Il business plan dell’etica

di Marco de' Francesco ♦︎ Non solo fatturato, oggi le aziende devono essere impegnate anche nel sociale. E le competenze dei dirigenti devono essere trasversali, oltre che tecniche. Tanto da essere oggetto del master Maxe 2020 - realizzato dalla scuola di management dell’ateneo di Brescia, in collaborazione con Csmt Polo Tecnologico e con il locale Istituto di formazione e ricerca – che inizierà il 28 febbraio. Ne abbiamo parlato con Kazuo Inumaru, già docente di management giapponese alla Bocconi e co-fondatore di Ethic Intent

Per alcuni la missione etica del manager è un’astuta mossa auto-encomiastica, una declinazione del marketing rafforzata da un’assunzione utilitaria di responsabilità ambientale e sociale. Favorirebbe la generazione di un’aura luminosa attorno al prodotto-servizio, e l’accesso a fondi sostenibili dedicati – la cosiddetta “finanza etica”. Una politica machiavellica. Per altri, invece, è una cosa seria. Si tratterebbe del frutto di un percorso di conoscenza pratica, teso alla maturazione di una visione globale: la figura dirigenziale così formata dovrebbe essere capace di valutare l’impatto delle proprie decisioni su dipendenti, clienti, fornitori, e sugli stakeholder; e di concepire l’impresa come il motore dello sviluppo dell’intero territorio.

Dovrebbe tendere al bene comune, mettendo insieme conoscenze pratiche e teoriche, proprio come insegnava Aristotele. Secondo i sostenitori, ci sarebbero poi ulteriori benefici: l’azienda con una visione simile avrebbe profitti più alti, e sarebbe più attrattiva per lavoratori giovani e preparati. Ma si aprono nuovi fronti nel rapporto tra impresa ed etica. Si pensi alla guida autonoma: se il software studiato per evitare l’incidente e garantire la vita del guidatore pone a rischio quella dei pedoni, non è un argomento etico? E come si risolve? Sul punto abbiamo intervistato Kazuo Inumaru, già docente di management giapponese alla Bocconi nonché co-fondatore di Ethic Intent, che fa consulenza e formazione a organizzazioni che perseguono sia il profitto che l’utilità sociale. Ora insegna anche al master bresciano Maxe 2000.







 

Che c’entra l’etica con il manager e con l’azienda? Non è vero che dirigenti con pochi scrupoli hanno portato fatturato e utili alle aziende? E non è vero che la funzione principale dell’azienda è quella di avanzare sui mercati, per garantire l’occupazione?  

Kazuo Inumaru, già docente di management giapponese alla Bocconi nonché co-fondatore di Ethic Intent. Fa consulenza e formazione a organizzazioni che perseguono sia il profitto che l’utilità sociale. Ora insegna anche al master bresciano Maxe 2000

«Credo che occorra rivedere integralmente la nostra visione delle aziende, del capitalismo e dei leader, degli imprenditori e degli amministratori delegati. E penso che questa riflessione vada estesa anche a chi dirige ospedali, enti locali e associazioni non-profit. Si deve partire facendo un passo indietro di oltre 2mila anni, tornando al periodo in cui i grandi filosofi greci Platone e Aristotele hanno cominciato a riflettere sulle cose umane, e quindi sull’etica, sulla felicità, sull’identità e sulla conoscenza. La base comune delle loro riflessioni è l’esperienza umana; che però non va mai separata dalla conoscenza. In Oriente questa dissociazione non si è verificata: il Kendo, il Judo, l’Aikidō sono arti marziali che però uniscono teoria e pratica. Lo stesso si può dire per il Sadō, la via del tè giapponese. In Occidente la dicotomia è troppo radicale. Accademia ed esperienza sono distanti. Eppure, benché la metallurgia sia pura teoria, al saldatore serve la pratica, altrimenti non imparerà mai il suo mestiere. Come d’altra parte serve al giornalista per scrivere articoli, al dirigente per guidare la fabbrica, al capotreno per manovrare il mezzo. In Occidente abbiamo separato ciò che Aristotele aveva tenuto insieme, e dopo abbiamo sviluppato un logos a sé stante. Invece, ciò che conta è la conoscenza pratica: ed è per questo che al master parliamo di knowledge management e di cultura etica».

 

Ma in che senso questa conoscenza pratica può integrare il concetto di etica?

