Ecosistemi di business, il futuro di economia e industria

di Filippo Astone e Marco de’ Francesco ♦︎ Un network di player di settori anche funzionalmente differenti che lavorano in modo congiunto per definire e portare sul mercato soluzioni innovative. Per Accenture è questo lo scenario competitivo in divenire. Ecco le strategie per le imprese italiane che vogliono cavalcare i nuovi trend invece di farsene travolgere. Parla Marco Morchio

C’è una frase utile a chiarire che cosa sia e a cosa serva un ecosistema di business. L’ha pronunciata un docente americano di omiletica, Halford E. Luccok: «Nessuno può fischiettare una sinfonia. Ci vuole un’intera orchestra per riprodurla». Perché quella musica si riferisce ad un contesto complesso, che si genera con la ponderata attivazione di competenze e strumenti diversi. Nessuno può fare da solo. Lo stesso accade oggigiorno nel mondo dell’economia, e dell’industria in particolare. Per stare al passo con il progresso innescato da tecnologie dirompenti, e realizzare prodotti-servizi con contenuti di valore per il cliente finale, occorre che più aziende mettano insieme abilità diverse: capacità uniche, dati, clienti e conoscenze di comparto.

Il passo in avanti è l’ecosistema di business: un network di player di settori anche funzionalmente differenti che lavorano in modo congiunto per definire e portare sul mercato soluzioni innovative. Ad esempio, come vedremo, una società di assicurazioni e un carmaker danno vita ad una piattaforma IoT e ad un sistema satellitare per monitorare lo stile di guida dei clienti di un servizio di car sharing, premiando i comportamenti responsabili. Si tratta, da un lato, di salvaguardare la flotta; dall’altro, di tutelare gli interessi dell’insurer. E si dà vita ad un nuovo modello di business, che consente alle aziende partecipanti di penetrare con rapidità in aree diverse dalle proprie (il car sharing in questo caso).







Insomma, per dirla con Marco Morchio – il Responsabile di Accenture Strategy Italia che abbiamo intervistato su questo tema– «stiamo andando verso un sistema produttivo che premia gli ecosistemi, perché in grado di esprimere un maggior grado di competitività. Ciò accade per tre motivi: anzitutto, perché come vedremo gli ecosistemi godono di effetti di network, che ne determinano la crescita in valore; e che sono tanto più importanti quanto più aziende si associano alla rete; in secondo luogo perché il nuovo prodotto-servizio, reso possibile dall’interazione tra soggetti di settori diversi, attiva una domanda inespressa. In terzo luogo perché gli ecosistemi consentono di affrontare meglio la concorrenza internazionale a cui ci si pone non più come singola azienda ma come insieme organizzato. Pertanto, crediamo che il modello sarà quello vincente nel prossimo futuro».

Ciò in linea teorica, perché nella pratica il sistema funziona solo se si verifica uno scambio reale ed effettivo di informazioni essenziali tra aziende. È necessario superare timori legati alla confidenzialità e alla security dei dati. Occorre una mutazione in termini di mindset. Ma, secondo Morchio «anche il personalismo difensivo, uno dei caratteri dello spirito imprenditoriale italiano, non costituisce un ostacolo insormontabile: gli executive italiani sono naturalmente predisposti all’l’innovazione; una volta intuite le chance che si aprono con il lavoro congiunto in un ecosistema di business, in cui si mettano in comune degli asset, ad esempio le tecnologie, per liberare risorse da investire nella proprie caratteristiche distintive, metteranno da parte qualsiasi ritrosia a condividere parte del proprio patrimonio informativo».

Marco Morchio, Responsabile di Accenture Strategy Italia

 

I business ecosystem nascono come modelli organizzativi per creare valore nel mondo delle tecnologie disruptive grazie a nuovi prodotti e servizi

Basta fare una ricerca sui siti che condividono paper di natura scientifica per rendersi conto che il concetto di ecosistema aziendale è associato ad ambienti adattivi complessi. Le tecnologie disruptive stanno accelerando il cambiamento dei mercati; le aziende, per essere competitive, devono avanzare al passo serrato con l’innovazione; e per farlo devono dominare una pluralità di strumenti frutto di ricerche multidisciplinari, per realizzare prodotti-servizi coerenti con le aspettative degli utenti finali – sempre più orientati all’acquisto di beni portatori di funzionalità inedite e customizzate. L’impressione è che nessuna azienda possegga, isolatamente, le competenze per far fronte ad una simile evoluzione. Le imprese hanno bisogno di integrarsi con dei partner in grado di sostenere lo sviluppo di servizi iperpersonalizzati. Anche i colossi della tecnologia si alleano fra di loro per mettere insieme i rispettivi skill specialistici: si pensi a Microsoft e a Oracle, che hanno unito le forze per consentire ai clienti di connettere direttamente gli analytics e l’intelligenza artificiale di Azure ai servizi Oracle Cloud, come il database. Se ciò è vero per i giganti, deve esserlo per la stragrande maggioranza delle imprese, chiamate a definire modelli operativi avanzati per adattarsi al nuovo mondo che le circonda. In questo modo nascono i cosiddetti business ecosystem. L’idea è che ognuno dei player influenzi gli altri e al contempo ne sia influenzato, in una relazione in costante evoluzione e promotrice di innovazione.

