Additive manufacturing in fabbrica: il punto e le novità

di Renzo Zonin ♦︎ Automotive, meccanica, aerospazio, medicale... La stampa 3D – che secondo Idc nel 2019 valeva globalmente 27 miliardi di dollari – ha conquistato ogni settore. I casi di Brembo, Dallara, Streparava, Avio Aero, Leonardo Helicopters, LimaCorporate

Cosa vi viene in mente quando leggete “manifattura additiva” o “Stampante 3D”? Pensate a una tecnologia sperimentale, buona sì e no per realizzare prototipi e modellini, e comunque troppo costosa? Abbiamo una buona e una cattiva notizia per voi: quella buona è che sono in tanti a pensarla così. Quella cattiva è che si tratta di convinzioni sbagliate. L’additive manufacturing è un settore che secondo Idc cubava nel 2019 poco meno di 27 miliardi di dollari a livello mondiale, con una crescita in Europa intorno al 30% annuo, anche se negli ultimi mesi l’effetto pandemia ha temporaneamente rallentato il trend.

La stampa 3D ha già 25 anni di storia tecnologica alle spalle, è concorrenziale come costi e viene usata da centinaia di aziende non solo in prototipazione, ma anche in produzione. In Italia, leader di mercato e aziende di eccellenza hanno introdotto tecnologie additive. Nomi come Brembo, Dallara e Streparava nell’automotive, o Avio Aero e Leonardo Helicopters nell’aerospaziale, o LimaCorporate nel medicale. Ma la impiegano anche piccole o piccolissime società dotate di know-how molto specifici nei propri settori, da Zare attiva nella progettazione aerospace, a Isinnova, service di progettazione CAD e stampa, passando per laboratori universitari come il T3Ddy di Unifirenze che ha messo la stampa 3D al servizio dei chirurghi.







Pregiudizi e realtà

Al laboratorio T3Ddy dell’Università di Firenze la stampa 3D viene usata per riprodurre modelli in scala reale degli organi sui quali i chirurghi dovranno operare, per produrre strumenti, e nelle ore libere anche per far giocare i piccoli pazienti dell’Ospedale Pediatrico Meyer

Negli ultimi anni, ci è capitato diverse volte di partecipare ad eventi dedicati, a volte in via esclusiva, alla manifattura additiva. E invariabilmente, ci siamo trovati a incontrare un pubblico, spesso costituito esclusivamente da addetti ai lavori, che considerava la stampa 3D come qualcosa di più simile alla fantascienza che alla tecnologia. Alcuni la consideravano come una sorta di eterna promessa, alla stregua dei reattori nucleari a fusione, che da mezzo secolo saranno “disponibili tra vent’anni”. Altri, nel migliore dei casi, la ritenevano una tecnologia utile al più per realizzare modellini e prototipi. E praticamente tutti erano inoltre convinti che si trattasse di macchine e tecnologie molto costose.

Ma a ogni evento, a ogni convegno, a ogni conferenza, queste persone si sorprendevano a scoprire che si trattava di pregiudizi. A livello mondiale, ma anche in Italia, la manifattura additiva viene già usata da tante aziende, con ottimi risultati, sia in prototipazione che in produzione. Le macchine sono ampiamente disponibili – in Italia, l’ultima indagine effettuata (2018) indicava che erano in vendita 400 diversi modelli fra stampanti per polimeri e per metalli, prodotti da un centinaio di fabbricanti, una trentina dei quali italiani – e hanno prezzi decisamente competitivi, sebbene estremamente variabili secondo la tecnologia impiegata, la precisione, le dimensioni eccetera. Di fatto, la gamma di prezzi parte dal centinaio di euro per la stampante in kit fai-da-te a filamento da comprare in China, agli oltre 100mila euro per i modelli più sofisticati di stampanti industriali per metalli.

