Leonardo (Finmeccanica) per la Marina Usa
Articolo successivoIccrea e Sace: 150 milioni per innovare in azienda






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui