Trump contro tutti. Fino all’ultimo dazio: che cosa comporta per l’industria italiana?

di Laura Magna ♦︎ Non bastava la Cina, ora nel mirino del tycoon potrebbe finire – di nuovo - l’Europa. Se la guerra commerciale riprendesse e si estendesse alle auto, la Germania perderebbe 2,4 miliardi di dollari, mentre la Francia sarebbe penalizzata sui componenti. Nel lungo periodo le importazioni dell'Ue dagli Stati Uniti diminuirebbero di circa 19 miliardi di dollari. Ne abbiamo parlato con Lucia Tajoli, docente di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano

Mentre i mercati festeggiano l’accordo di Fase1 tra Cina e Usa sul commercio, c’è già un nuovo allarme: la guerra ingaggiata dal presidente americano al motto di America First potrebbe spostarsi verso un nuovo obiettivo, l’Europa.

Ne sono convinti diversi osservatori, perché da un lato il tycoon deve rassicurare le Borse ma dall’altro non può deludere gli elettori rurali che di fatto ne hanno determinato l’elezione nel 2016, in vista del nuovo voto del prossimo novembre. Elettori che hanno bisogno di un nemico da combattere: se non è la Cina, sarà l’Europa.







Il Vecchio Continente d’altronde era stata la prima vittima del protezionismo di Trump, quando a maggio 2018 erano state ritoccate al rialzo le tariffe di acciaio e alluminio. Il 18 ottobre 2019 sono entrati in vigore i dazi dal 10 al 25% su prodotti agroalimentari per un valore di 7,5 miliardi di dollari. Nel mirino erano finite poi l’auto tedesca e Francia, Italia e Austria a causa della loro volontà di introdurre una digital tax che danneggerebbe i colossi statunitensi dell’Hi-Tech. Ma la scure tariffaria su merci per 3 miliardi di dollari, con tariffe fino al 100% che sarebbero dovute entrare in vigore a gennaio, è per ora in pausa. 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

Se gli attacchi riprendessero e si estendessero alle auto, si innescherebbe un circolo vizioso inarrestabile con effetti amplificati anche per via delle ritorsioni e una perdita di valore per la Germania di 2,4 miliardi di dollari e un minor export dall’Europa stimato in oltre dieci miliardi di dollari. Sarebbe la Germania a soffrire di più, con il duplice effetto di trainare al ribasso tutto il Vecchio Continente e di pesare in maniera enorme sull’Italia con cui, come noto, gli interscambi sono particolarmente fitti.

Ne abbiamo parlato con Lucia Tajoli, docente di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano e abbiamo raccolto la view di due case d’affari americane (State Street e Legg Mason) sul tema e sull’impatto che una prolungata guerra commerciale con il baricentro più spostato verso il Vecchio Continente possa avere sull’industria locale.

 

Dopo l’accordo di Fase 1: Trump ha bisogno di un nuovo nemico

Lucia Tajoli, docente di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano

Prima di analizzare nel dettaglio le prossime mosse, uno sguardo al passato recente. L’accordo di prima Fase con la Cina ha cancellato l’ipotesi di tassare altri 160 miliardi di dollari di importazioni cinesi, restano in vigore però le tariffe su 360 miliardi di dollari di beni cinesi (ma Trump ridurrà però dal 15% al 7,5% i dazi su 110-120 miliardi). In cambio, la Cina importerà più soja americana, applicherà protezioni più forti per la proprietà intellettuale statunitensi, aprirà le frontiere alle istituzioni finanziarie americane e sarà più trasparente nella gestione della propria valuta. 

I contenuti sono tuttavia vaghi e manca un vero impegno cinese: anche l’impegno a non svalutare il renminbi era già nella strategia di Xi Jinping. E soprattutto, secondo Lucia Tajoli«Le promesse cinesi non hanno toccato uno dei punti di maggiore tensione tra i due Paesi, ovvero i sussidi erogati dal governo cinese alle proprie imprese anche per favorire le esportazioni, un punto su cui la Cina non sembra disposta ad arretrare. Né il tema chiave della sfida tecnologica, con il Regno Unito che ha dato l’ok a Huawei per il 5g e gli Stati Uniti che fanno pressione mentre nell’accordo di Fase 1 non è neppure sfiorato il tema tecnologico che pure è cruciale».

E questo dimostra che la Casa Bianca avesse bisogno di un accordo, a prescindere dai suoi contenuti, per poter dimostrare che l’approccio adottato stia dando i suoi frutti (e infatti l’accordo di Fase 1 è importante non tanto per i contenuti ma perché segna un congelamento – più o meno temporaneo – dei dazi). Dall’altro lato però, «Trump necessita di un nemico da incolpare. Scagliarsi contro la Cina è una tradizione consolidata per repubblicani e democratici negli anni elettorali. Non è quindi da escludere che nell’anno in corso sia abbia un nuovo capovolgimento di fronte», dice Tajoli. Ma è anche possibile che il nuovo nemico sia l’Europa.