«Come si gestisce l’esperienza? Con le competenze. Ma queste si assumono non solo con lo studio, ma facendo le cose, col tempo e con l’esercizio: nessuno nasce imparato. Google e Amazon dispongono di abilità che altre aziende non posseggono: è per questo che vanno meglio, che fanno profitti più alti. E chi non ha skill, ha paura: se non sai come si fa, non guidi un treno ad alta velocità. Un patentino non basta: devi essere capace di svolgere bene quella funzione. Aristotele parlava di phronesis, il sapere utile a orientare le scelte, quello che serve a risolvere i problemi non solo teoricamente, ma anche praticamente. Bisogna acquisire sul campo più capacità, dare il meglio di sé. Il trasferimento di competenze con l’esercizio veniva definito dal grande chef e ristoratore italiano Gualtiero Marchesi “conoscenza tacita”. C’è del vero: puoi leggere le sue ricette, ma ciò non vuol dire che tu sappia cucinare come lui».

 

L’etica è imparare con la pratica a fare bene le cose?

Jeff Bezos, il patron di Amazon

«È un passaggio verso una visione etica. Sotto questa prospettiva, l’esperienza diventa una cultura che ha un obiettivo: il bene comune. Non saldi tubi per associarli con la fiamma, lo fai perché la società ha bisogno di manufatti di questo genere. Ci sono imprenditori, uomini che nella vita reale hanno fatto propria e hanno applicato la concezione etica di Aristotele. Si pensi al filantropo, uomo d’affari e Ceo dell’azienda tessile americana Malden MillsAaron Feuerstein. L’industria l’aveva ereditata: lui rappresentava la terza generazione. Poi, nel 1995, quando la fabbrica ha preso fuoco a causa dell’esplosione di un boiler ed è andata completamente distrutta, lui ha utilizzato i soldi dell’assicurazione per ricostruirla, e per pagare gli stipendi di tutti i lavoratori che erano finiti senza lavoro. Per sei mesi, ha tenuto a libro paga tutti i 3mila dipendenti. Disse di sentire una particolare responsabilità sia verso gli operai che verso gli impiegati. E di provare lo stesso sentimento nei confronti dell’intera comunità di Lawrence, la cittadina del Massachusetts dove si trovava lo stabilimento. Affermò, in quel momento difficile: forse sulla carta la nostra azienda non ha valore per Wall Street, ma posso dire che vale di più. Tutto ciò costò a Feuerstein 25 milioni di euro, la posizione di Ceo e infine la bancarotta. Un altro esempio è Brunello Cucinelli, stilista umbro e “re del cashmere italiano”. La sua azienda, che porta il suo nome, è quotata alla Borsa di Milano; ma lui non parla mai di quote di mercato. Piuttosto, cita Marco Aurelio, l’imperatore romano nonché filosofo stoico. A seguito del sisma del 2016 in Centro Italia, ha venduto il 6% delle proprie quote per donare 100 milioni in beneficienza. I suoi dipendenti sono pagati più della media dei lavoratori di settore; nonostante ciò, nel 2012 Cucinelli ha “regalato” loro più di 6mila euro in busta paga: ha deciso di condividere l’utile aziendale. Ha restaurato un borgo in Umbria, Solomeo, e ne ha fatto il fulcro della sua attività. Lì ha portato anche grandi personalità dei giganti tech americani, come Jeff Bezos (Amazon) e Reid Hoffman (co-fondatore ed ex presidente esecutivo di LinkedIn). Ha rivitalizzato l’intera valle, anche con impianti sportivi. Proprio a Solomeo, Cucinelli ha fatto edificare un monumento, un’esedra di travertino con archi. Non a caso si chiama “Tributo alla dignità umana”. Al di là del profitto dell’azienda ci sono dei valori che riguardano tutti, e che si riferiscono al significato vero della vita, quello che porta ad essere felici».

 

Il lavoro del manager ha a che fare con la felicità umana?

«In Occidente si ritiene opportuno un atteggiamento di totale distacco dalle emozioni, quando ci si occupa di cose scientifiche. In Oriente, il medico cerca di comprendere i sentimenti del malato. Io penso che sia importante recuperare il lato emotivo anche nel management, perché profitto e felicità devono andare di pari passo. Bisogna dar vita ad una leadership consapevole del fatto che l’obiettivo non è solo quello annuale o trimestrale dell’impresa ma è a più lungo termine e tocca persone che non hanno direttamente a che fare con essa. E questo, per la verità, non riguarda solo la responsabilità del dirigente o dell’imprenditore nei confronti dei dipendenti, dei clienti e dei fornitori, o dell’intero territorio; e non dipende dalle dimensioni dell’azienda. E non concerne le sole aziende, ma anche tutte le organizzazioni con riflessi sociali».

