Daveri, Bocconi: «Pnrr libro dei sogni». Ma la favola avrà il lieto fine?

di Laura Magna ♦︎ Insieme all’economista abbiamo analizzato i contenuti economici del Piano nazionale di ripresa e resilienza (che vale 209 miliardi) approvato dal Cdm. Fondi per la rete ferroviaria veloce, la portualità integrata, il trasporto locale sostenibile, la banda larga e il 5G, il ciclo integrale dei rifiuti rilanceranno la produttività di lungo periodo. Ma serve maggior concretezza nell’immediato

Un libro dei sogni. Non usa mezzi termini Francesco Daveri, economista e professore della Bocconi, per definire il Piano nazionale di ripresa e resilienza dell’Italia, che è stato approvato dal Consiglio dei ministri. È un compito ben fatto, che apparentemente rispetta le indicazioni generali di Bruxelles, ma poi rischia di essere sul piano delle azioni, da un lato inefficace perché troppo ampio rispetto alla capacità di mettere a terra delle amministrazioni; dall’altro di far storcere il naso agli eurocrati per quel terzo di stanziamenti su progetti già avviati. E intanto all’approvazione è seguita la crisi di governo: le due ministre renziane che non avevano dato il loro ok, la titolare dell’Agricoltura Teresa Bellanova e quella della Famiglia Elena Bonetti, hanno presentato le dimissioni rendendo concreto lo strappo nella maggioranza.

Proprio mentre scriviamo sono in corso i vertici di Pd e M5S e quello del centrodestra che invoca le dimissioni del premier Conte: al di là di come si concluderà la vicenda politica, abbiamo voluto analizzare nel merito il Pnrr, restando però nell’alveo dei contenuti economici. Con il professore Daveri abbiamo esaminati gli aspetti critici che contiene il testo definitivo e i prossimi passi che l’Italia dovrà compiere per ottenere i 209 miliardi di euro che l’Europa ha stanziato per la ripresa post Covid.







In estrema sintesi (della bozza approvata avevamo parlato diffusamente qui), il Pnrr vale in realtà più di 209 miliardi: «impiegando le risorse nazionali del Fondo di sviluppo e coesione 2021-2027 non ancora programmate, è stato possibile incrementare gli investimenti di circa 20 miliardi per nuovi progetti in settori importanti», scrive Palazzo Chigi. Progetti che comprendono la rete ferroviaria veloce, la portualità integrata, il trasporto locale sostenibile, la banda larga e il 5G, il ciclo integrale dei rifiuti, l’infrastrutturazione sociale e sanitaria del Mezzogiorno. Ma ciò che rileva maggiormente probabilmente è che della somma totale 144 miliardi saranno destinati a nuovi interventi e 66 a progetti già avviati.

 

I nodi da sciogliere: i progetti già avviati

Francesco Daveri, professore di Macroeconomia alla Bocconi e direttore dell’Mba della Sda Bocconi School of Management. Foto di Niccolò Caranti

Ed è questo il primo punto critico: il fatto che quasi un terzo dei fondi messi a disposizione dall’Europa vadano a finanziare iniziative già avviate e in cantiere non è detto che in Europa passi, in quanto il Recovery Fund deve servire a fornire la struttura per riprendere la strada della crescita resa impossibile dal Covid.

Il piano si articola in 6 missioni, 16 componenti funzionali (e 48 interventi): Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, a cui saranno dedicati 46,18 miliardi; Rivoluzione verde e transizione ecologica, il capitolo più corposo per un valore di quasi 69 miliardi; Infrastrutture per una mobilità sostenibile, a cui sono destinati 31,08 miliardi; Istruzione e ricerca, 28,5 miliardi; Inclusione e coesione, 27,62 miliardi; e quasi 20 miliardi per la Salute. Entro metà febbraio dovrà arrivare a Bruxelles il testo con le schede progetto che indicano tutti i passi e che faranno parte del negoziato bilaterale Italia-Ue. Solo dopo l’approvazione di Consiglio e Commissione, saranno versati sul contro dello Stato subito il 13% dei fondi totali (circa 20 miliardi) e poi partiranno i singoli progetti con tutto il calendario di riforme associate.

