EY: a Pordenone gli evangelisti del 4.0

di Marco de’ Francesco ♦ Che sono le aziende pivot? Quale contributo possono dare le start-up alle Pmi della manifattura? La società  di consulenza indica il percorso da seguire per la digital transformation dell’industria con il progetto dell’EY Manufacturing Lab. Nella tappa friulana l’esperienza  della storica azienda del bianco Electrolux, e il ruolo di Ibm nell’utilizzo dell’AI

Come può un’azienda manifatturiera imbastire un progetto 4.0 per risolvere un problema pratico, come rendere un prodotto più attraente per la clientela, ridurre i costi di produzione, rendere più rapido l’attraversamento o vendere un servizio associato ad un bene? Una risposta discende dal confronto con aziende che hanno già affrontato la questione, e che quindi hanno dato vita ad una sperimentazione in materia. Si tratta cioè di reperire, con lo scambio di idee, dei casi d’uso, e di valutare se siano coerenti con i propri mezzi e i propri obiettivi. È il sistema dell’EY Manufacturing Lab, il progetto coordinato dal partner di EY Marco Mignani, Med Diversified Industrial Products Leader di EY, che giunto alla seconda edizione, tocca Bergamo, Pordenone, Torino, Como, Bologna, per arrivare con un gran finale a Milano.

Il piano del network mondiale della revisione e della consulenza coinvolge 250 Pmi della manifattura, e consentirà peraltro di tirare le somme sul grado di maturità digitale delle aziende coinvolte. Inoltre, in un contesto di open innovation, sono della partita le start-up, che offrono applicazioni definite; le “aziende pivot”, e cioè quelle che, al vertice di filiere avanzate, caldeggiano la trasformazione digitale dei fornitori; e infine, gli “evangelisti del 4.0”, e cioè le multinazionali dell’informatica che offrono ampi ventagli di soluzioni avanzate, come Ibm. La seconda tappa si è svolta in Innovation Factory, il primo open innovation hub dedicato all’accelerazione di progetti innovativi con start-up e partner esterni – tanto di prodotto quanto di processo – presso il sito Electrolux di Porcia (Pordenone), ed è stata partecipata da una quarantina di imprese.







 

Marco Mignani, Med Diversified Industrial Products Leader di EY

La trasformazione digitale, una questione di cultura e di pratica

La prima edizione, lo scorso anno, aveva visto la partecipazione di imprenditori, amministratori e direttori operativi di più di 250 aziende. Al termine di quattro workshop, ci si era resi conto che solo un’impresa su dieci possedeva una strategia 4.0 chiara, condivisa ed efficacemente comunicata. Tutte le altre mostravano evidenti carenze in termini di collaborazione con le divisioni interne e con l’ecosistema esterno; e non potevano vantare una direzione che sostenesse la trasformazione. Gli esiti della seconda edizione saranno resi noti solo al termine del percorso territoriale. Ma Mignani nota più consapevolezza, quest’anno. «Gli imprenditori si stanno rendendo conto che è vero che la quarta rivoluzione industriale è in corso, e che quindi nessuno di noi può sapere come andrà a finire; ma è anche vero che stare alla finestra non è l’atteggiamento giusto, perché la concorrenza può approfittarne per accelerare».

Per Mignani, il problema culturale, legato alla motivazione dei vertici aziendali, esiste eccome. Ma qualcosa si muove. «Si sta comprendendo che il 4.0 è anche una questione pratica. Qui non ci troviamo di fronte a giganti dell’innovazione, ma con imprese manifatturiere, con fabbriche attive per lo più nel settore della meccanica e con competenze tecnologiche in formazione». Queste fabbriche vogliono capire come fare meglio le cose, e come essere più efficienti nel farle. «Sono alla ricerca di esempi, e l’EY Manufacturing Lab è il luogo giusto per reperirli».