 

Guerra commerciale contro Europa?

Differenza nei volumi di scambi dal Q1-Q3 2019 al Q1-Q3 2019.
Fonte Legg Mason

«Innanzitutto, se è vero che l’accordo ha avuto l’effetto di bloccare ulteriori dazi che Trump aveva fissato. Segna una tregua almeno momentanea, un cambio di atteggiamento, non muta lo scenario. Si tratta di una sospensione momentanea ma è tutto da vedere, anche perché la situazione cinese si va complicando per altre questioni legate per esempio al Coronavirus che blocca i flussi da e verso la Cina con effetti che non siamo ancora in grado di misurare», continua la docente del Politecnico. 

L’accordo con la Cina dunque fornisce a Trump una vittoria politica che può annunciare al suo elettorato. I sondaggi hanno mostrato che il costo delle tariffe si stava abbattendo sulla sua base elettorale e hanno probabilmente spinto Trump a concludere un accordo intermedio per avere un risultato spendibile nell’anno delle elezioni. «D’altro canto è possibile che le mire di Trump si spostino verso l’Europa: sotto elezione il presidente cercherà capri espiatori. Il modo di decidere è molto umorale, quindi le previsioni sono difficili. Sembrava prossima l’emanazione di dazi contro la Francia per le imprese digitali, ma a Davos i leader hanno cambiato idea. Questa incertezza non fa bene all’economia e il danno più grosso è l’aumento dell’incertezza. Soprattutto in Europa», continua Tajoli.

  

Il parere degli investitori internazionali (l’Europa è nel mirino)

La tregua nasce dall’osservazione di questi numeri e avrà effetti importanti nel breve termine. «L’accordo di Fase 1, è un solido punto di partenza per far sì che le controversie commerciali non rappresentino più un timore a breve termine per i mercati – afferma Elliot Hentov, head of policy research, State Street Global Advisors – le guerre commerciali sono state uno dei principali driver della recessione dei mercati, in quanto hanno scoraggiato gli investimenti delle imprese, soprattutto nel settore manifatturiero, aggravando così la recessione globale dell’intero comparto». Ma questa consapevolezza non necessariamente farà desistere Trump in un orizzonte temporale più ampio: la sua presidenza ha come tratto caratteristico rapporti conflittuali «e il fatto che la Cina non sia più una controparte durante l’anno in cui si terranno le elezioni indica che il presidente andrà alla ricerca di altri avversari. Secondo questa logica, l’Europa potrebbe essere il nuovo obiettivo degli Stati Uniti sul fronte commerciale. Ci aspettiamo infatti che le frizioni commerciali Usa-Europa diventino un tema di attualità, con possibile applicazione di dazi o misure selettive». 

Secondo Kim Catechis, Head of Investment Strategies di Martin Currie, affiliata Legg Mason, società globale di gestione del risparmio «tra i Paesi che più pesano sul commercio mondiale, gli Stati Uniti sono quelli la cui economia è meno trade-intensive, con una percentuale del 32%. Per avere un paragone, l’economia britannica ha una trade-intensity del 62%, la Corea del 76%, mentre Hong Kong addirittura del 371%. Una tregua o una descalation nella guerra commerciale avrebbero un grande impatto positivo in questi Paesi».

 

L’impatto della guerra commerciale sul Pil globale (ed europeo)

Effetti della trade war sull’export italiano. Fonte Sace Simest

«Quanto agli effetti sulle economie circolano stime molto diverse. Si parla in generale per il 2020 di un rallentamento della crescita mondiale anche legato alla guerra commerciale, ma quanto sia attribuibile a quell’unico fattore è difficile stabilirlo», dice Tajoili. Il recente World Economic Outlook del Fmi è stato cautamente ottimista sulle prospettive di una graduale ripresa dell’economia globale, prevedendo per il 2020 una crescita del 3,3% e per il 2021 del 3,4%. 

Questo ottimismo prudente è fondato sull’aspettativa che una serie di economie emergenti torneranno ai loro tassi di crescita media, tra cui il Brasile, il Messico, la Russia, la Turchia e l’India. Ma sui mercati sviluppati l’ottimismo è decisamente inferiore. Prima dell’estate, il rapporto sul commercio estero di Sace Simest, aveva misurato che «qualora Washington decidesse di imporre un dazio del 25% su tutti i prodotti provenienti da Pechino e sulle importazioni di autoveicoli dal mondo (esclusi soltanto Messico e Canada, con i quali è stata raggiunta un’intesa per la modernizzazione del Nafta – ora denominato Usmca), le ripercussioni negative si estenderebbero a macchia d’olio sull’intero sistema del commercio internazionale».