Il governo intende impiegare in prima battuta la parte a fondo perduto (il 70% sarà speso entro la fine del 2023 e il resto entro il 2025). «I prestiti totali aumenteranno nel corso del tempo, in linea con l’obiettivo di mantenere un livello elevato di investimenti e altre spese, in confronto all’andamento tendenziale». Nei primi tre anni, la maggior parte degli investimenti e dei “nuovi progetti” (e quindi dello stimolo macroeconomico rispetto allo scenario di base) sarà sostenuta da sovvenzioni. Nel periodo 2024-2026, viceversa, la quota maggiore dei finanziamenti per progetti aggiuntivi arriverà dai prestiti.

L’entità delle risorse che si prevede di impiegare nelle sei missioni, con la distinzione tra i progetti già in essere e quelli nuovi. Fonte governo.it

I prestiti devono essere rimborsabili

Il grosso rischio del capitolo prestiti (che, come noto, ammontano ai 2/3 dei fondi messi a disposizione dal Recovery Plan) è che «se sbagliamo i progetti ci si potrà trovare o senza capacità di crescere o senza capacità di ripagare il debito», dice Daveri. Il Recovery va usato per finanziare le riforme strutturali a lungo rimandate per mancanza di fondi. L’illusione di poterli impiegare in spese correnti è folle e perdente. Ma anche le spese straordinarie vanno improntate alla possibilità di restituirle, considerando che il rapporto debito pil è al 160% nel 2020. Allora il modo giusto di usare i fondi del Recovery è per finanziare temi che rilancino la produttività di lungo periodo, ovvero temi rilevanti sul fronte del sistema Paese. La riforma della scuola, la pa, la giustizia, l’efficientamento energetico, la diffusione del cloud digitale, la banda larga, il 5G. Questo libererà anche altre risorse, come per esempio i fondi strutturali: con quelli di potrà fare per esempio la Tav al Sud, sappiamo che al Mezzogiorno sono destinati 40 miliardi tra il 2020 e il 2027.

Il Recovery va usato per finanziare le riforme strutturali a lungo rimandate per mancanza di fondi. L’illusione di poterli impiegare in spese correnti è folle e perdente. Ma anche le spese straordinarie vanno improntate alla possibilità di restituirle, considerando che il rapporto debito pil è al 160% nel 2020. Allora il modo giusto di usare i fondi del Recovery è per finanziare temi che rilancino la produttività di lungo periodo, ovvero temi rilevanti sul fronte del sistema Paese

 

Il no al Mes, una questione ideologica

Le risorse a disposizione sono molto più ampie in realtà rispetto al solo Recovery. Mettendo insieme al Recovery Mes sanitario, Fondi Bei, Fondi Sure e Fondi strutturali l’Italia avrebbe a disposizione 450 miliardi di euro per il rilancio. Ma il rilancio si concretizza solo se gli investimenti vengono fatti nell’ottica della next generation e non si disperdono in una miriade di micro interventi destrutturati o in sussidi a pioggia.

«I prestiti del Recovery sono soggetti a condizionalità, così come le linee di credito pandemiche attivate dal Mes lo scorso marzo. In particolare l’erogazione dei fondi, che avviene ad avanzamento lavori e in sei per il credito, è vincolata all’impegno di mantenere i saldi di finanza pubblica in ordine. Quindi ha perfettamente senso chiedersi perché non si usi il Mes per finanziare la sanità, per esempio. È evidentemente una questione ideologica».

 

Chi controlla i controllori

L’ultima questione che resta aperta è relativa alla gestione dei fondi, che è stata al momento rimandata: il governo presenterà una proposta al Parlamento in cui sarà definito anche il capitolo vigilanza – è molto probabile che Corte dei Conti e Anti riciclaggio dovranno presidiare a livello nazionale, prima del controllo dell’Ue.