Un esempio dagli Stati Uniti lo spiega con chiarezza. Nel 2014 Whole Foood, catena di negozi biologici, decide di vendere i propri prodotti via web; stringe una partnership con Instacart, società tecnologica che si occupa appunto di web delivery. In questo modo, può realizzare immediatamente il nuovo servizio, e usufruire della clientela di Instacart. Succede poi che Whole Food, cresciuta grazie a questa operazione, viene acquistata da Amazon, per 13,7 miliardi di dollari; e siccome il colosso di Jeff Bezos dispone di un proprio grocery delivery service, AmazonFresh, il rapporto con Instacart termina. Nel mondo automotive, poi, si possono fare diversi esempi. Si pensi alla collaborazione strategica tra Audi e Huawei, in vista della realizzazione di intelligent connected vehicles, e cioè di auto a guida autonoma. Il progetto tra il carmaker e il fornitore di soluzioni di rete è per ora circoscritto al territorio cinese ed è in fase di test. Ma sviluppi sono previsti per i prossimi anni. Accordi sullo sviluppo della guida autonoma sono stati siglati anche tra Baidu, il principale motore di ricerca in lingua cinese, e altri importanti carmaker come Ford, Volvo, e Volkswagen, che hanno aderito alla piattaforma open source Apollo, realizzata insieme ad altri 130 partner e che si occupa di tutte le componenti della autonomous car, dal software all’hardware e ai servizi cloud.

Gli effetti del networking. Fonte Accenture

 

Due esempi italiani: Iren Mercato e Generali

Iren Mercato è un’azienda controllata dalla multiutility Iren di Reggio Emilia, un gruppo quotato in Borsa e che ha realizzato nel 2018 un fatturato di oltre 4 miliardi di euro. Si occupa di approvvigionamento e commercializzazione di energia elettrica, gas, teleriscaldamento. Iren Mercato ha lanciato un servizio di monitoraggio intelligente e in tempo reale dei consumi di energia. Alla base, l’internet delle cose, che consente la raccolta di dati dai contatori e la loro elaborazione. Secondo Morchio, «è cambiato il modello di business: l’azienda non vende più solo le materie prime come luce e gas, ma anche la possibilità, per il cliente, di conoscere i propri consumi consultando una applicazione mobile o il web. Si vende un’esperienza più coinvolgente per l’utente finale». E il business si allarga ad altre aree: l’assicurazione sulla casa basata su IoT, ventilazione, aria condizionata e pannelli solari fotovoltaici, il tutto con soluzioni avanzate per il controllo dell’energia a distanza.

Massimiliano Bianco, ad Iren

Sempre per Morchio, «un caso di rilievo è quello che ha messo insieme DriveNow, società di car sharing del gruppo Bmw, e Generali Italia, attraverso la società di servizi e connected insurance Generali Jeniot. Dal primo gennaio 2018, a tutti i clienti DriveNow in Italia – che abbiano aderito dando il loro esplicito consenso – è offerta la possibilità di partecipare all’iniziativa “DriveNow, DriveSafe” che premia con minuti di utilizzo gratuiti tutti coloro il cui stile di guida – monitorato dal sistema Real Time Coaching di Generali Italia – risulti virtuoso.  Gli automobilisti modello ricevono mezz’ora di utilizzo in più in caso di guida esemplare per un mese; e un’ora nel caso in cui questo comportamento sia tenuto per tre mesi. Il Real Time Coaching è un sistema interattivo satellitare e IoT». Secondo Generali, attraverso un segnale luminoso avvisa in diretta il guidatore circa la sua condotta al volante, sensibilizzandolo perciò ad uno stile guida responsabile e aiutandolo a riconoscere le situazioni rischiose. Sempre per l’azienda, il sistema è Installato a bordo di tutti le 500 Bmw e Mini DriveNow attualmente circolanti a Milano; misura per l’intera durata del noleggio l’intensità di parametri quali velocità, accelerazione, decelerazione, sterzata e frenata. Si tratta, da un lato, di salvaguardare la flotta; dall’altro, di tutelare gli interessi dell’insurer. E, nel complesso, si dà vita ad un nuovo modello di business che si fonda su un coinvolgimento e su un ingaggio più rilevanti dell’utente.