Ma la cosa più interessante è che la tecnologia è competitiva rispetto alle tradizionali tecniche sottrattive, anche se ancora non in tutti i contesti nella stessa misura. Ma in linea di massima possiamo dire che la competitività non dipende tanto dal settore d’impiego, quanto dalla modalità di adozione della tecnologia: se ci si limita a riprodurre in additivo gli stessi pezzi che prima si producevano in sottrattivo, raramente si avranno vantaggi tangibili. Che invece arrivano quando si progettano (o riprogettano) i pezzi pensando al nuovo metodo di produzione. Chi l’ha fatto, in genere ha osservato diversi vantaggi concreti: maggiore facilità nella realizzazione di pezzi complessi, costi più bassi, maggiore versatilità e così via. Abbiamo messo insieme una panoramica di aziende, operanti in Italia e divise per settore, che stanno utilizzando la manifattura additiva nl modo giusto, e se ne stanno avvantaggiando. Molte di queste aziende hanno illustrato le loro esperienze al Forum sulla Manifattura Additiva organizzato al Politecnico di Milano da Messe Frankfurt, in collaborazione con FormNex (la maggiore manifestazione europea del settore), qualche settimana prima dell’inizio della pandemia.

 

L’automotive & meccanica

Le pinze dei freni della supercar Bugatti Chiron è uno dei più grandi pezzi 3D montati su automobili. Sono prodotte in tecnologia Selective Laser Melting in titanio Ti6Al4V. La scocca in fibra di carbonio della Bugatti è prodotta negli stabilimenti di Dallara, che si è occupato anche delle versioni più sportive della fuoriserie

Il settore dell’auto apparentemente non sembra promettente per la stampa additiva, fatto com’è di grandi numeri ed economie di scala. Tuttavia, anche nell’automotive esistono piccole produzioni ed eccellenze. Per esempio nel segmento delle auto sportive, dove a numeri piccoli si accompagnano elevate richieste prestazionali. E poi, come già detto e ribadito da più parti, le stampanti 3D hanno un range di utilizzi che va ben oltre la produzione.

Non stupisce quindi di trovare fra gli utilizzatori di 3D printing aziende come la bergamasca Brembo, produttrice di sistemi frenanti ad alte prestazioni, che vengono montati su auto da corsa e i top di gamma della serie di marchi come Ferrari, Lamborghini, Pagani, Cadillac, Abarth, Corvette eccetera. Da poco più di un anno, Brembo ha introdotto l’additive manufacturing in azienda per la produzione dei consumabili. «Produciamo piccoli lotti ma con svariate tipologie di prodotto – ha dichiarato Claudio Locatelli, automation and special projects manager di Brembo – quindi le tecnologie dell’industria 4.0 che guidano il passaggio dalla mass production alla mass customization fanno al caso nostro».

In Brembo le stampanti 3D sono state introdotte non tanto nella produzione dei prodotti finiti, quanto a supporto delle linee di produzione, alla stregua di trapani o altri strumenti usati dai manutentori. Il tutto previo ovviamente un periodo di formazione, trattandosi di strumenti nuovi. Le macchine in uso sono semplici dispositivi a deposizione di filamento e producono particolari in polimero, principalmente pezzi di ricambio per le linee di produzione. «Produrre internamente determinati ricambi riduce i tempi – commenta Locatelli – inoltre se vogliamo modificare un particolare, possiamo riprogettarlo, realizzarlo e provarlo nel giro di tre giorni, e questa velocità ci permette di sfruttare buone idee che altrimenti andrebbero perse se dovessimo usare metodi tradizionali». L’azienda però non nega di pensare, per il futuro, alla stampa dei particolari metallici, anche se ancora in un’ottica di processo – ovvero parti per le linee di produzione, e non per i prodotti.

Una bilella tradizionale (a sinistra) confrontata con quella progettata per la stampa 3D da Streparava (a destra). Il pezzo realizzato con manufattura additiva è fino al 45% più leggero del pezzo tradizionale, mantenendo le stesse caratteristiche di resistenza

Altra azienda di punta dell’automotive italiano è Dallara, nome poco conosciuto al grande pubblico ma ben noto a chi è del mestiere: La Dallara è l’azienda che si cela dietro la maggior parte delle auto da corsa più titolate degli ultimi quarant’anni. Realizza i telai delle macchine di Formula E, di Formula Indy, di Formula 3, alcune auto di Formula 1 (per esempio la Haas), le fuoriserie Bugatti Veyron e via discorrendo. Il Museo aziendale è uno spettacolo da vedere per ogni appassionato di corse.