«In generale la prima cosa che colpisce del Pnrr è il contrasto tra attenzione al futuro e grandi indicazioni di prospettiva e realtà della discussione politica quotidiana», secondo Daveri. «L’Italia ha svolto correttamente i compiti: vengono indicate priorità e anche modi in cui queste possono trasformarsi in azioni. E c’è intenzione di fare una valutazione preventiva di impatto. il Pnrr è un tentativo di dare una visione di insieme e questo è un fatto positivo. Le parole chiave ci sono tutte, manca però l’indicazione di come esse possano avere una trazione politica ed economica su un orizzonte temporale predefinito».

Il piano si articola in 6 missioni, 16 componenti funzionali (e 48 interventi): Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, a cui saranno dedicati 46,18 miliardi; Rivoluzione verde e transizione ecologica, il capitolo più corposo per un valore di quasi 69 miliardi; Infrastrutture per una mobilità sostenibile, a cui sono destinati 31,08 miliardi; Istruzione e ricerca, 28,5 miliardi; Inclusione e coesione, 27,62 miliardi; e quasi 20 miliardi per la Salute

Un libro dei sogni?

Il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte. Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

Quanto alla politica industriale, Daveri non è, invece distruttivo. «Non vengono sostenuti determinati settori in modo prominente attraverso sussidi specifici. Quindi non si vede la tradizionale politica industriale come siamo abituati a immaginarla, ma c’è una scelta di campo precisa su ecologia e digitalizzazione, su infrastrutture più soft e meno hard. Questa è politica industriale». Il problema, semmai, è un altro. Il piano è composto di 150 pagine in cui è contenuta una quantità abnorme di temi. «In base a quello che poi concretamente si sceglierà di realizzare dipenderà la sua efficacia. Ci sono tante missioni e linee progettuali: bisognerà fare delle scelte, bisognerà indicare priorità che di volta in volta si scontreranno con la disponibilità di risorse. Senza considerare le centinaia di decreti attuativi che mancano, dopo l’approvazione a Bruxelles che per quanto detto è comunque molto in forse, per trasformare le intenzioni in pratica». Così nelle 150 pagine si spazia dalla tav e intermodalità alla transizione ecologica e la rivoluzione verde. «Le prime sono cose già nella pratica delle amministrazioni, le seconde sono molto meno misurabili. Il rischio è che vengano rinviate o riempite di contenuto che vada bene per tutti».

È rilevante cioè chiedersi, secondo Daveri, se nelle sei missioni ci siano azioni il cui rendimento sia calcolabile in un orizzonte non troppo lungo in cui diventano efficaci. «È difficile entusiasmarsi di fronte a parole chiave come digitalizzazione, innovazione, competitività. Da un lato il Pnrr contiene numeri fino alla seconda cifra decimale che sembrerebbe indicare che i conti sono stati fatti. Dall’altro lato è difficile valutare se i soldi siano tanti o pochi per ogni voce, perché gli investimenti hanno un tasso di rendimento differito e non misurabile secondo le pratiche aziendali». Se si costruisce un ponte si può calcolare quanto costa e quanti posti di lavoro crea, ma come si fa lo stesso esercizio se si parla di telemedicina, politiche per il lavoro, intermodalità e logistica integrata. «Sono etichette piazzate sulle cose da fare ma non poterne individuare il tasso di rendimento rende tutto aleatorio. Rimane un senso di rilevante complessità nell’incastro delle varie iniziative». Gli stessi numeri sull’impatto delle iniziative sul Pil – che il piano contiene – non sono spiegati e quindi «non sono utili per promuovere una discussione di politica economica che possa portare a decisioni consapevoli». Per poter realizzare in fretta il piano bisognerà sacrificare per forza qualcosa dei progetti messi in campo e la capacità delle amministrazioni di capire che cosa ragionevolmente può essere fatto una volta stanziate le risorse sarà determinante. «Quando si dovranno decidere le azioni ci saranno pochi tecnici dentro una stanza del ministero del Tesoro e quello che conterà sarà la sintesi che sarà contrattata con Bruxelles».














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