Aziende industriali & skill shortage: people strategy, il metodo Vertus per uscire dell’impasse

di Marco De' Francesco ♦︎ Per avere successo nell' attirare persone di valore e nel fare crescere quelle che già ci sono, l’azienda deve avere una vision definita. L’assessment, il coaching, l’upskilling, il reskilling. La finanza agevolata e la reindustrializzazione. Ne parliamo con Marco Filippo Martinengo

Se un’azienda manifatturiera non riesce a trovare personale competente o a formare quello che ha in casa, non è sempre colpa del destino. Le categorie dell’ineluttabile e dell’imponderabile non c’entrano. Può fare una certa differenza, invece, il fatto di avere o non avere posto in essere una people strategy, che parta da una definizione certa: la propria vision. Che cosa vuole essere, fare, e rappresentare l’azienda dentro uno specifico contesto sociale? Questa, infatti, non è che un insieme di persone e di valori, attorno ai quali si può promuovere un processo di identificazione corale, che è la base per essere attrattivi. Senza una visione chiara, forte, riconoscibile, tutte le operazioni di attraction e improvement, nel medio-lungo periodo, sono destinate al fallimento. Lo pensa Vertus, gruppo di società di consulenza con servizi integrati a supporto della trasformazione di aziende, persone e processi; nonché tra i primi operatori in Italia nel campo della reindustrializzazione di stabilimenti produttivi.

Ora, la vision definita è necessaria, ma non è sufficiente. C’è bisogno che “funzioni”, e cioè che sia in grado di alimentare sinergie e abilitare il cambiamento. La funzione HR è chiamata a essere catalizzatore e «armonizzatore» di un processo di intelligenza collettiva – il cambiamento – che rende le persone consapevoli e protagoniste. L’azienda, così, diventa il luogo dove ognuno può, davvero, tendere all’auto-realizzazione. Occorre valutare il grado di compatibilità tra la vision e la specificità dell’azienda da una parte e le caratteristiche individuali del dipendente dall’altra. In un certo senso, l’azienda deve capire su chi puntare e investire. Solo allora pare economico e fruttuoso porre in essere tutte quelle attività formative come il coaching, l’upskilling e il reskilling, di cui abbiamo parlato con l’Head of HR Solutions in Vertus Marco Filippo Martinengo







    

D: Gap di competenze. C’è chi sostiene che si sia aggravato. È aumentata la domanda mentre l’offerta è stabile sul basso. Che si può fare in azienda? Formazione, Reskilling, upskilling? In quali casi si riesce a coprire il gap? In quali no? Come fare perché funzioni?

l’Head of HR Solutions in Vertus Marco Filippo Martinengo.

R: Il problema è più ampio. La domanda di competenze specializzate e plug & play per l’industria è definita, ma anche in continua evoluzione. Certo, l’offerta è insufficiente; ma c’entra anche l’istruzione, il cui sistema non è allineato con le esigenze del mondo del lavoro. E poi, il gap riguarda sia le competenze hard che quelle soft. Le prime sono quelle così cruciali, ad esempio, nella rivoluzione dell’Ict e del Digitale: Big Data, Cyber Security, solo per fare due esempi. Gli stessi atenei faticano a rimanere al passo in materia. Sempre in relazione alla manifattura, si pensi alla robotica o alla meccatronica. Quanto alle seconde, si riferiscono a capacità non propriamente tecniche; piuttosto, alle modalità di rapportarsi con gli altri o di confrontarsi con le necessità stesse del cambiamento e dell’innovazione. Forse, in termini di soft skills, il gap è ancora più importante. Anche qui, il modello scolastico ha un peso. I programmi sono magari ricchi, ma “fermi”, non in evoluzione; le metodologie didattiche, ancora troppo spesso, puntano a dare un perimetro netto a ciascuna disciplina e limitano, in questo modo, il modo di conoscere il mondo. Nel lavoro, poi, raramente si seguono schemi così precisi, perché ci sono sempre imprevisti da affrontare; è un contesto complicato e fluido, dove l’abitudine alla regolarità non paga. E quando usciamo dalla scuola per entrare nel mondo del lavoro – diciamocelo – non siamo davvero preparati a tutto ciò. Il problema, poi, non è tanto quello dell’assenza o dell’insufficienza di una certa competenza, quanto dell’inabilità o dell’indisponibilità ad apprenderla. La domanda, inoltre, non sempre è coerente con le esigenze dei giovani.

D: In che senso la domanda non è sempre coerente con le esigenze dei giovani?

