La guerra tra Usa e Cina per il predominio economico. L’Europa guarda. E l’Italia…

di Laura Magna ♦︎ A colloquio con Alessandro Aresu (Scuola di politiche). «Nel post Covid, l’Italia potrebbe dare maggiore importanza alle filiere europee». I programmi di reshoring e le trasformazioni nella supply chain

La guerra per il predominio dell’economia si gioca a colpi di tecnologie e geopolitica. La combattono Usa e Cina: l’Europa resta esclusa ed è, al più, terra di conquista. Ma se Pechino avanza sul fronte della digitalizzazione e dell’energia pulita, ambiti in cui è ormai imbattibile, è vulnerabile su due fattori chiave: la produzione di hardware, in particolare i semiconduttori, e la credibilità internazionale. Questo limiterà ancora, probabilmente, la sua egemonia globale nel prossimo futuro. E per l’Italia che usa la Cina fornitore di tutte le sue industrie cruciali (pharma, meccanica, tessile) da un lato sarà necessario ripensare le catene logistiche con alcuni Paesi dell’Asia che assumeranno maggior peso, dall’altro bisognerà considerare il mercato cinese come parte di una strategia commerciale diversificata e non come unico mercato di sbocco.

Sono le tesi di Alessandro Aresu, direttore scientifico di Scuola di politiche e autore del saggio “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”. Industria Italiana lo ha intervistato per fotografare quello che potrà essere il ruolo della Cina nel mondo post Covid







 

D. Partiamo dall’Italia. Quali cambiamenti dovranno sopportare le nostre industrie per gestire i rapporti con la Cina nel post-Covid? Come cambia la supply chain e come, praticamente, dovranno muoversi le nostre aziende di produzione che per molte filiere dipendono ormai da Pechino (medicale, meccanica, anche moda) come fornitore?

Alessandro Aresu, direttore scientifico di Scuola di politiche e autore del saggio “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”

R. Siamo in un momento di annunci sui cambiamenti della supply chain più che di cambiamenti effettivi. Non è detto che questi annunci si concretizzino in realtà, ma è probabile che le supply chain vedano un certo rafforzamento delle filiere intracontinentali: per l’Italia significherebbe una maggiore importanza delle filiere europee. Difficile che per alcune di quelle merci, in ogni caso, si faccia a meno dell’Asia. Un aspetto importante da monitorare, anche per le imprese, riguarda il possibile rafforzamento di paesi come il Vietnam come partner nella supply chain, a scapito della Cina. Quindi è importante avviare screening e analisi di rischio sul Vietnam e sugli altri paesi Asean. Ma è comunque irrealistico pensare che la Cina “sparisca” del tutto dai settori citati. 


D. Ma la Cina, per le nostre eccellenze produttive, potrà diventare anche un partner? 

R. Anzitutto, il primo passaggio essenziale è togliersi dalla testa l’idea che il mercato cinese sarà la terra promessa per le imprese italiane e che la ricchezza delle nostre imprese verrà solo e soltanto dalla Cina. Questo è falso. Il mercato statunitense e ancor più quello europeo sono e saranno quantitativamente e qualitativamente più importanti. Inoltre, avere un “grande riequilibrio” nella bilancia commerciale con la Cina per l’Italia è irrealistico. Non accadrà. La Cina deve perciò essere considerata per le imprese all’interno di una strategia diversificata, altrimenti rischia di essere un punto di vulnerabilità.  

 

D. Guardiamo invece la Cina come un mercato di sbocco: quali nuove prospettive dovranno assumere le imprese che vogliono sbarcare oggi a Pechino per vendere i propri prodotti e servizi? 

Alessandro Aresu, direttore scientifico di Scuola di politiche e autore del saggio “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”

R. La Cina, dal punto di vista degli equilibri tra politica ed economia, resterà un Paese fortemente condizionato dal Partito Comunista, che ha circa 90 milioni di membri. Quindi per alcune partite industriali il ruolo del Partito, a livello sia nazionale sia locale, è e resterà di primo piano. Non ci sono su questo dei cambiamenti significativi, se non il fatto che sarà sempre più evidente la volontà cinese di competere e cooperare sulla parte alta della catena del valore, in particolare nella tecnologia, rispetto al passato.