 

La digital transformation nelle Pmi, dall’ Osservatorio Industria 4.0 2018 del Politecnico di Milano”

Le aziende Pivot

Parlando di use case, di confronto e di collaborazione, bisogna partire da una considerazione. Anzitutto, nulla può rimediare alla carenza di apertura mentale da parte dell’imprenditore o del management. Se mancano la curiosità per l’innovazione e un vigoroso stimolo in questa direzione su tutti i comparti interni, per l’azienda c’è poco da fare. E poi, nel confronto tra la società, alcune sono “pivot” e altre no. Per Mignani «in certi contesti si va verso la filiera integrata. Nell’automotive alcuni  fornitori sono avanzati come le capofila, e devono modificare i propri sistemi per essere più efficienti, per sincronizzare il meccanismo della fornitura, con ordini automatici. D’altra parte in questi comparti la marginalità si gioca sull’efficienza operativa: chi partecipa al contesto deve tenere la stessa velocità di evoluzione. Il 4.0 diventa un beneficio di filiera, dal momento che riguarda la funzionalità di grandi e piccoli; se questi ultimi non si adeguano rischiano di finire emarginati».

Va peraltro sottolineato che non in tutti i settori le aziende più grandi esercitano il ruolo di “pivot”. Per Mignani «i “pivot”, al di là dell’automotive, sono presenti nel settore dei costruttori di macchine per il packaging, che esercitano questo ruolo di stimolo. Sono al centro di un ecosistema. Ma anche nel Bianco il fenomeno sta diventando sempre più evidente». Ed anche per questo la seconda tappa del Lab di quest’anno si è tenuta in Electrolux. Nelle filiere dove l’integrazione operativa orizzontale ancora non esiste, invece, occorre iniettare cultura digitale nelle piccole imprese, perché prendano coscienza dell’importanza del 4.0. In questi contesti il matching fra aziende di pari dimensioni è ancora più rilevante.

 

Un momento della tappa di Pordenone dell’EY Manufacturing Lab

Start-up ed “evangelisti del 4.0”

Non a caso, i temi di approfondimento al Lab sono: “Smart Factory: sopravvivenza o accelerazione?”; “Ecosystem Contamination” e “Digital Capabilities”. Si tratta di sfruttare in modo virtuoso le collaborazioni con tutti gli attori dell’ecosistema esterno alla fabbrica. Tenendo presenti le differenze dimensionali e la diversa funzione che alcune realtà possono svolgere. Piccole start up possono detenere l’idea giusta, quella che serve a imprese più grandi ad aggiustare la rotta nella loro corsa verso la digital transformation. Talvolta una semplice applicazione può modificare il modus operandi di grossi stabilimenti industriali. Si cercano invenzioni semplici e scalabili. Grandi protagonisti dell’IT, invece, hanno in mano le tecnologie più avanzate, quelle che si stanno imponendo grazie al Cloud, che è un fattore di democratizzazione dell’offerta.

Questi giganti sono i veri detentori di soluzioni cognitive, del deep learning, dell’IA. D’altra parte, sono settori dove gli investimenti sono a colpi di miliardi. Comunque sia, al Lab vige l’open innovation. È stato osservato, nel corso nel corso della seconda tappa, che «non necessariamente le migliori competenze  sono presenti nell’impresa in cui operiamo. L’open innovation significa trasformare qualcosa che esiste all’esterno dell’azienda e che è perfettibile», nel senso che può essere adeguata all’esigenze di un’organizzazione particolare. «All’esterno della fabbrica si può trovare tutto ciò che serve all’azienda per una soluzione customizzata». Fuori c’è tutto, basta aprire la porta.

Electrolux in quanto Pivot

La scelta di Porcia per la seconda tappa del Lab ha un duplice significato. Secondo Emanuele Quarin, digital transformation director di Electrolux, «da una parte è il luogo dove Lino Zanussi aveva fondato la sua azienda; dall’altra, è un luogo centrale per l’innovazione in Electrolux». Circa il ruolo di pivot di Electrolux Italia, per Quarin «siamo in una fase iniziale. È in corso il trasferimento delle attività di digital transformation da questa alle altre 15 fabbriche sparse per il Vecchio Continente. Questo riguarda il manufacturing, il controllo di qualità, ma anche le vendite e la supply chain». Un movimento, cioè, destinato ad impattare sui fornitori.