 

Qual è il rapporto tra etica e rispetto di linee guida, policy internazionali e leggi vigenti?

Brunello Cucinelli, stilista umbro

«Rispettare le norme sociali è un fondamento della cultura e della civiltà; ma c’è qualcosa di più alto, che riguarda la consapevolezza umana nel decidere cosa sia bene e cosa sia male. È qualcosa di connaturato nell’identità dell’essere umano, e che va al di là di leggi che cambiano con il tempo. Si pongono nuovi problemi, ad esempio con l’intelligenza artificiale. Se l’auto a guida autonoma è regolata da meccanismi che per evitare l’incidente e mettere a repentaglio la vita del guidatore pongono a rischio quella dei pedoni, non è un argomento tecnico, ma etico. Le norme sociali, dunque, sono successive all’etica, vengono dopo».

 

Quanto è diffusa l’etica nel management italiano?

«Ci sono aziende piccole e medie in cui è diffusa; ma è molto sentita anche in ambienti accademici eccellenti e in alcuni ministeri, come quello degli Esteri. La ricerca della competenza, dell’esperienza filtrata dalla riflessione sul bene comune è un capitale sociale importante. Si basa sulla buona volontà, e ha superato da tempo i confini nazionali».

 

Quale impatto comporta il rispetto dell’etica per azienda?

«Secondo diversi ricercatori indipendenti, un’azienda con una visione etica a lungo termine ha anzitutto profitti più alti di altre dello stesso settore e di pari dimensioni che però non agiscono secondo questi principi. Inoltre, le grandi società finanziarie considerano l’etica uno dei parametri più importanti, anche perché sanno che i privati sono più propensi ad investire in fondi che supportano aziende etiche. Ancora, va ricordato che i giovani sono sempre più sensibili a questi temi, per cui queste ultime reperiscono più facilmente delle altre forza lavoro nuova e preparata».

 

Non si rischia di farne una moda, un argomento chic privo di contenuti?

Reid Hoffman, co-fondatore ed ex presidente esecutivo di LinkedIn

«In tema di responsabilità sociale di impresa – che riguarda l’integrazione volontaria da parte delle aziende di preoccupazioni sociali, ecologiche e di quelle relative al loro impatto sulla società – le organizzazioni internazionali hanno già definito un insieme di standard. SA 8000, per assicurare condizioni di lavoro rispettose in termini di diritti umani; ad esempio escludendo il lavoro minorile e quello forzato. O altrimenti AA1000, sulla contabilità trasparente, oggettiva e imparziale. O ancora Iso 26000, una guida alla responsabilità sociale per tutti i tipi di organizzazioni, indipendentemente dalle dimensioni e dalla localizzazione geografica. Certo che queste cose possono rappresentare solo un’etica di facciata, diversa dall’impegno sincero, genuino ed integro; ma va anche sottolineato che una persona normale si accorge subito se l’azienda mente, e se tende solo al profitto. È un campo in cui il re diventa nudo all’istante, se racconta storie. E quindi conviene fare le cose sul serio».

 

Che tipo di manager formerete al master Maxe?

«Il Master, che inizierà il 28 febbraio, è pensato per figure dirigenziali già inserite in azienda e operative nelle operation, nella qualità, nella ricerca e sviluppo, nell’innovazione, nella produzione. Si sviluppa in circa 300 ore di didattica, a cadenza bimensile, nelle giornate di venerdì e sabato. I docenti lavorano a stretto contatto con le aziende. Come si è detto, conta la conoscenza pratica; pertanto, oltre il 40% del corso è impostato secondo la metodologia del learning by doing: esercitazioni di laboratorio, simulazioni d’aula, analisi e studio di casi reali. Alla fine, si dà vita ad un project work che deve avere caratteri d’innovazione. In generale, puntiamo a creare manager con una visione globale, con capacità tecnica, conoscenza delle tecnologie e coscienza etica; un motore dell’innovazione e dello sviluppo del territorio, in grado di valutare l’impatto delle proprie scelte sugli stakeholder e sui residenti. Il master è realizzato dalla scuola di management dell’ateneo bresciano (Smae), in collaborazione con Csmt Polo Tecnologico e con il locale Istituto di formazione e ricerca (Isfor)».














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