Assolombarda: il Pil della Lombardia raggiungerà il 4,3% a fine 2023. Meglio della Baviera (+0,5%)

Lo ha dichiarato il presidente dell'associazione Alessandro Spada, in occasione dell’assemblea generale che si è tenuta oggi al Camozzi Research Center

La relazione del presidente di Assolombarda Alessandro Spada

Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, ha aperto questa mattina l’assemblea generale dell’associazione che si è tenuta presso il Camozzi Research Center, hub tecnologico del Gruppo a Milano. L’assemblea ha visto anche gli interventi di Giorgia Meloni, presidente del consiglio dei ministri; di Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno; di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria; di Attilio Fontana, presidente di regione Lombardia; di Giuseppe Sala, sindaco di Milano. I lavori si sono conclusi con l’inaugurazione del Camozzi Research Center. Il presidente Alessandro Spada ha aperto così i lavori: «Noi siamo, per natura geografica, nel cuore dell’Europa e, per capacità industriale e ruolo progettuale, il cuore dell’Europa. Storicamente qui, nel territorio della grande Milano, è sempre stato collocato il baricentro strategico dell’economia italiana, al crocevia d’Europa. Permettetemi, quindi, di rendere giustizia a ciò che la nostra industria rappresenta: un modello manifatturiero vincente, per qualità, innovazione, visione, espressione profonda del made in Italy in Europa e nel mondo».

L’assemblea in un luogo simbolo di rigenerazione e di manifattura avanzata

Spada, Fontana, La Russa, Sala e Saccone all’assemblea generale 2023 di Assolombarda

«La scelta di tenere qui la nostra assemblea annuale ha un valore altamente simbolico: metafora di rinascita industriale. Questo luogo racchiude, infatti, una parte importante della storia dell’industria italiana con i successi legati alla Lambretta e alla Mini – ha proseguito il presidente Alessandro Spada –. Dopo un susseguirsi di crisi che potevano rappresentare il triste epilogo per questa realtà, oggi grazie al coraggio e alla visione di Camozzi possiamo invece ammirare tecnologie d’eccellenza come la stampante 3D, tra le più grandi al mondo. Il Camozzi Research Center, centro di ricerca e sviluppo del Gruppo e hub tecnologico avanzato, anche in sinergia con l’Istituto Italiano di Tecnologia e il Politecnico di Milano contribuisce all’innovazione della manifattura secondo modelli avanzati di Industry 5.0. Ma questo luogo è anche racconto di rigenerazione del territorio perché nell’area ex Innocenti sorgeranno i laboratori artigianali del Teatro alla Scala con la sua Magnifica Fabbrica».







Rivendichiamo con orgoglio il nostro modello manifatturiero

«La nostra industria manifatturiera possiede migliaia di campioni che operano con successo a livello internazionale in segmenti altamente specializzati della nostra manifattura. Secondo i dati di una ricerca inedita svolta da Fondazione Edison, quasi l’80% dell’export manifatturiero italiano viene realizzato da imprese medie, medio-grandi e grandi con un numero di occupati che va da 50 a un massimo di 4.999 addetti. Queste imprese sono in totale 9mila. A queste si aggiungono altre 27mila piccole imprese con un numero di addetti che va da 10 a 49, che coprono un restante 13%. Le imprese con più di 5mila addetti, invece, sono 13 e pesano per meno del 7% dell’export. Il nostro paese, insomma, non è né penalizzato dalla mancanza di grandi gruppi industriali, né tanto meno schiacciato su imprese di piccole dimensioni. È proprio la taglia delle nostre imprese, infatti, che ci permette di essere leader a livello internazionale in quei segmenti produttivi in cui qualità, innovazione e flessibilità costituiscono fattori competitivi. Dobbiamo essere profondamente orgogliosi del nostro modello manifatturiero, spesso accusato ingiustamente di fare pochi investimenti, di essere poco tecnologico, di non essere sufficientemente competitivo e di essere, perciò, inadatto a competere nella sempre più dura arena del mercato globale. Niente di più lontano dalla realtà».

