Industria Italiana e Iran: la crisi post Soleimani non sposta una situazione già deteriorata

di Antonio Picasso ♦︎ In un anno l'export dal nostro Paese è calato del 50%, mentre il percorso inverso ha subito un tracollo di oltre il 90%. Stabilimenti italiani nell'ex Persia non ce ne sono, dall'Eni in poi hanno tutti battuto in ritirata. Pesano come macigni le sanzioni internazionali del 2012 e l’assassinio del generale. Ma qualcuno che prova a fare affari con Teheran c'è ancora...

«Seguiamo solo le regole che ci vengono date dagli Sati Uniti», spiega Alberto Presezzi, General manager della Bruno Presezzi SpA, impresa lombarda specializzata nella produzione di macchinari per l’Oil & Gas, uno dei pochi brand dell’industria italiana rimasti in Iran. «Sentiamo la mancanza del sostegno da parte dell’Unione europea e del governo italiano, che soprattutto in circostanze critiche come quelle odierne dovrebbero fare da garanti alle attività economiche che vantiamo nel Paese». Spesso, nelle questioni geopolitiche, si tende a lasciare da parte gli interessi imprenditoriali, le commesse, i contratti in essere tra aziende di due Paesi, o due fronti di alleanze, che all’improvviso smettono di essere semplicemente competitor sul mercato, e si trasformano in nemici pronti a farsi la guerra.

Quanto costa infatti all’industria italiana il nuovo capitolo della crisi iraniana? In realtà poco. Al momento. Primo perché sono passate tre settimane dalla morte del generale Qasem Soleimani, comandante delle truppe d’elite iraniane, ucciso a Bagdad da un missile intelligente statunitense. Da allora, escluso l’attacco annunciato – quindi farsa – di ritorsione da parte del regime degli Ayatollah a una base Usa in Iraq, non si è avuta la tanto attesa e discussa escalation nel conflitto. Secondo perché le relazioni commerciali e industriali tra le nostre imprese e Teheran – per quanto consolidate e floride in passato – sono da tempo indebolite. Vittime collaterali di uno scenario internazionale in cui l’Iran è circondato da un cordone sanitario che non gli permette di soddisfare le proprie ambizioni di potenza regionale, come alter ego all’Arabia Saudita, nucleari – in quanto il club dell’atomo è a circolo chiuso – ed economiche, perché se crescesse in tal senso, anche le altre due sfere ne beneficerebbero.







 

Premessa geopolitica: saremo brevi

Il generale iraniano Qasem Soleimani

Nello scacchiere internazionale odierno è l’incertezza a far da padrone. Questo porta a non escludere a priori il riacutizzarsi del conflitto. Non possiamo permetterci di derubricare l’opzione di una guerra vera, fatta di sangue e boots on the ground. D’altra parte, se osserviamo i grandi tessitori del mondo, nessuno di loro ha interesse a perdere tempo e tanto meno consenso interno e risorse in una crisi aperta in Medio oriente, ovvero in un quadrante sempre meno strategico per gli affari internazionali. Ne spiegheremo il motivo tra poco.

Per gli Usa la questione è mission accomplished. Fatto secco un gerarca capace e popolare come Soleimani, gli Ayatollah avranno bisogno di tempo per riprendersi dalla sberla ricevuta. Ora Trump, con minima spesa e massima resa, può appuntarsi all’occhiello il successo dell’operazione e farsi la sua campagna elettorale. La Russia, a sua volta, ha ben altro a cui pensare. Riforma istituzionale autocratica voluta da Putin, crisi economica e Libia. Non è un caso che il Cremlino, all’indomani dell’attentato a Bagdad, non abbia fatto una piega. Idem la Cina, che, a onor del vero, dell’Iran si è sempre occupata poco. Questo in rapida sintesi. Come detto, confutabile domani causa imprevisto di ogni tipo.

