Lo sciocchezzaio anti-industriale di Dacia

Dacia Maraini

di Filippo Astone ♦ La mentalità anti-industriale che purtroppo impera in Italia e anche colpa degli intellettuali. Come dimostra una recente intervista della grande scrittrice al Fatto Quotidiano. 
C’è un’intervista che mi risuona nella testa. L’ha concessa Dacia Maraini al Fatto Quotidiano lo scorso 13 aprile, quando ancora Industria Italiana non era online. In un primo momento ho pensato di non parlarne, perché era passato un mese. Ma poi, la sua rilevanza era tale da renderla ancora attuale. Perché è davvero incredibile che una grande scrittrice, una persona colta e che dovrebbe essere aggiornata, riesca a formulare tanti luoghi comuni falsi e strampalati sull’industria. Quegli stessi luoghi comuni che poi vengono sposati da una parte importante della politica e dell’opinione pubblica, ostacolando lo sviluppo industriale in tanti modi. Se in Italia impera una mentalità anti-industriale, purtroppo, è anche per responsabilità degli intellettuali, degli scrittori, dei giornalisti. Molti di loro non sanno di che parlano. Eppure sono convinti di sapere (l’equazione è ciò che non so = non è importante) e parlano. Parlano, parlano e ancora parlano.

Lo sciocchezzaio della Maraini, che fra qualche riga i pazienti lettori di questo sito potranno leggere con maggiori dettagli, è indicativo di una mentalità purtroppo assai diffusa.







L’industria è importante non solo perché direttamente e indirettamente dà lavoro a gran parte degli italiani (siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa col 16% del Pil, che si traduce nel 60% di valore aggiunto) ma soprattutto perché genera conoscenze, sapere, tecnologie e poi le moltiplica. I luoghi comuni, legati a momenti storici superati, vogliono che l’industria inquini, sia pericolosa, sia legata a speculazioni, sia negativa come concetto in sé, opposto alla “natura” dell’agricoltura, della cucina, e della “natura”. C’è un campionario di stupidaggini su questi temi che in Italia va per la maggiore, e forse anche nel resto del mondo. Naturalmente natura, cucina, agricoltura e industria alimentare non esisterebbero senza chimica (sono gli agrofarmaci – altrimenti detti insetticidi, fungicidi, erbicidi e pesticidi – che permettono alle superfici coltivabili di sopravvivere, di produrre quantità sufficienti di cibo per tutti, e anche di essere sane) e senza meccanica (sono le macchine di vario tipo che rendono possibile la produttività e l’equilibrio economico delle coltivazioni, oltre che il confezionamento, l’imballaggio, la logistica e la distribuzione dei prodotti). Ma è molto bello e romantico, per alcuni, ignorare la realtà.

A tutti questi luoghi comuni anti-industriali, negli anni recenti si è unita la forte propaganda nei confronti del cibo, della cucina, della “bellezza” in senso lato. I cuochi sono ormai protagonisti della televisione e delle pagine dei giornali, ascoltati come maestri di vita e adorati come rock star. Naturalmente se l’Italia diventasse un Paese che vive di agricoltura, cucina e turismo regredirebbe a livelli di povertà e sottosviluppo inferiori a quelli della Grecia. Ma anche in questo caso, si preferisce ignorare il dato di fatto.