D. Sul fronte della tecnologia la Cina si confronta con gli Usa e l’Europa appare decisamente fuori dai giochi. Secondo l’ultimo aggiornamento della lista Top 500 il supercomputer più veloce al mondo era a novembre scorso il Summit di Ibm seguito dal suo collega Sierra: il primo con prestazioni di 148 petaflops, ovvero capace di effettuare 148 milioni di miliardi di calcoli al secondo, il secondo a quota 94 petaflops. Entrambi hanno superato il cinese Sunway TaihuLight, che a novembre 2017 nella stessa classifica aveva il primato assoluto.  L’Europa compare solo al nono posto con un super-pc tedesco, poi all’undicesimo posto c’è un progetto francese e al sedicesimo uno italiano di Eni: siamo tagliati fuori?

R. L’Europa dovrebbe recuperare il terreno perso in termini di trasformazione delle industrie. Qualunque industria deve trasformarsi adottando modelli digitali e sostenibili. Per tanto tempo in Europa abbiamo sottovalutato la forza digitale cinese: nel corso della pandemia è emerso il vantaggio della società digitale avanzata cinese, anche in termini di raccolta dati e sorveglianza anche a fini di controllo sociale. Altrove si stanno compiendo oggi i passaggi che la Cina ha già fatto negli ultimi dieci anni. Per esempio i pagamenti elettronici che sono più diffusi in Cina che in Europa occidentale. Sono stati abnormi e sottovalutati anche i passi avanti sul fronte delle tecnologie per la sostenibilità ambientale a partire dal possesso di materiali e oggetti, come le batterie al litio, per la transizione dell’auto all’elettrico che oggi rappresentano un altro punto di enorme forza dell’economia cinese. Questa è anche una delle cause del tracollo dell’auto tedesca che non ha dimostrato alcuna capacità di metamorfosi e non esprime nessun produttore innovativo. Una maggiore consapevolezza potrebbe ora derivare dal trimestre pandemico e dalle sue conseguenza, è un auspicio. Ma al momento appare del tutto assente: per questo l’Europa è fuori dai giochi. 

 

D. Appurato che l’Europa sia fuori gara, resta da capire chi vincerà questa guerra tecnologica tra Usa e Cina.

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

R. Per provare a rispondere bisogna ricordare che la guerra tecnologia è storia antica, che l’attuale condizione macro ha riportato sotto i riflettori: l’antefatto sta nell’opposizione degli Usa verso attori esterni che hanno tentato in passato di insediare il suo primato tecnologico. Dunque può essere fatta risalire agli anni Ottanta e al contrasto con il Giappone per il dominio nel settore dei semiconduttori, un capitolo dimenticato. La guerra commerciale intrapresa da Trump verso la Cina si inserisce nel medesimo filone: cinque anni fa i cinesi hanno tentato l’assalto ad aziende hi-tech Usa ma gli Usa glielo hanno impedito con strumenti accorti di divieto all’acquisto. Quando Trump avvia la trade war, rafforza questi elementi di guerra tecnologica anche perché nel frattempo emerge Huawei, che acquisisce una influenza di primo piano nella partita del 5G e di tutta la catena del valore. 

 

D. Il primato nel 5G è la cartina al tornasole della potenza digitale di Pechino. Potrebbe iniziare da qui la sua scalata al primato globale dell’economia? 

R. Sicuramente sul fronte digitale la Cina ha vantaggi indiscutibili. C’è un social cinese, un vero colosso posseduto da Bytedance e amato dagli adolescenti di tutto il mondo che è un po’ l’emblema di questa supremazia. TikTok, che ha di recente scelto come ceo l’ex manager Disney Kevin Mayer, uno di una lunga serie di passaggi al vertice tra aziende Usa e cinesi. Non solo. Il servizio di videochat Zoom che ha sperimentato in questi mesi di lockdown un boom di download è sì una società Usa, ma fondata dal miliardario cinese Eric Yuan. I rapporti di potere si giocano su più piani. Le società cinesi stanno cercando in tutti i modi di guadagnare la fiducia del mercato occidentale, ma al contempo si muovono su un doppio binario: uno americano, con società che operano in occidente con le regole che vanno rispettate qui; uno cinese, con società che invece rispondono alle regole di Pechino. Lo fa bene proprio TikTok, che ha una sede negli Usa da cui dipende la App occidentale; mentre Bytedance si occupa della versione censurata per il mercato cinese, Douyin. I prodotti innovativi cinesi hanno immaginato una separazione tra i due sistemi, che consente di presidiare entrambi con un enorme vantaggio competitivo.

 

D. Eppure, come sostiene anche nel suo saggio, ancora non basta. Cosa manca ancora a Pechino perché diventi la prossima locomotiva economica del mondo? 