 

Emanuele Quarin,digital transformation director di Electrolux

Il 4.0 in Electrolux: Mes e digital ambassador

Si è trattato, anzitutto, di lavorare sul grado di consapevolezza digitale del personale dell’azienda. Iniziando dal top management, che è stato messo a confronto con esperti, influencer e giovani universitari che, secondo Quarin, hanno lavorato fianco a fianco in progetti di co-working. A cascata, queste competenze, assunte con la stessa metodologia, sono state trasferite a tutti i lavoratori. Due sono gli obiettivi che Elettrolux  vuole raggiungere grazie alla digital trasformation: l’eccellenza operativa e la user experience. Attualmente, in Electrolux si lavora su un “process global Mes”, e cioè «un apparato informatizzato che gestisce e controlla la funzione produttiva dell’azienda. Per questa, è un vero e proprio sistema nervoso: amministra non solo il dispaccio degli ordini e gli avanzamenti di processo, e non solo i versamenti in magazzino, ma anche il collegamento con i macchinari, che consente l’estrazione di data funzionali all’ottimizzazione e al controllo produzione».

Quanto all’elaborazione dei dati, è in fase esplorativa la modalità via cloud. Si sta testando la realtà virtuale e quella aumentata. In ogni fabbrica è stato nominato dai direttori un digital ambassador, e cioè un referente per le questioni relative al 4.0. Per Quarin «non hanno solo stesso background di competenze specifiche: provengono da uffici e comparti diversi. Ma si sono segnalati per l’interesse verso l’innovazione e la tecnologia e sono, per l’azienda, agenti abilitanti, elementi di ricchezza culturale collettiva».

 

Le startup e le loro soluzioni

In un contesto di open innovation, più start up che collaborano con Electrolux hanno portato la loro esperienza all’EY  Manufacturing Lab. Una è la patavina AzzurroDigitale, che con un personale di sedici unità fattura ormai un milione di euro. Che c’entra con il gigante del Bianco? La partnership nasce da un’esigenza reale, quella di definire, di giorno in giorno, l’allocazione dei blue-collar all’interno dei singoli stabilimenti. Si tratta di reperire la persona giusta per il posto giusto. Secondo il co-fondatore Carlo Pasqualetto «quotidianamente il piano produttivo varia, e richiede competenze diverse. Il sistema, che analizza con assiduità il genere di lavoro svolto in azienda dai blue-collar, è in grado di suggerire quale siano quelli con gli skill adatti in vista della partecipazione ad un certo progetto. Insomma, indica la squadra migliore possibile». L’invenzione di AzzurroDigitale serve anche allo sviluppo delle competenze del personale un genere, visto che è in grado di individuare le carenze individuali cui porre rimedio con una formazione personalizzata.

La piattaforma che consente tutto questo si chiama i4.0SaaS. ed elabora i dati utilizzando algoritmi di ricerca operativa molto avanzata. Secondo Jacopo Pertile, digital consultant di AzzurroDigitale, i principali benefici della soluzione sono la riduzione del 75% del tempo richiesto a planner e team leader per gestire il processo di pianificazione; del 100% di quello richiesto agli specialisti di risorse umane per amministrare le tabelle skill matrix (mappatura di dipendenti e competenze); del 50% di quello necessario a un team leader per gestire attività inattese, come la mancanza di un operatore a inizio turno; del 75% del tempo richiesto al responsabile di risorse umane per definire le attività di training nonché il risparmio del 75% nella gestione di procedure per l’accertamento medico del personale di produzione. Il sistema è scalabile. Applicato inizialmente a Porcia, è poi stato impiegato in tutti gli stabilimenti europei di Electrolux. Secondo Pasqualetto, è stato adottato anche da De’Longhi, Safilo, e altre grandi aziende. Ad oggi la soluzione gestisce più di 30mila blue-collar in Europa e in America.