Il valore della nostra industria: 163 miliardi di export e un monte salari di 28 miliardi

Il monte salari generato dalla manifattura lombarda è pari a 28 miliardi di euro

«Il nostro paese è la seconda manifattura d’Europa. Siamo quinti al mondo per il più elevato surplus commerciale con l’estero (esclusa l’energia) e lo siamo anche grazie al contributo decisivo dei nostri territori che insieme costituiscono una delle più grandi regioni manifatturiere d’Europa, la prima in assoluto per numero di unità locali manifatturiere. Basti pensare che l’export della Lombardia nel 2022 è stato di 163 miliardi di euro. Uno dei più importanti d’Europa, pari a oltre due volte quello della Finlandia o del Portogallo. Un export dove proprio le imprese di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia sono autentiche protagoniste. E ancora, il monte salari generato dalla manifattura lombarda è pari a 28 miliardi di euro, cioè oltre 1/4 di quello dell’intera industria manifatturiera italiana. Nettamente superiore a quello delle manifatture di intere nazioni come la Svezia, il Belgio o la Danimarca. Questo territorio ha la forza di uno Stato intero: la politica ha la responsabilità di esserne pienamente consapevole. È da qui, infatti, che passa e si costruisce il futuro e la forza dell’economia. È da qui che si costruisce la politica industriale nazionale ed europea».

L’economia italiana è cresciuta di più di quella mondiale nel suo complesso: un nuovo piccolo «miracolo economico» grazie alla nostra manifattura

«La pandemia prima, il conflitto Russia-Ucraina poi, unitamente al caro energia e all’emergenza materie prime e semilavorati, sono stati i fattori che hanno determinato un clima di forte incertezza con cui l’Europa e l’Italia hanno dovuto fare i conti. Un contesto che ha messo a dura prova la tenuta delle imprese che, nonostante tutto, hanno fatto uno sforzo immenso per salvaguardare la loro attività e vincere le sfide sui mercati internazionali. L’industria manifatturiera del nostro paese, dopo aver contribuito con una crescita del 14,1% del suo valore aggiunto alla ripresa economica del 2021, nel 2022 è aumentata ancora dello 0,3%. A questo si aggiunge la crescita del Pil dello 0,6% nel primo trimestre di quest’anno: più di Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e anche degli Stati Uniti. E ancora nel 2022 l’export manifatturiero ha segnato il record di 594 miliardi di euro su un totale di 625 miliardi. Un nuovo piccolo «miracolo economico» reso possibile dalla reattività e competitività della nostra manifattura. I nostri territori, come sempre, hanno fatto la loro parte, reagendo alle difficoltà con maggior forza rispetto agli altri, in Italia e in Europa. Anche le ultime previsioni sul Pil delle più grandi regioni europee confermano la nostra crescita. A fine 2023 la Lombardia si troverà al 4,3% sopra i livelli pre-pandemia, il Baden-Württemberg sarà sotto dello 0,9%, la Baviera sopra solo dello 0,5%, mentre la Catalogna sarà tornata ai livelli di cinque anni fa».

Serve rafforzare l’Unione Europea per affrontare annuvolamento scenario mondiale

«Ci troviamo però dinnanzi a tempi di grandi incertezze, sia di breve sia di lungo periodo con un serio annuvolamento dello scenario europeo e mondiale. C’è da chiedersi dove ci porterà una politica monetaria di rialzi dei tassi di interesse da parte della Bce così forte e concentrata nel tempo, mentre le nostre imprese stanno ancora scontando i rincari dei prezzi delle materie prime e dell’energia. Ma l’attuale rallentamento della nostra produzione industriale dipende anche da cause “interne” all’Unione. Per non disperdere il patrimonio di progressi e di crescita che abbiamo accumulato negli ultimi anni, siamo consapevoli che serve rafforzare l’Unione Europea e dotarla di capacità autonome per promuovere beni pubblici europei. Con la pandemia e la guerra abbiamo capito che i rischi devono essere socializzati, che nessun Paese europeo può essere sovrano da solo. In questo senso il varo del Next Generation EU, il Sure e il temporaneo allentamento del Patto di Stabilità hanno rappresentato un concreto cambio di passo rispetto ad un passato in cui i dogmatismi dei rigidi vincoli di bilancio e dell’austerità sembravano essere l’unica opzione possibile. Purtroppo, questo atteggiamento sembra già aver fatto il suo corso, forse anche per l’avvicinarsi della scadenza del mandato di questa Commissione Europea e per i connessi tatticismi elettorali. Mi riferisco, per esempio, alle nuove e molto dibattuto regole sui conti degli Stati. Infatti, una volta passata l’emergenza è corretto tornare a schemi di equilibrata finanza pubblica, ma per raggiungere una reale stabilità e soprattutto la crescita serve poter investire. E per investire, non puoi avere le mani legate».

