Riccardo Varaldo: i 10 miliardi del Pnrr per il finanziamento alla ricerca potrebbero vanificarsi

di Marco de Francesco ♦︎ Parla il decano degli economisti dell'innovazione, per lustri al vertice della Sant'Anna di Pisa: «senza una profonda mutazione del sistema che dovrebbe accogliere questi investimenti, si corre il pericolo di una spesa improduttiva, priva di ritorni per l’industria e per il Pil del Paese». L'industria Italiana non ha il mindset giusto per gestire innovazione e cambiamento. Trasferimento tecnologico ancora immaturo. Interviene anche Antonio Perfetti. La Fondazione R&I

È a rischio flop il possente stanziamento di risorse che dovrebbero pervenire alla Ricerca grazie al Pnrr. Dieci miliardi, che peraltro dovrebbero servire allo sviluppo delle tecnologie abilitanti, alla creazione di campioni nazionali di R&D e al trasferimento tecnologico – impattando sul fabric in generale e sulle Pmi in particolare. «Invece, senza una profonda mutazione del sistema che dovrebbe accogliere questi investimenti, si corre il pericolo di una spesa improduttiva, priva di ritorni per l’industria e per il Pil del Paese» – e cioè di un generale aggrovigliarsi del meccanismo nell’illusione tossica che le risorse possano risolvere problemi strutturali e sedimentati. Lo pensa l’economista industriale Riccardo Varaldo, professore emerito alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, di cui è stato direttore e successivamente presidente; e che ha trasformato da collegio in istituzione universitaria di eccellenza.  Peraltro, Varaldo ha ricoperto la carica di Consigliere in grandi industrie, come Finmeccanica (ora Leonardo) e grandi banche, come Intesa Sanpaolo, oltre che in molte altre realtà aziendali.

Ma quali sono i problemi strutturali da risolvere?







Anzitutto, l’industria italiana non ha, considerata la generalità delle aziende, il mindset giusto: nata per allargamento e trasformazione dell’artigianato, è per natura timorosa di adottare cambiamenti radicali, e pertanto punta su una mera ricerca incrementale. Di rado cerca l’apporto ideale di giovani realtà innovative, le cui applicazioni potrebbero fare la differenza sul mercato.  Quanto agli atenei, sono per lo più arroccati nello studio di materie astratte e i cui risultati non sono pertanto trasmissibili alle imprese, e producono pochi spin-off di valore industriale. Quanto invece ai finanziatori privati delle start-up innovative, e cioè le società di venture capital, forniscono un contributo molto basso rispetto ad altri Paesi.

In sintesi, il guaio è che il trasferimento tecnologico è caratterizzato da una catena di dissociazioni: le parti in causa (grandi imprese; start-up e Pmi innovative; atenei ed enti finanziatori) vivono per lo più realtà disaggregate.

Riccardo Varaldo, professore emerito alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

E allora, come si supera tutto questo? Occorre dar vita ad un “processo circolare” della co-creazione del valore, ad ecosistemi dell’innovazione in cui piccole realtà tecnologiche sono selezionate sulla scorta del loro potenziale disruptive, e sono prese in carico da grandi aziende che individuano il mercato adatto e che attivano i fondi di venture capital; gli atenei, invece, in questo quadro svolgono una duplice attività: danno vita a spin-off  research driven e all’ambiente idoneo al trasferimento tecnologico verso il mondo produttivo della grande industria. Per Varaldo, può funzionare solo così.

Sempre secondo Varaldo, la Fondazione R&I, della quale è presidente del consiglio di gestione, ha dato vita ad un simile modello.

Ne abbiamo parlato con Varaldo e con Antonio Perfetti che, già amministratore delegato di Officine Aeronavali e di Mdba Italia, nonché già dg di Alenia Aeronautica e presidente di Alenia Composite – è ora consigliere delegato della Fondazione.