R. Ci sono alcune sfide che Pechino deve affrontare per diventare leader dell’economia mondiale. Deve affrontare l’invecchiamento della popolazione, rafforzare e la presa delle società digitali anche in altri mercati asiatici ed europei, raggiungere l’autosufficienza nei semiconduttori e in altri aspetti cruciali delle tecnologie del futuro, come il quantum computer: solo a quel punto la strada del primato potrebbe spianarsi. Però oggi appare in svantaggio, perché gli Usa hanno dalla loro parte alleanze politiche cruciali e il primato militare. Inoltre, le aziende cinesi non producono i semiconduttori più avanzati e il ritardo in questo settore non si recupera in pochi mesi. I maggiori produttori di microchip sono ancora negli Usa, in Corea, in Giappone e a Taiwan. Lo sviluppo di questa guerra dei semiconduttori è un elemento di fragilità cinese molto importante. La capacità degli Usa di mantenere una alleanza con i Paesi che non vogliono condividere la tecnologia di frontiera con i cinesi è molto più forte in questo periodo, come mostrano rapporti più stretti tra Usa e Taiwan. La stessa dinamica è visibile sul tema delle terre rare, materie prime essenziali per la produzione di diversi dispositivi, anche per l’industria della difesa Usa, di cui la Cina è leader assoluto. Esistono rapporti della Difesa americana che identificano una delle maggiori vulnerabilità Usa proprio nel primato cinese sulle terre rare: per evitare possibili ritorsioni cinesi, gli Usa stanno cercando di rinserrare i rapporti con paesi come l’Australia per approvvigionarsi in maniera alternativa. La geopolitica, insomma, deciderà in ultima chi sarà il vincitore anche sul fronte dell’economia. 

 

D. Dunque il potere cinese resta confinato per effetto della vulnerabilità politica? 

Il primo a lanciare programmi di reshoring era stato Barack Obama solo che, nel mondo pre-Covid, quei programmi non avevano funzionato granché. Ma già i Paesi occidentali dicevano che fosse necessario portare a casa la produzione: non riuscivano a farlo perché per le aziende era poco conveniente e risultava difficile soppiantare il ruolo della Cina nei sistemi globali. Ora bisognerà capire quali saranno gli effetti di questo tentativo più forte di nuovo dis-engagement dalla Cina delle catene del valore delle aziende Usa e occidentali. Certamente questo processo può indebolire la Cina di più rispetto al passato

R. Il Covid ha messo in luce proprio questo: da un lato che la Cina avesse la catena del valore della pandemia e ha avuto meno di altri Paesi il problema di approvvigionarsi di dispositivi di protezione e oggi per via della digitalizzazione spinta è ben posizionata per affrontare il post-Covid. Ma per diventare leader globale questo non basta se mancano dei veri alleati, Paesi che facciano parte del suo sistema. Nel contesto della pandemia è stato evidente che la credibilità internazionale della Cina non sia sufficiente e continua a essere intaccata soprattutto in rapporto ad altri paesi asiatici, Corea e Giappone in particolare, che non la appoggiano sul fronte della geopolitica ma anzi la osteggiano. Questo rappresenta probabilmente il maggior fattore di debolezza della Cina, che per il resto vede la sua economia rallentare ma meno di tutte le altre economie globali che si paralizzano. 

 

D. Infine, c’è il tema, molto dibattuto, del reshoring, che ha citato in merito ai rapporti con l’Italia: cosa ne pensa? La Cina può davvero essere penalizzata dal ritorno a casa in Occidente delle produzioni?

R. Quello del reshoring è un tema che accelera con la pandemia (ma che è pre-esistente ad essa). Il primo a lanciare programmi di reshoring era stato Barack Obama solo che, nel mondo pre-Covid, quei programmi non avevano funzionato granché. Ma già i Paesi occidentali dicevano che fosse necessario portare a casa la produzione: non riuscivano a farlo perché per le aziende era poco conveniente e risultava difficile soppiantare il ruolo della Cina nei sistemi globali. Ora bisognerà capire quali saranno gli effetti di questo tentativo più forte di nuovo dis-engagement dalla Cina delle catene del valore delle aziende Usa e occidentali. Certamente questo processo può indebolire la Cina di più rispetto al passato, favorendo altri paesi asiatici come il Vietnam che potrebbe in parte sostituirla come fornitore o come area di delocalizzazione














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