 

Come funzionano i business ecosystem:  gli effetti di network

Uno dei meccanismi in grado di portare valore incrementale all’ecosistema aziendale è quello degli effetti di network. In un sistema tradizionale, le aziende sono inserite in una catena basata su produzione di beni e servizi e distribuzione ai propri clienti. L’interazione tra questi ultimi a l’impresa è trascurabile, e si realizza al momento della vendita. Invece, quella inerente a ecosistemi è molto più complessa: esistono effetti di network che generano la crescita in valore dell’ecosistema, per ogni azienda che si aggiunge alla rete. Facciamo un esempio, preso dal libro di Michele Vendemini, Relating multiple business models and multi-sided: quello della playstation. Ogni nuovo acquirente-utente rappresenta un possibile compagno di gioco, aggiungendo valore alla piattaforma, che risulta più attraente per i potenziali partecipanti e più preziosa per quelli reali. Si parla, in questo caso, di effetti same-side. Al di là del contesto di gioco, lavorano gli sviluppatori di software. Gli utenti rappresentano il potenziale mercato dei developer: più ampia è la base dei giocatori, più interessante è la piattaforma. Si parla, in questo caso, di effetti cross-side. Più soggetti intervengono nel perfezionamento di un prodotto-servizio o nella definizione di uno nuovo, attratti dalla partecipazione di utenti; d’altra parte, il nuovo prodotto-servizio, se di successo, attiva una domanda inespressa. Inoltre, la necessità di sostenere l’offerta comporta nuove modalità di supporto dei fornitori, per stimolare la loro crescita; ciò si traduce nella creazione di nuove competenze e nell’eliminazione delle asimmetrie informative.

La strategia degli ecosistemi. Fonte Accenture

 

Come funzionano i business ecosystem: la metodologia agility

Dal momento che l’ecosistema prevede l’attivazione di team interfunzionali composti da esponenti di aziende diverse, per accorciare il time-to-market del prodotto-servizio e per ridurre il rischio di fallimento, si ricorre alla metodologia dell’agility, continua Morchio: invece di procedere orizzontalmente, completando in successione le diverse fasi di sviluppo (disegno, analisi tecnica, analisi funzionale e realizzazione; la procedura viene detta “Waterfall”), si avanza per iterazioni, piccoli progetti a sé stanti che contengono tutte le funzionalità del prodotto-servizio, ma che si prestano a successivi incrementi anche in rapporto alle aspettative del cliente. È una tattica ereditata dalle modalità di sviluppo del software. Anche in quel settore specifico, ci si era resi conto che l’adozione rigorosa dei metodi Waterfall era poco efficiente, costosa e richiedeva tempi di attuazione più lunghi del necessario per diversi motivi. Il primo dei quali era che non si può definire in anticipo certi requisiti in modo certo. Che senso ha completare in maniera dettagliata i requisiti di business per poi scoprire che il team di ingegneria informatica non è in grado di realizzare ciò che si desidera?  Ora «l’agility è una metodologia funzionale agli ecosistemi. Infatti, una delle caratteristiche degli ecosistemi è quella di essere innovativi; e l’agility, procedendo in verticale e mettendo insieme componenti tecnologiche e competenze diverse, favorisce l’innovazione».

Gli ecosistemi saranno la base della crescita futura? Fonte Accenture

L’individualismo italiano e gli altri ostacoli alla formazione di ecosistemi

Secondo una ricerca di Accenture Strategy, che risale all’anno scorso, il 56% degli executive italiani intervistati vorrebbe costruire un ecosistema per essere disruptive nel proprio settore; e il 73% dei business leader intervistati nel Belpaese sono d’accordo sull’idea che i modelli di business attuali diventeranno irriconoscibili nei prossimi 5 anni, con gli ecosistemi come principale agente del cambiamento. Per la precisione, Accenture Strategy ha intervistato 1.252 business leader di diversi settori a livello internazionale, fra cui 100 italiani. Morchio la pensa così: «Da una parte c’è la consapevolezza dell’opportunità di crescita che si può conseguire con la costituzione di ecosistemi aziendali; dall’altra, però, ci sono resistenze culturali da superare, che riguardano soprattutto i manager». Una di queste, forse la più importante, può essere tradotta con l’espressione “individualismo italiano”. È la voglia di emergere in un contesto competitivo che non prevede nessuna collaborazione con chi viene dopo, che deve “mangiare la polvere”. Ci si mette in gioco per la valorizzazione di se stessi e del proprio ruolo, e non si condivide nulla: forse è un retaggio delle antiche corporazioni, che alla fine erano enti chiusi. Ci sono, però, alcune informazioni e asset differenzianti che è bene che ogni azienda tenga per sé; altre, invece, possono essere condivise con notevoli vantaggi i termini di costi ed efficienza. Si è già spiegato che oggi, così come si sono messe le cose a seguito dell’ingresso di tecnologie dirompenti, nessuno può fare da solo. E si è già chiarito che alla base degli effetti di network esistono delle spiegazioni puramente matematiche, dalle quali non si scappa. Pertanto, si può dirla con il manager e docente statunitense Deming William Edwards: «La competizione porta alla sconfitta. Persone che tirano la corda in due direzioni opposte si stancano e non arrivano da nessuna parte». In realtà, Morchio è ottimista: «L’imprenditorialità in sé rappresenta una spinta positiva. Inoltre, altre caratteristiche della mentalità italiana possono essere considerate favorevoli allo sviluppo degli ecosistemi. La flessibilità, ad esempio, soprattutto nel navigare nella difficoltà. E poi, la voglia di innovare. Gli italiani sono capaci di farlo in modo estemporaneo, al contrario dei tedeschi, che lo fanno in maniera verticale e specializzata, nonché orientata ad una qualità ripetitiva. In un certo senso, la circolarità delle competenze e delle idee tipiche dell’ecosistema può essere favorita dall’approccio italiano».