Svincolare gli investimenti strategici per il paese dal Patto di Stabilità

Per la premier Giorgia Meloni è prioritaria la sfida degli investimenti nel patto UE

«Chiedo, quindi, al presidente Meloni di promuovere un forte sforzo per far passare, a livello europeo, il principio per cui gli investimenti strategici per il paese non siano sottoposti al Patto di Stabilità. Mi riferisco, per esempio, al caso della sanità, uno dei molteplici settori in cui i nostri territori rappresentano un’eccellenza del modello di collaborazione tra pubblico e privato. La Lombardia, con oltre 210 milioni di euro di finanziamenti, è la prima regione in Italia per contributo dell’Unione Europea alla ricerca sulle scienze della vita. Una filiera che genera 27 miliardi di valore aggiunto l’anno e che, comprensiva di indotto, pesa per il 13% del Pil regionale. Tutti investimenti che nella filiera della salute generano crescita, benessere, coesione sociale, ricerca, innovazione, tech transfer e nuova industria, per il territorio, per il paese, per l’Europa e che, di conseguenza, non dovrebbero essere sottoposti al Patto».

Occorre una politica industriale europea in risposta ai piani di Usa e Cina

«I dati della Banca Mondiale mostrano che la produzione manifatturiera europea senza l’Italia sarebbe inferiore rispetto a quella americana di oltre 280 miliardi di dollari e senza la Francia lo sarebbe di 230 miliardi. Questo conferma che l’industria europea è una squadra fatta di tante manifatture nazionali profondamente connesse tra loro. Alla vigilia delle nuove importanti sfide per l’industria mondiale, l’Europa sembra però non avere ancora una precisa strategia unitaria, né sulle opzioni tecnologiche né sui futuri approvvigionamenti di materie prime. Ci siamo smarcati dalla dipendenza dal gas russo, ora però si profila all’orizzonte la subordinazione della Cina per terre rare e le batterie elettriche, mentre gli Stati Uniti hanno stanziato enormi risorse (Inflation Reduction Act) per stimolare gli investimenti green, il reshoring e attrarre investimenti produttivi. In uno scenario in cui i due maggiori competitori mondiali stanno facendo di tutto e di più per proteggere e rafforzare i loro sistemi produttivi, l’Europa sembra non avere una politica industriale unitaria precisa. Inoltre, con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali, sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee”.

Transizione ecologica: il costo non ricada sulle imprese, serve fondo sovrano comunitario basato sulla emissione di Eurobond

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha analizzato gli obiettivi di riduzione delle emissioni