 

 

Saldo commerciale in caduta libera 

Export italiano verso Iran. Fonte Istat

È di poco superiore ai 600 milioni di euro l’ammontare complessivo di esportazioni dall’Italia all’Iran. Il dato, secondo i rilevamenti incrociati Istat, Ice e Ambasciata d’Italia a Teheran, riguarda il periodo gennaio-settembre 2019. E non mette bene. Perché nello stesso arco temporale nel 2018, i beni e servizi made in Italy diretti a nell’ex Persia erano quasi il doppio. In generale si assiste a un lento ma progressivo calo dell’export. Ben più drastico è quanto avviene nell’opposto senso di marcia. Nel gennaio-settembre 2019, l’import dall’Iran è rimasto fermo a 119 milioni di euro; contro i circa 2,5 miliardi l’anno prima. La chiave di volta è nelle sanzioni Ue e Usa del 2012. Da allora l’interscambio ha cominciato a perdere il ritmo.

«Oggi stiamo alla finestra», commenta ancora Presezzi. «Stiamo cercando di capire che tipo di ulteriori sanzioni Washington vorrà introdurre. Nella loro categoria di manifatturiero possono rientrarvi prodotti che invece son esclusi dal manifatturiero italiano». È anche una questione di chiarezza di termini, quindi. Il fatto che è proprio macchinari e apparecchiature, quindi manifatturiero duro e puro, rappresentano la voce più forte nella lista dei prodotti esportati dall’Italia e diretti in Iran. Questo conferma che di impianti delle aziende italiane in loco non ce ne sono praticamente più. Negli anni si è assistito a una ritirata strategica, in cui il primo a levarsi d’impiccio è stato l’Eni.

Import italiano dall’Iran. Fonte Istat

«Scelta logica. Non ci vuole semplicemente coraggio, che non manca agli imprenditori italiani, per stare da quelle parti. Fare industria in una realtà dove manca lo stato di diritto ed è priva delle infrastrutture fisiche quanto virtuali è praticamente impossibile». Spiega Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi di Torino.

Analisi confermata dall’Istat, in un Paese dove il sistema bancario e quello assicurativo non sono all’altezza delle controparti occidentali, la variabile di rischio per gli imprenditori appare troppo elevata. Certo, c’è poi chi è temerario. Il mercato iraniano, con i suoi oltre 80 milioni di abitanti e la cui età media è estremamente giovane (25-54 anni) e fortemente urbanizzata, è un boccone troppo ghiotto per lasciarlo ad altri. Così alcuni procedono sottotraccia, per evitare le sanzioni Usa e mantenere vivi quei rapporti commerciali che risalgono ai tempi dello Scià.

Forse anche per questo l’Italia ha goduto, fino alla scorsa primavera, di alcune esenzioni sull’embargo, che le ha permesso – alla stregua di Cina, Giappone, India, Corea del Sud, Turchia, Grecia e Taiwan – di continuare ad acquistare in quantità decrescente greggio dall’Iran.

 

Il problema del petrolio è altrove

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

«La questione petrolifera iraniana, come anche quella libica, è irrilevante per i mercati». Arfaras è categorico. Di fronte a un surplus di offerta, pari a 700mila barili di petrolio estratti al giorno – queste le stime per il primo trimestre 2020, fornite da Energy Agency – né una guerra con l’Iran né una escalation sulle coste africane del Mediterraneo avrebbero delle ripercussioni sui mercati internazionali. Gli analisti concordano nel sostenere che è di gran lunga passata l’epoca delle crisi petrolifere come negli anni Settanta. Con l’indipendenza energetica raggiunta dagli Usa – le loro forniture estere di oro nero si sono ridotte di tre volte in un decennio all’attuale 20% (di cui solo l’8% dai paesi Opec) – e la sovrabbondanza produttiva dei pozzi sauditi, russi e nigeriani, il petrolio iraniano svolge un ruolo di gregario nel risiko dell’oro nero. Va poi aggiunto il processo di decarbonizzazione, che influisce – anche ideologicamente – sulle strategie energetiche dei paesi più avanzati. Fino a non oltre dieci anni fa, si temeva l’esaurimento delle scorte e il prosciugamento dei giacimenti. Uno scenario apocalittico presto confutato, ma che è stato sostituito appunto dalla paura – che né la politica né il mondo delle imprese possono assecondare – di andare verso il collasso causa emergenza climatica. In ogni caso, il mondo industriale si è speso per la ricerca di fonti energetiche alternative per la conseguente riconversione dei macchinari. Tutto ciò ha indebolito ulteriormente il valore del petrolio come fonte di reddito e di sviluppo per un intero Paese. L’Iran, che è uno petro-stato a tutti gli effetti, può fare ben poco in questo scenario.