 

Silvio Paroli, Industrial Business Development Executive di Ibm Italia

Gli “evangelisti del 4.0”:  Ibm e le soluzioni cognitive

Secondo Silvio Paroli, Industrial Business Development Executive di Ibm Italia, la collaborazione con EY nasce soprattutto per condurre una survey territoriale, «per tastare il polso delle aziende e comprendere a che punto siano in fatto di evoluzione verso Industry 4.0». Per Paroli, «a quanto si capisce, l’Italia non ha ancora sfruttato tutti i vantaggi della digitalizzazione, nonostante gli incentivi  della legge Calenda. C’è un gap da colmare con i principali Paesi europei». Ma c’è un secondo obiettivo che Ibm persegue con il Lab: «Far percepire alle aziende, in modo mediato, il valore che Ibm  può portare non solo all’IT, ma anche all’OT». Ma quali sono le tecnologie più richieste dalle aziende? Secondo Paroli, quelle che hanno a che fare con il cognitive: per il trattamento di immagini, suoni, testo e parlato. Quanto alle immagini, grazie all’intelligenza artificiale, a sistemi ottici e al machine learning, una macchina può imparare ad analizzare la qualità del prodotto. Quanto a suoni, testo e parlato, si può dar vita ad un advisor digitale molto esperto, in grado di comprendere le domande dei richiedenti e fornire risposte puntuali e frutto di competenza.

 

IBM's Global Center for Watson IoT in Munich, Germanyjpg
La sede di Watson Iot a Monaco di Baviera

Com’è noto, Ibm dispone di una soluzione, AI OpenScale, in grado di gestire modelli di intelligenza artificiale di vendor diversi. Gli utenti di una azienda possono comprendere, grazie ad una dashboard, i diversi modelli di intelligenza artificiale di cui dispongono; inoltre ricevono approfondimenti sulla “salute” dell’AI, e cioè verifiche relative a possibili errori di funzionamento. AI OpenScale intuisce, cioè, se la logica di base e l’algoritmo utilizzatio siano quelli giusti rispetto alla tematica che si intende affrontare. Ma Ibm ha una sua piattaforma di AI: Watson. È molto avanzata: d’altra parte il colosso americano investe 5 miliardi di dollari all’anno in ricerca e sviluppo  e detiene da decenni il record mondiale di brevetti depositati. Watson è stata trattata da Industria Italiana in più occasioni, per esempio qui. In generale, per Ibm l’intelligenza artificiale costituisce una leva competitiva importante per l’azienda, che grazie a strumenti come Watson può estrarre valore differenziante dai dati interni ed esterni. Secondo Ibm, l’azienda può integrare l’AI nei processi aziendali, ottimizzando i compiti che già svolge e consentendo nuovi modi di fare impresa; arricchendo le interazioni, per esempio, o prevedendo i guasti.

I progetti di trasformazione digitale devono essere customer oriented. «Occorre cambiare prospettiva: la strada per il 4.0 va intrapresa per il vantaggio del cliente finale». Ne è convinto Mignani, che fa l’esempio di una «nota azienda manifatturiera del Bolognese». Questa industria, il cui nome non può essere rivelato, ha riservato la posizione di capo del digitale di fabbrica non ad un ingegnere, non ad un tecnico, non ad un superesperto di informatica o di intelligenza artificiale, ma ad una figura proveniente dalle vendite. Per Mignani «con tutta evidenza in azienda si erano stancati di progetti di digitalizzazione fini a se stessi. Hanno capito che se il piano non è disegnato per il cliente, è destinato all’insuccesso, perché non produce un incremento dei ricavi. Per questo hanno scelto un commerciale: chi meglio di lui può conoscere le esigenze del cliente, quello che quest’ultimo si aspetta da una rivoluzione tecnologica?». Per Mignani, è l’ora di iniziare ad affrontare la questione della digital transformation con un atteggiamento più pragmatico di quanto non si sia fatto in passato.














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