Tassi di crescita – previsti e ottenuti – dovuti alla strategia dell’ecosistema. Fonte Accenture

Nel mondo odierno, quindi, i leader aziendali riconoscono chiaramente la forza degli ecosistemi per guidare la loro crescita e quella dell’intero settore ma è ancora difficile metterne in pratica le opportunità. Secondo la ricerca, a livello globale il 68% delle aziende di ecosistema ha previsto un tasso di crescita del 3-4%, ma solo il 38% lo sta ottenendo. E solo il 15% delle aziende sta ottenendo dagli ecosistemi una crescita del 5% o superiore. Questo accade anche in Italia, ed è dovuto al fatto che gli effetti positivi della partecipazione possono non essere immediati. Evolvere verso un modello di business che fa leva sugli ecosistemi non è un esercizio banale. Richiede una comprensione precisa dei driver di valore che possono stimolare gli effetti di network. Chi partecipa all’ecosistema dovrebbe avere una strategia chiara per approcciare queste dinamiche: innanzitutto, dovrebbe riuscire a delineare le dinamiche di mercato: la vision sulle opportunità di crescita, il business case, le priorità e la roadmap che definiranno come l’ecosistema potrà crescere Ogni azienda, poi, dovrà stabilire chiaramente il proprio ruolo chiedendosi : chi sono i propri clienti, i propri partner, cosa vendere e cosa monetizzare. Inoltre, sarà poi necessario scegliere accuratamente i partner con cui completare la propria strategia di ecosistema, in modo che siano in grado di apportare capacità complementari, relazioni con i clienti e dati. Infine, sarà necessario trovare il modo di orchestrare l’intero ecosistema, pianificando e testandone la struttura, progettandone l’architettura, la matrice di rischio e il panorama dei vendor. Insomma, non c’è una formula magica per prevedere la migliore combinazione di fattori che massimizzi il valore di un modello di business basato su ecosistema. È una questione di equilibri, molto delicati, relativi alla posizione dei singoli componenti e alla loro attività di rete. D’altra parte il cambiamento che si richiede alle aziende partecipanti per ottimizzare il funzionamento dell’ecosistema non è di facciata, ma di contenuto. Pertanto, è più difficile da ottenere

Cosa pensano gli executive italiani riguardo alla strategia dell’ecosistema? Fonte Accenture

Elementi che possono accelerare la formazione di ecosistemi aziendali in Italia: economicità e verginità del sistema Italia

Progressi nella formazione di nuovi business ecosystem possono scaturire da alcune caratteristiche del sistema Italia. L’Italia storicamente non è un early adopter di tecnologie. «A San Francisco – afferma Morchio – se vieni a sapere di una tecnologia nuova che ti interessa, devi muoverti entro tre giorni, altrimenti qualcun altro l’avrà acquistata. Qui c’è tempo per ragionarci su, e valutare se quella tecnologia fa al caso tuo» Ciò incide positivamente sul costo di accesso alle tecnologie. Inoltre, gli altri Paesi industrializzati hanno già sfruttato la leva degli ecosistemi; l’Italia è un terreno vergine. «Eppure – conclude Morchio – qui ci sono straordinarie eccellenze, e il Belpaese è comunque la seconda potenza industriale del Vecchio Continente. Questo significa che se riuscissimo a sfruttare questa leva, potremmo fare un salto competitivo davvero notevole, e crescere più degli altri».

Come possiamo preparare le aziende ad affrontare le sfide poste dalla digital transformation? Fonte Accenture

 

(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 30 ottobre 2019)














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