Dallara ha una speciale expertise nel segmento dei materiali compositi, in particolare sulla fibra di carbonio – il cui metodo di produzione è, di fatto, intrinsecamente additivo: banalizzando, si tratta di sovrapporre sottili strati di materiale (la fibra di carbonio appunto) intercalati con speciali resine, realizzando un “sandwich” che va poi compattato e a cui va data la forma necessaria. A questo punto il materiale viene “cotto” in speciali autoclavi e assume le caratteristiche di robustezza e rigidità che, insieme alla leggerezza, lo rendono preferibile all’acciaio nella costruzione di auto ad alte prestazioni. In Dallara vengono poi usate vere e proprie stampanti 3D, principalmente per la realizzazione di prototipi in scala da usare per le misurazioni in galleria del vento. Parliamo sempre di stampa di polimeri. Recentemente, Dallara ha messo la sua expertise nel settore della progettazione 3D e stampa additiva a disposizione della lotta al Coronavirus: i suoi progettisti e disegnatori CAD 3D hanno infatti collaborato gratuitamente con l’Ospedale di Parma per migliorare il progetto del raccordo, realizzato a Brescia, che permette di trasformare una maschera da snorkelling in un respiratore. I progetti del raccordo, elaborati dai tecnici Dallara, sono disponibili gratuitamente a chiunque voglia utilizzarli o modificarli ulteriormente.

Chi sta puntando invece direttamente sulla stampa 3D dei metalli è Streparava, azienda bresciana specialista nella produzione di componenti per powertrain e chassis. In particolare, l’azienda è conosciuta nel mondo per i sistemi di sospensioni. Silvia Cecchel, innovation and advanced engineer dell’azienda, ha spiegato che uno degli obiettivi più importanti nei prossimi anni sarà l’alleggerimento dei veicoli, e quindi dei pezzi relativi alla meccanica, mantenendo ovviamente le doti di resistenza e affidabilità. Per questo Streparava ha usato il 3D printing di metalli per un progetto innovativo con l’obiettivo di ripensare e riprogettare una componente meccanica (in particolare una biella) in modo da assicurare massima leggerezza e performance al motore. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione di EOS, produttore di macchine per la manifattura additiva, e il risultato è stata una biella che è più leggera del 15% rispetto allo stesso pezzo prodotto in titanio, e del 45% rispetto al pezzo omologo fuso in acciaio.

 

L’aerospaziale

La Avio Aero, operante nell’aerospace, ha realizzato a Cameri una delle maggiori installazioni italiane di manifattura additiva per metalli, forte di oltre 50 stampanti impiegate per produrre componenti atte al volo, comprese le palette delle turbine dei motori d’aereo

Se nell’automobile la manifattura additiva riguarda principalmente piccole serie e prodotti di eccellenza, nell’aerospace – un settore di punta dove l’innovazione tecnologica è all’ordine del giorno – gli utilizzi del 3D printing si stanno rapidamente moltiplicando. E spesso riguardano componenti fra le più critiche, ovvero quelle che permettono agli aerei di volare. I motori, per esempio. La Avio Aero, con sede principale a Rivalta di Torino, produce fra l’altro motori a reazione e componentistica di volo per l’aerospaziale. Da una decina d’anni, l’azienda impiega tecnologie additive come la Laser Metal Deposition, il Selective Laser Melting, e l’Electron Beam Melting per la stampa di componenti metallici destinati a utilizzi altamente critici.

Un esempio particolarmente significativo è la produzione delle palette delle turbine dei motori a reazione, componenti che è sottoposto a sforzi elevati e che quindi deve garantire la sicurezza di funzionamento al 100%. Le pale, in una lega di titanio e alluminio, escono dalla fabbrica di Cameri, dove operano le oltre 50 stampanti in dotazione all’azienda – si tratta probabilmente di una delle più grandi “farm” di 3D printing in Italia, tanto che l’azienda si propone anche come partner di progettazione e produzione per conto terzi.