«L’incognita però è data dallo Stretto di Hormuz», aggiungerì Arfaras, facendo riferimento a quell’imbuto di mare all’apertura del Golfo Persico, punto di transito obbligato per il passaggio del 30% del greggio mondiale. Non è un caso che di Hormuz e della sua sicurezza si è parlato a Davos e l’Italia sta valutando l’eventualità di partecipare a una operazione di pattugliamento. Il fianco potenzialmente scoperto dell’Arabia Saudita è nelle infrastrutture quindi. Nel caso l’Iran scegliesse una via muscolare, quello sarebbe il suo obiettivo. Ma a che pro? Una linea del genere la metterebbe ancora più alle corde in sede Opec. E nemmeno la Russia, la sua migliore amica – che poi tanto amica, s’è visto, che non è stata – la approverebbe.

 

Non di solo oro nero vive l’uomo

Alberto Presezzi, General manager della Bruno Presezzi SpA

E nel caso di regime change? Qui le analisi prendono un bivio. Da una parte le imprese dimostrano uno scarso amore per il vento di cambiamento che potrebbe soffiare sul regime. «L’Iran è un paese unito, moderno, con una forza armata solida», commenta Presezzi. «Purtroppo sono molto religiosi, questo è vero. Ma non è una novità». Come non è una novità per Presezzi attendere che si chiariscano gli scenari. Già un paio di anni da, la sua partecipata, la Franco Tosi di Legnano, si era vista bloccare una commessa da 66 milioni di euro, conquistata grazie a una joint venture con l’iraniana Mapna. Cos’altro potrà succedere nei prossimi mesi?

Lo si diceva all’inizio: il leader dell’azienda monzese preferisce focalizzarsi sui problemi occidentali, ovvero su quell’assenza, da parte delle istituzioni italiane ed europee nel gestire la crisi in corso. Gli imprenditori in loco si sentono abbandonati al loro destino, forzati a seguire le direttive dell’Amministrazione Trump. Quindi senza alcuna garanzia di futuro.

«Joint venture, innovazione, modernizzazione». Di tutt’altro avviso è Arfaras che vede nell’avvio di un processo democratico in Iran l’apertura di una pagina nuova, fatta anche di possibili investimenti dall’estero, mirati eventualmente anche a un processo di diversificazione produttiva che permetterebbe al paese di levarsi di dosso quella scomoda etichetta di petro-stato. Tanto improduttiva quanto anche demodé.














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1 commento

  1. Non vi è niente di più vero quando si afferma che l’Iran come altri paesi nel mondo restino legati e congelati al loro status dalle potenze mondiali e dal mercato internazionale semplicemente perché scelgono di restare fedeli ad una realtà politica e del territorio diversa o addirittura opposta a quella democratica e liberale del mondo moderno. Non adeguarsi ai tempi di oggi è senz’altro una mancanza di conoscenza è un restare radicati al passato che di certo non valorizza le capacità imprenditoriali di un popolo che deve aggiornarsi e modificare il proprio status di vecchio e stanco. Il futuro deve essere lasciato a chi è pronto e ha la volontà di cambiare di aggiornarsi e di rendere accessibile a tutti la tecnologia e l’avanguardia.

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