Commenta Tajoli: «Sempre secondo Sace, la combinazione della guerra commerciale e Brexit senza accordi, avrebbe provocato un calo dell’export italiano verso la Germania nel 2019 di oltre mezzo punto percentuale in meno, dal 2,7% al 2,2% e per il 2020 oltre un punto. L’effetto verso la Francia soprattutto per il 2020 sarebbe stato ancora peggiore. Sul mercato europeo l’effetto sarebbe stato serio e siccome metà del nostro export va in Europa avremmo dovuto aspettarci un rallentamento serio del nostro export». Per l’Italia l’export era atteso in calo di 0,2 punti percentuali nel 2019 e -0,6% nel 2020, con impatti ancora più marcati per le nostre vendite verso gli Stati Uniti (-0,7 p.p. nel 2019, -1,1 p.p. nel 2020). 

Al momento la situazione è statica, ma come abbiamo ampiamente dibattuto, tutto è ancora in divenire e nuovi attacchi a sorpresa sono dietro l’angolo. E se la guerra prendesse di mira direttamente l’Europa i danni si amplificherebbero a dismisura. I calcoli li ha fatti l’istituto di ricerca francese Cepii. Secondo Cepii il danno sulle economie deriva dalla diversione commerciale, ovvero dal fatto che le merci destinatarie di maggiori dazi possano venire importate da Paesi diversi: e la diversione commerciale può influire su tutti i prodotti interessati dalle misure americane o dalle rappresaglie adottate da paesi terzi. 

Secondo gli autori dello studio, nel lungo periodo le importazioni dell’Ue dagli Stati Uniti diminuirebbero di circa 19 miliardi di dollari, mentre le esportazioni aumenterebbero di circa 25 miliardi di dollari, poiché i prezzi dei prodotti esportati sul mercato statunitense diventerebbero più interessanti di quelli dei cinesi. La diminuzione dell’export Usa dipende sia dall’accumulo di ritorsioni europee su determinati prodotti americani, sia dal fatto che molti prodotti tassati dagli Stati Uniti dalla Cina entrano nel processo di fabbricazione delle merci, che vengono poi esportati dagli Stati Uniti verso mercati terzi compresa l’Ue. Quindi anche le misure adottate nei confronti della Cina aumentano anche i costi di produzione di alcuni prodotti americani e ne riducono la competitività.

 

Gli effetti di dazi sulle auto europee

Esportazioni italiane di beni. Fonte Sace Simest

Se tornasse in pista l’ipotesi di aumentare i dazi Usa sulle auto europee, la situazione sarebbe senza dubbio più grave. L’Ue esporta circa 59 miliardi di dollari di auto e componenti negli Stati Uniti essendone il principale fornitore. L’aumento dei dazi provocherebbe un forte calo delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, in particolare quelle delle automobili tedesche che diminuirebbero di 8,8 miliardi di dollari: a questo dovremmo aggiungere una diminuzione di 2 miliardi di dollari nelle esportazioni di componenti. La Francia sarebbe penalizzata principalmente dalle esportazioni dei suoi componenti, dal momento che solo le fabbriche francesi Toyota e Daimler esportano automobili assemblate negli Stati Uniti.

È sempre Cepii a spiegare che «il possibile impatto di questo tipo di scenario dipende in larga misura da possibili ritorsioni, vale a dire prodotti provenienti dagli Stati Uniti sui quali l’UE sceglierebbe di aumentare i propri dazi doganali… una risposta europea inciderebbe sulle principali merci importate (in valore) dagli Stati Uniti, comprese le automobili. Di conseguenza, l’industria automobilistica tedesca sarebbe gravemente colpita da una perdita di valore aggiunto di 2,4 miliardi di dollari. In effetti, alle perdite dirette delle quote di mercato tedesche sul mercato americano a causa dei dazi doganali americani, potremmo aggiungere l’effetto delle rappresaglie europee sui veicoli assemblati da produttori tedeschi negli Stati Uniti, che vengono poi importati e venduti in Europa».

 

Gli effetti della trade war sugli Usa

Esportazioni italiane. Fonte Sace Simest

D’altro canto Trump sta scoprendo anche a spese dell’economia americana che le guerre commerciali non sono semplici né da gestire né da vincere. «Dopo un anno e mezzo di dazi annunciati e introdotti, tweet spesso contraddittori e politiche ondivaghe che hanno creato non pochi sobbalzi nella Borsa americana, sono emersi diversi segnali negativi. Il deficit commerciale Usa verso il mondo non è diminuito, gli scambi americani verso la Cina sono scesi sia come esportazioni e importazioni, sia come investimenti diretti, penalizzando in modo particolare gli agricoltori americani e le imprese coinvolte nelle catene di produzione internazionali. In più, gli ultimi dati registrano una diminuzione dei posti di lavoro in Usa e l’economia americana nel complesso mostra alcuni segni di possibile rallentamento», commenta Tajoli. Non solo. «Il commercio cinese con gli Stati Uniti è in forte calo, con le esportazioni in calo del 13% e le importazioni in calo del 21%. Invece, le esportazioni complessive della Cina nel 2019 risultano in leggerissimo aumento, facendo aumentare nuovamente l’avanzo commerciale cinese». Insomma, la marcia indietro era obbligata. Ma non necessariamente significa quello che sembra, ovvero che pace è fatta.














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