Altre aziende del settore hanno fatto scelte meno radicali. La Leonardo Helicopters per esempio è in grado di produrre internamente molte componenti destinate al volo usando tecnologie di stampa 3D; tuttavia, mentre la parte di progettazine o riprogettazione del pezzo necessaria per sfruttare al meglio le caratteristiche dell’additivo viene fatta internamente, la produzione vera e propria può essere fatta internamente o esternamente in base a considerazioni di business.

Il motore a razzo M10, funzionante a ossigeno e metano, equipaggerà il futuro missile Vega E. Sviluppato da Avio Aero e altri partner per conto di ASI e ESA,viene definito “il primo motore in 3D” per l’esteso impiego di parti in additivo, compresa la camera di combustione recentemente collaudata con successo al Marshall Space Center della NASA

Un utilizzo ancora più spinto del 3D printing nel settore aerospaziale è quello che sta facendo l’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) in collaborazione con l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) nell’ambito del progetto Vega. Il missile Vega (la sigla sta per Vettore Europeo di Generazione Avanzata) nasce per portare in orbita piccoli satelliti. Nel 2025, la nuova versione E del missile verrà equipaggiata con un motore a razzo di nuovo tipo, chiamato M10 e in sviluppo presso l’Avio per conto di ASI, insieme ad altri partner italiani ed europei. Il motore M10 è interessante per almeno due motivi: primo, forse un po’ futuristico, funziona a ossigeno e metano, una tecnologia scelta oggi perché riduce consumi e inquinamento, ma che una volta consolidata dovrebbe permetterci di realizzare vettori capaci di viaggiare nel sistema solare esterno “raccogliendo” il carburante già presente sui pianeti e i satelliti lungo la strada, consentendo un salto in avanti delle capacità di range e carico per i futuri vettori interplanetari.

E secondo, più interessante per noi, è il primo motore a razzo la cui camera di combustione è costruita interamente con tecnologie additive. Lo sviluppo è portato avanti da un gruppo di piccole e grandi aziende di punta, con particolare expertise nella manifattura additiva ad alta prestazioni, ciascuna delle quali si focalizza su specifiche parti o dettagli del motore. Per esempio, aziende come Zare che ha realizzato la piastra di iniezione utilizzando una superlega di Nickel caratterizzata da un’alta resistenza all’usura e alla rottura, oltre a una elevata resistenza termica. Secondo i responsabili dell’azienda, l’uso della tecnologia additiva ha permesso l’ottimizzazione dei costi e dei tempi di progetto, garantendo inoltre maggiore flessibliità e versatilità. L’additive manufacturing ha permesso di realizzare questo componente molto complesso in sole 2 parti, poi unite con un unico processo di saldatura, mentre con la tradizionale tecnologia si sarebbero dovute realizzare decine di parti diverse, e sarebbero poi occorse decine e decine di ore di saldature e processi meccanici.

 

Il medicale

Il Trabecular Titanium è un materiale utilizzato dalla LimaCorporate per la produzione di protesi in stampa 3D. La sua struttura imita quella dell’osso trabecolare, consentendo di realizzare pezzi leggeri e resistenti come l’originale