R: Senza generalizzazioni troppo strette, anche perché si è detto e scritto molto su questo tema, potremmo dire ad esempio che i boomers entravano in azienda con la precisa idea di “fare carriera”. Ora il modello culturale è cambiato: la carriera non per forza interessa. Contano notoriamente anche altre cose: clima aziendale, tematiche off topic, rapporti interni, flessibilità, temi Esg (enviromental, social, governance; in sintesi, argomenti relativi alla sostenibilità ambientale e sociale; Ndr). Il giovane vuole sentirsi parte attiva dell’azienda portandovi dentro istanze di soddisfazione dei propri valori che, certamente, c’erano anche in passato ma, oggi, sono visibilmente più esigenti, variegate, volubili. In aziende che perpetuano modelli organizzativi e culturali tradizionali si registra, non a caso, una certa difficoltà delle nuove generazioni nell’assumere responsabilità: è perché non hanno “voglia di fare”, come spesso sentiamo lamentare a manager e imprenditori, o perché non ci credono, perché non si identificano? 

Con la sua people strategy, Vertus non si rivolge solo a grandi aziende e pmi, ma anche a singoli professionisti

D: Qual è dunque la soluzione per essere più attrattivi e per disporre di un personale preparato?

R: Anzitutto, occorre un approccio diverso, sia per diventare più attrattivi che per la formazione. Bisogna lavorare sulla specificità del contesto aziendale: valori, collocazione geografica, modello produttivo e altro. Gli strumenti formativi vanno messi a terra in rapporto a questi fattori. Ad esempio, una cosa è un’azienda giovane, digitalizzata, con sede in città; un’altra è un’impresa storica, di provincia, magari familiare. Quindi, la prima regola è quella di non utilizzare un approccio standard, “a catalogo”, per così dire. Questo perché se le aziende sono davvero fatte di persone, come tutti amiamo dire e sentirci dire, allora le sinergie tra le persone costituiscono il vero valore delle imprese. Il cambiamento è continuo, pervasivo, in accelerazione costante: il supporto che si può offrire nell’affrontarlo dipende molto dai citati fattori e deve essere coerente nelle modalità.

Il metodo Vertus

D: Quanto conta avere una People Strategy e perché?

R: È fondamentale, ma occorre fare un chiarimento. La people strategy non è una strategia della funzione Hr, delle risorse umane, ma quella dell’azienda per tutte le sue persone, che costituiscono l’asset più importante. È strategico, sotto questo profilo, partire dalla visione dell’azienda – cosa vuole essere o rappresentare. Se la visione non è forte e radicata, è più difficile ottenere buoni risultati. Se le persone non sposano la visione, se non si riconoscono nei valori dell’impresa, è tutto più complesso e – a lungo andare – antieconomico, sia in termini di attrattività che formativi. E poi una visione deve “funzionare”.

La people strategy non è una strategia della funzione HR, delle risorse umane, ma quella dell’azienda per tutte le sue persone, che costituiscono l’asset più importante

D: In che senso la visione dell’azienda deve funzionare?

R: La visione funziona quando abilita i cambiamenti, quando li ispira perché è in grado di porre il focus su un valore realmente condiviso; e quando alimenta le sinergie, in un contesto dinamico. Ecco perché è importante dare voce anche e soprattutto a chi pone istanze nuove, che sembrano non trovare risposta nei modelli tradizionali.

D: Chi dovrebbe far funzionare la vision?

R: Ciascun manager o imprenditore, agendo la soft skill forse più difficile di tutte: l’ascolto. Ma se vogliamo vederla da un punto di vista meno tradizionale e verticale, ognuno di noi è chiamato a questo compito “corale”, indipendentemente dal ruolo e dalla responsabilità. Oggi si parla molto del team come unità minima dell’organizzazione. Se la visione è forte e funziona, per esempio appunto dentro un team, allora si può dar vita con una certa garanzia di successo anche alla formazione continua.

L’azienda deve capire su chi puntare e investire. Solo allora pare economico e fruttuoso porre in essere tutte quelle attività formative come il coaching, l’upskilling e il reskilling

D: E quali servizi dovrebbero essere attivati?

R: Anzitutto, si tratta di capire quali siano le migliori attitudini e qualità delle persone; poi bisogna misurarne l’allineamento con le caratteristiche dell’azienda, sulla scorta di un modello predittivo di successo. Se una persona possiede talune predisposizioni e si riconosce nella visione, è più probabile che apporti valore nel contesto specifico.

D: Può fare un esempio, per capire?