Dacia Marini al Salone del Libro
Dacia Marini al Salone del Libro

Ma veniamo all’incredibile intervista della Maraini, oggetto di questo articolo. «I cittadini», dice la Maraini all’intervistatrice Virginia Della Sala, «sanno che oggi più che mai bisogna difendere l’ambiente e il territorio, la cosa più preziosa che abbiamo. Una condizione che viene fuori dalla delusione del mito del Dopoguerra, quello dell’industrializzazione». Dunque, dunque, secondo la scrittrice dalla delusione dell’industrializzazione, deriva la consapevolezza dell’importanza dell’ambiente. Come se fossero due concetti contrapposti. Ma quando mai? Ma dove? La Maraini non lo spiega e l’intervistatrice si guarda bene dal chiederglielo. «Il Paese ha pensato che il benessere e l’emancipazione stessero nell’investire tutto sull’industrializzazione», continua la Maraini, ignorando che la ripresa del dopoguerra, che ha dato da mangiare a milioni di famiglie, deriva proprio da ciò che Lei elenca, mentre la vita nelle campagne era dura e povera, generava masse di proletari sfruttati che non erano in grado di leggere né i suoi libri né tantomeno il Fatto Quotidiano. «E quindi», prosegue non paga e non sazia la Maraini, «si è buttato su quel fronte, perdendo l’arte dell’agricoltura, la cura dell’artigianato, l’attenzione al territorio e al turismo». Come ci sia una condizione di causa-effetto fra le due cose, la Maraini non lo spiega. Anche perché non potrebbe spiegarlo, visto che non è vero. «Di ciò che ci appartiene di più e che sappiamo fare meglio, insomma. Credere al mito dell’industrializzazione ha fatto sì che si buttasse a mare tutte quelle profonde conoscenze e competenze che ci caratterizzavano come Paese». Ma chi ha detto che quelle conoscenze siano state buttate a mare? E perché dovrebbe esserci un legame di causa-effetto tra queste due cose? (peraltro entrambe false). Anche in tal caso, la Maraini tace. E prosegue: «E a cosa si è arrivati? Al disastro. Se si gira l’Italia, si possono notare centinaia di siti fantasma, industrie abbandonate che non funzionano più. Sono stati spesi tantissimi soldi, si è investito su di essi e ora sono lì, vuoti e inerti. Improduttivi». Dunque, per la Maraini, abbiamo puntato sull’industria e abbiamo fallito. Come mai? Da come parla, sembra che non sia nel nostro dna. E allora perché mai siamo diventati il settimo Paese industrializzato al mondo? Boh. «La globalizzazione ci ha mostrato che siamo in competizione con colossi che sanno fare grande industria meglio di noi», dice ancora, ignorando che il top della globalizzazione è arrivato quando avevamo già perso gran parte dei gruppi industriali di notevole entità che avevamo (Olivetti, Montedison…) per cause endogene e politiche, e non certo per il confronto con il mondo globale. «E noi, che siamo tra i migliori per la piccola industria l’artigianato e la cura del territorio, ci siamo lasciati abbagliare da obiettivi estranei alla nostra tradizione», dice ancora, dando per scontato che quella non è la nostra tradizione (e chi lo ha detto? ma ha letto Carlo Maria Cipolla? O qualche altro buon libro di storia economica? Il Bignami?) «Il futuro?», si chiede la Maraini? Risposta ovvia: «Puntare tutto sull’energia alternativa». Come se non lo facessimo, e da un bel pezzo. Ma anche questo la Maraini non lo sa…

Dacia Maraini
Dacia Maraini













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5 Commenti

  1. Bellissimo articolo, bravo Filippo! Se ci fosse una nuova politica industriale potremmo far convivere ecologia e industria, tradizione e sviluppo, dimensione locale e globale.

  2. Caro Filippo,

    l’ambiente culturale nel quale molto personaggi come la Maraini si muovono e hanno assurto a una certa notorietà nasce da radici “relativamente” sane: quelle della lotta di classe per i diritti dei lavoratori, per poi “imborghesirsi” a partire dagli anni ottanta, quando quell’intellighenzia diviene “radical chic”, quasi fine a sè stessa, e china sul proprio ombelico, incapace di chiedersi dove va il mondo, in nome di un manierismo che ha rovinato l’Italia con la cultura antindustriale con la quale, giustamente, Te la prendi!

    È il segno della decadenza della nostra società civile, del fatto che siano all’altro ieri nel ns Paese se non appartenevi a quel “milieu” non potevi chiamarti intellettuale, dello strapotere dei sindacati che, vent’anni più tardi, a partire dal nuovo millennio più esattamente, hanno iniziato a combattere il benessere e ad avere la propria base votante più in pensione che non nell’industria.

    Giusto chiedersi perché se la prendono con il piatto dove mangiamo tutti: quello di chi crea occupazione e sinanco cultura, giusto additare le battaglie di retroguardia, quelle che servono a dare forza a una casta e alle sue èlites, ma esse non sono che la spuma tardiva di un’onda che ha travolto il nostro Paese, la nostra competitività, le nostre leggendarie competenze, buttando via il bambino insieme all’acqua sporca della prima industrializzazione!