Un altro settore nel quale le potenzialità della stampa 3D possono fare la differenza è il medicale. Si tratta di un settore nel quale la personalizzazione è fondamentale: la produzione di protesi, per esempio, così come quella di stent o altri dispositivi da usare sui pazienti, deve davvero essere “personalizzata” a livello di singola persona. E la stampante 3D permette proprio cose di questo tipo: per esempio, invece di avere un catalogo di protesi per l’anca che contiene 8/10 misure standard, da adattare alle effettive misure del paziente, sarebbe perfettamente possibile avere un progetto parametrizzato che permetterebbe di realizzare, per ogni paziente, uno e un solo esemplare di protesi con le sue misure precise. Ed è quello che da tempo fa, per esempio, la friulana LimaCorporate che produce fra l’altro protesi per l’anca realizzate su stampanti Arcam (ora nel gruppo GE) con tecnologia Electron Beam Melting. Le protesi della linea Delta TT sono realizzate in Trabecular Titanium, un biomateriale che imita la morfologia dell’osso trabecolare, caratterizzata da una struttura cellulare tridimensionale esagonale. Questo tipo di protesi sono già state impiantate su oltre 100mila pazienti nel mondo, e in Italia in particolare la Fondazione Livio Sciutto di Savona, con il professor Guido Grappiolo, ha all’attivo oltre 600 interventi di questo tipo. Ma si può fare molto altro. Il laboratorio T3Ddy di UniFirenze, per esempio, ha introdotto l’uso della stampante come ausilio ai chirurghi. La macchina può infatti stampare modelli in scala reale degli organi interni dei pazienti a partire dai dati diagnostici delle TAC, consentendo al chirurgo di avere in mano una riproduzione esatta dalla conformazione dell’organo sul quale dovrà operare. Non un modello generico dunque, ma l’esatto organo da esaminare, riprodotto con tutte le sue particolarità. Il laboratorio sta usando la macchina anche per sperimentare la produzione di parti meccaniche di ausilio e di parti impiantabili (stent eccetera), in vista di un utilizzo “sul campo”. E quando non viene usata dal laboratorio per le sperimentazioni, la macchina viene usata dai piccoli pazienti del reparto pediatrico per giocare, divertirsi e… impratichirsi delle tecniche di produzione additiva. Con l’evoluzione dei materiali di consumo, in futuro potrebbe essere possibile realizzare organi artificiali sostitutivi – molti laboratori nel mondo stanno già sperimentando in questa direzione.

Una dimostrazione pratica delle possibilità della tecnologia nella sanità l’abbiamo avuta di recente, quando una valvola prodotta nel giro di 24 ore ha salvato la vita a decine di pazienti degli ospedali di Brescia, dove erano finiti i ricambi per i respiratori polmonari, con il produttore impossibilitato a fornirne prima di settimane. Tutto è partito da un appello urgente dell’ospedale di Chiari, raccolto dal team di Isinnova, alla quale in seguito si sono affiancate altre realtà della stampa 3D – Isinnova aveva a disposizione “solo” sei stampanti e il volume di produzione richiesto era dell’ordine di qualche centinaio di pezzi nel giro di qualche giorno. Dopo le iniziali resistenze e minacce del produttore di respiratori, che ha minacciato i bresciani di far loro causa per violazione di brevetto, copyright eccetera, costringendo i tecnici a fare il reverse engineering e ricreare da zero i file CAD del dispositivo, le cose sono filate abbastanza bene, e al momento denunce non ne sono arrivate. I prototipi, stampati in acido polilattico, hanno funzionato praticamente da subito, e in seguito sono stati affiancati da altre valvole realizzate in Poliammide 12 caricato ad alluminio, e ancora altre fatte in resina sensibile alla luce. Il progetto è poi stato ulteriormente modificato e migliorato, dopo la primissima fase di emergenza, grazie anche all’aiuto di progettisti esperti di altre aziende, come per esempio Dallara. «Abbiamo risposto ad una richiesta d’aiuto, lavorando gratuitamente – ha spiegato Cristian Fracassi, fondatore di Isinnova, intervistato dall’Ansa – e stiamo anche sviluppando altri apparecchi per questa emergenza. Ricordo che queste valvole non sono valide come le originali e non hanno la certificazione di idoneità, ma possono essere usate solo in situazioni di emergenza, quale è questa in cui ci troviamo». E infatti dopo le valvole per i respiratori, c’è stato il bis, quando pochi giorni dopo è stato reso pubblico il progetto CAD per trasformare le maschere da snorkelling prodotte da Decathlon in respiratori. Anche qui, si tratta fondamentalmente di un raccordo da stampare in materiale polimerico usando una normale stampante 3D, affiancato da minime modifiche alla maschera, che deve essere dotata di cinghie più robuste che la mantengano ben premuta sul viso del paziente – nelle normali condizioni d’uso, questa funzione viene svolta dall’acqua del mare.














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