«Come sottolineato dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi, non intendiamo mettere in discussione gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Ma pensiamo sia del tutto irragionevole l’accelerazione ambientale impressa dalla Commissione Europea, che sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica. Di fatto, l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna. Per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico, anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici, e l’idrogeno, di cui proprio il nostro territorio è attore all’avanguardia. L’Europa possiede le tecnologie industriali energeticamente più efficienti e le maggiori capacità di riciclo. Si prenda anche il caso dell’acciaio, settore in cui l’Europa e soprattutto il nostro territorio possiedono le più moderne tecnologie con ridotte emissioni e un elevato tasso di riutilizzo di rottami. Se l’Europa fosse costretta a rinunciare a parte della sua produzione di acciaio e se tale produzione si trasferisse in Cina, ci troveremmo nella condizione di «esportare lavoratori e di importare Co2», come ben detto dal presidente di Eurofer, Francesc Rubiralta Rubio. Un altro esempio importante riguarda le politiche per la qualità dell’aria. Abbattere in modo significativo le emissioni inquinanti in Lombardia, infatti, è sicuramente un obiettivo, ma seguire l’impostazione della direttiva della Commissione Europea significa che per ridurre le emissioni inquinanti dell’80% va eliminato il 75% delle attività industriali. E questo non sarebbe ancora sufficiente. Siamo fortemente convinti che ridurre le emissioni sia un bene pubblico, ma per poterlo fare nei modi e nei tempi imposti da Bruxelles servono strumenti finanziari comunitari adeguati. Per noi la risposta è un fondo sovrano basato sulla emissione di Eurobond. L’Unione Europea dimostri solidarietà e spirito comunitario anche nei confronti della transizione ecologica, sfida globale raggiungibile solo se giocata sul piano europeo».

Pnrr: impostazione da rivedere per non perdere progetti virtuosi come la ‘Casa degli Its’ a Milano

L’assemblea ha visto anche gli interventi di Giorgia Meloni, Thierry Breton, Carlo Bonomi, Attilio Fontana e Giuseppe Sala

«Siamo consapevoli che abbiamo una responsabilità nei confronti di tutta l’Unione: se il debito comune europeo continuerà a essere emesso dipenderà soprattutto da noi. L’attuazione del Pnrr è uno spartiacque: vanifica o, al contrario, concretizza le ambizioni dell’Europa che vogliamo. Conosciamo bene i problemi di impostazione, di tempi e di esecuzione materiale che il Pnrr comporta. Vi faccio un esempio che ci tocca direttamente: come Assolombarda, insieme a Comune di Milano e Regione Lombardia, stiamo lavorando alla costruzione di una ‘Casa degli Its’ che raccolga in un’unica sede tutti gli Its operanti nel territorio. È un’operazione strategica perché la formazione tecnica garantisce una occupabilità di oltre l’80%. Bene: il Pnrr ha tra i suoi obiettivi quelli di favorire la formazione tecnica per mezzo degli Its, ma concede risorse solo per la riqualificazione degli edifici e non, come servirebbe nel nostro caso, per una nuova costruzione. È evidente che ci sia un problema di impostazione a monte del Piano che non segue la logica del buonsenso e della qualità dei progetti ma, al contrario, mette inutili paletti».

Pnrr: trasformare le risorse inutilizzate in crediti d’imposta alle imprese

«Quando parliamo di Pnrr ci riferiamo a una miriade di rivoli di spesa, secondo una cattiva abitudine italiana volta alla perenne ricerca del consenso politico sul territorio e di una moltitudine di stazioni appaltanti, tra cui anche tanti piccoli comuni senza organizzazione tecnica. Oggi spetta al Governo il compito di trovare una soluzione per rivedere il Piano da concordare con l’Europa. In tal senso, proponiamo che si trasformino le risorse che non riusciremo a scaricare a terra nello stesso strumento usato dall’Ira americano: i crediti d’imposta alle imprese. Di fatto è lo stesso modello alla base di Industria 4.0, l’unico vero piano di politica industriale degli ultimi anni che ci ha dato una svolta epocale in termini di competitività».

Costruire politica industriale comunitaria per scongiurare de-industrializzazione manifattura

«Il nostro futuro passa innegabilmente per la costruzione di una politica industriale comunitaria che negli ultimi decenni non c’è stata. A titolo di esempio, guardiamo all’energia. Diventa difficile giustificare la costruzione di una nuova fabbrica – per esempio – di batterie quando in Europa l’energia costa 5 volte di più rispetto a Usa e Cina. Oltretutto dobbiamo considerare che l’Italia era leader nel settore nucleare e terza al mondo per capacità installata e ancora oggi paghiamo il prezzo della rinuncia a questa tecnologia. Dobbiamo agire come Paese e come Unione Europea per costruire una politica industriale comunitaria di lungo respiro sui principali dossier strategici. Non possiamo più perdere tempo se non vogliamo correre il rischio di una de-industrializzazione della nostra manifattura».

 














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