R: Senz’altro; anche in questo caso, però, chiarendo che non si dovrebbe mai generalizzare. In un’azienda familiare o nella start-up i confini dell’attività dei singoli sono spesso più allentati rispetto a quelli di una multinazionale strutturata, più rigidamente definiti. Ora: per taluni ciò può rappresentare una complicazione, per altri un’opportunità, visto che c’è la chance di occuparsi di più cose. Ci sono d’altro canto persone più inclini ad essere agili e curiose, altre meno. Se una persona non è in grado di svolgere attività non predefinite, o non è a suo agio nel gestire l’ambiguità, e l’azienda non la supporta a sviluppare tali abilità, in certi contesti potrebbe trovarsi male e risultare improduttiva.

Il metodo Vertus per la selezione del personale

D: E dunque, che cosa deve fare l’azienda?

R: Può iniziare a mettere in campo strumenti di assessment per prendere decisioni razionali sulle persone. Non su tutte, magari: si possono allocare, inizialmente, investimenti più specifici puntando su coloro che, in rapporto ai valori e alla visione, hanno più chance di successo e possono divenire, poi, anche per gli altri promotori del cambiamento.

D: E dopo l’assessment?

R: In funzione dei bisogni emersi ci sono tanti strumenti: si pensi al coaching, utile a liberare e sviluppare potenzialità inespresse, alla formazione d’aula e a quella digitale, al mentoring. Ripeto, si tratta di tracciare un piano armonico che supporti realmente l’upskilling o il reskilling. Con il primo si intende incrementare le competenze di una persona o di un gruppo; ad esempio, quando cambia un processo ed occorre un aggiornamento; con il secondo si intende sviluppare nuove skills che permettano al lavoratore di riqualificarsi per performare meglio, o ricoprire un diverso ruolo. Più semplicemente, di far evolvere il proprio “saper fare” e “saper essere” in linea con le esigenze del business.

Formazione d’aula e digitale, mentoring: sono alcune della attività svolte da Vertus, che traccia anche un piano armonico che supporti realmente l’upskilling o il reskilling

D: Può offrire qualche esempio pratico di attività in caso di reindustrializzazione?

R: Sì. Circa tre anni fa un’importante azienda che realizzava cateteri, la cui produzione era destinata a cessazione, è passata alla produzione di siringhe con ago retrattile, garantendo il pieno riassorbimento occupazionale. Si trattava di accompagnare le persone in un cambiamento complesso e ricco di incognite, non solo di riconvertire l’attività. Certo, alcune capacità, anche prettamente tecniche e “manuali”, potevano essere riadattate; in certi casi, invece, il personale necessitava di essere riqualificato, aumentando o differenziando le competenze pregresse.

D: Tornando alla domanda iniziale, si riesce sempre a coprire il gap di competenze in azienda con upskilling e reskilling?

Alessandro Ielo, ceo Vertus

R: Dal mio punto di vista, è più semplice sulle hard skills che sulle soft. Le prime, in un certo senso, rappresentano il saper fare, ciò che in genere si può apprendere, se si è motivati a farlo. Se chiedessimo ad un 55enne di imparare a “smanettare” su un software di ultima generazione, ad esempio, si potrebbe pensare di andare incontro ad un fallimento perché non è un cosiddetto “nativo digitale”. Ma non vi è alcun elemento predittivo oggettivo che ci dica che il risultato sarà quello. Soprattutto, potrebbe non essere diverso se chiedessimo tale improvement a un giovane iper-digitalizzato che, però, non ha motivazione a farlo. Le soft skills chiamano in gioco il saper essere, e qui il cambiamento è molto più complicato e delicato. È una questione che ha a che fare con la motivazione, l’identità, e non solo con il potenziale. L’essere umano è, in genere, reticente al cambiamento: ad abilitarlo può servire, ad esempio, il coaching. Ma in funzione del bisogno di evoluzione ci sono tanti strumenti diversi da mettere in campo, ed è importante anche saper sperimentare ed essere creativi.

D: Si parla di opportunità offerte dalla finanza agevolata.

R: La finanza agevolata è un facilitatore, una leva abilitante, anche rispetto alla possibilità di lavorare sulla formazione e sullo sviluppo del capitale umano. Si tratta di attività strategiche che non tutte le aziende possono affrontare, spesso per questione di costi e priorità della spesa; e per le quali, peraltro, non è sempre immediato o semplice misurare un Roi, un ritorno dell’investimento. Grazie al Pnrr e ai Bandi ad esso connessi vi sono importanti opportunità; i parametri da soddisfare sono molteplici ed occorre una grande attenzione, anche sotto il profilo normativo. Vertus non solo può aiutare l’impresa a tracciare una people strategy coerente per gestire il cambiamento ed evolvere sotto il profilo Hr ed Operations, ma dispone anche di competenze qualificate su questa materia.














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