    È ora di disfarsene?
    Certo, ma evitando di guardare il dito dove il buon senso indica la meta, evitando ogni genere di particolarismo, dal momento che l’ambiente culturale della Maraini è il medesimo che sino all’altro ieri litigava con Marchionne (fornendogli la scusa per disimpegnarsi dal suo debito di riconoscenza verso l’Italia) e con qualunque altro industriale che voleva intraprendere: soprattutto con quelli medio-piccoli, gli artigiani costretti a chiudere bottega, le micro aziende che non ce la fanno più a causa delle normative comunitarie, gli stessi piccoli imprenditori che hanno preso a inventare e viaggiare, cui si deve buona parte del riscatto italiano dalla sua radice agricola.

    L’Italia oggi è più che azzoppata, divisa e lacerata dai suoi pseudointellettuali (cui la Maraini appartiene) e dai suoi indecenti media (che invece di informarci si esaltano solo con la rappresentazione delle lotte di palazzo) ma può ancora farcela, alla sola condizione di gettare a mare la sua retroguardia e puntare finalmente il naso all’insù: per annusare l’aria fresca che proviene dall’estremo oriente come dal resto d’occidente, per guardare ben oltre l’orizzonte più prossimo, dal quale oramai provengono solo barconi africani ed echi delle bombe islamiste…

    L’industria (persino la chimica) oggi è diffusamente operosa, è verde, è sana, è sempre più spesso una grande “community” che promuove sharing economy, innovazione partnership internazionali. Anzi l’industria è spesso la sola via di riscatto per chi vuole opporsi al “grande fratello” che i poteri forti ci vorrebbero imporre, è l’ultimo baluardo di chi vuol reagire allo strisciante oscurantismo di regime, al rischio di appiattimento culturale, ad un manierismo bulgaro che nemmeno più in Bulgaria esiste da molti anni!

    La lotta di classe dove si abbeveravano i dinosauri come la Maraini (di quando aveva anche un suo perché) non ci lasciato solo morti e striscioni, non solo cannabis e utopie. Può averci propagato anche una scia profumata di umanesimo, di voglia di condivisione, di multiculturalismo, di desiderio di sapere e di interconnessione con il resto del mondo. Oggi il capitale che deve pur sempre supportare l’iniziativa industriale può avere un colore rosa, una funzione sociale, un aspetto etico e una compatibilità ambientale. E può generare ricchezza per tutti. Dipende solo da noi, e da chi noi deleghiamo a fare queste delicate scelte.

    Stefano di Tommaso

  3. Hai ragione, Filippo.Sono luoghi comuni.E, come le cose interessanti, anche i luoghi comuni, acquistano più risonanza e “dignità” se sono espressi da persone note e notoriamente intelligenti.A me piace molto la Maraini, ha scritto cose bellissime.Ma in questo caso ha torto ed esprime un torto banale. Vorrei approfittare di questo spazio per esprimere la mia forte incazzatura(esiste un altro termine?Non credo) sul concetto di turismo salva ambiente, panacee di ogni disastro ambientale. Innanzi tutto sono proprio le strutture cosiddette turistiche la grande ,la maggiore, devastazione dell’Italia. Perché laddove non c’è controllo, non c’è piano regolatore, non c’è difesa contro il geometraggiume legale e abusivo c’è la rovina c’è l’orrore.Inoltre chi l’ha detto che il turismo sia un’attività migliore dell’industria? La seconda ha portato coscienza di classe, crescita tecnologica, crescita politica e sociale.Il primo porta appecoramento a bisogni finti, operatori addestrati a essere proni a ogni pullman di coglioni vocianti,ma mangianti pizze e caganti nei cessi dei bar a pagamento.Il turismo non porta cultura, è a mio avviso nemico della cultura.La vera cultura sta nel difendere i siti archeologici, i musei, le chiesi rupestri, l’acqua dei fiumi, le montagne per il loro valore, per il rispetto che dobbiamo loro, per l’orgoglio di esserne guardiani di passaggio.Non perché sentiamo il tintinnare dei soldi dei biglietti d’entrata, o della pesca amatoriale o delle neve degli sciatori.E’ la differenza tra essere servi o essere padroni.Ecco, vorrei tanto che qualhe intellettuale ci difendesse dai luoghi comuni dell’amato turismo.

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