UN FIUME DI SOLDI PER LA RICERCA, IN MILLE RIVOLI

Si diceva dello stanziamento del Pnrr. Nel contesto della Missione 4 (Istruzione e Ricerca), va letta la Componente 2, significativamente intitolata “Dalla ricerca all’impresa”. Sono state definite 4 Misure, volte «a sostenere gli investimenti in R&D, a promuovere l’innovazione e la diffusione delle tecnologie e a rafforzare le competenze, favorendo così la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza».

La prima Misura è quella sui partenariati allargati estesi a università, centri di ricerca, imprese e finanziamento progetti di ricerca di base. Tanti sono gli argomenti che ricadono in quest’ambito: dall’intelligenza artificiale agli scenari energetici del futuro; dai rischi ambientali alle scienze quantistiche; dalla cultura umanistica alle terapie innovative nella medicina di precisione; dalla cyber security alle sfide dell’invecchiamento; dalla sostenibilità economico-finanziaria dei sistemi e dei territori ai modelli per l’alimentazione sostenibile; dalle neuroscienze al Made in Italy circolare e sostenibile; dalle malattie infettive alle telecomunicazioni e allo spazio. Insomma, dentro c’è un po’ di tutto. Il sospetto è che non sia stata svolta alcuna selezione per importanza e urgenza; e che la lista tradisca la preoccupazione di accontentare un po’ tutti.

La seconda Misura è quella del Potenziamento delle strutture di ricerca e la creazione di “campioni nazionali di R&S” su alcune Key Enabling Technologies. Anche qui, i Centri Nazionali dovrebbero riguardare i campi più disparati: simulazioni, calcolo e analisi dei dati ad alte prestazioni; tecnologie dell’agricoltura (Agritech); sviluppo di farmaci con tecnologia a Rna; mobilità sostenibile e bio-diversità.

La terza Misura è quella della creazione e rafforzamento di “ecosistemi dell’innovazione (Ei)”, nonché della costruzione di “leader territoriali di R&S”. Gli Ei avrebbero un focus scientifico e tecnologico, e sarebbero «capaci di garantire un concreto e dimostrato impatto sul sistema economico e sociale, comprese le Pmi».

Infine, la quarta Misura è quella Fondo per la realizzazione di un sistema integrato di infrastrutture di ricerca e di innovazione.

PERCHÉ RISCHIA DI NON FUNZIONARE: UN’INDUSTRIA STRUTTURALMENTE CONSERVATRICE

Ricerca applicata e trasferimento tecnologico (e cioè il processo di conversione di invenzioni scientifiche in nuovi prodotti, processi e servizi) dovrebbero rivestire in Italia una funzione strategica. E ciò a causa della singolarità del tessuto produttivo, costituito per lo più da piccole imprese che non dispongono di risorse sufficienti per lo sviluppo, al proprio interno, di competenze necessarie alla competizione globale; e da aziende familiari di medie dimensioni, che spesso nei passaggi generazionali perdono l’inclinazione all’innovazione e al rischio. Invece il meccanismo “Dalla ricerca all’impresa”, quello che la citata Componente 2 intende finanziare, è farraginoso.

L’industria italiana ha le proprie responsabilità. «È conservatrice. Nata come meritevole evoluzione dell’artigianato manifatturiero durante il Boom economico degli Anni Sessanta; ma la capacità di aumentare le dimensioni aziendali, di andare in Borsa, di pensare in grande e al futuro è quanto mai ridotta. Ciò ha fatto sì che alla fine siamo diventati subfornitori di grandi imprese tedesche, francesi o di altri Paesi» – afferma Varaldo.

L’Italia non delude per qualità degli istituti di ricerca e numero di pubblicazioni scientifiche, ma fatica a portare innovazione sul mercato

L’industria italiana non pensa abbastanza all’innovazione tecnologica, perché in genere non è al fronte, non combatte in prima linea.  Da una postazione arretrata, fatica a scorgere i grandi trend e ad interpretare le necessità e le potenzialità del momento. «Così, le aziende chiedono alle università (o svolgono direttamente) solo una ricerca incrementale, e mai disruptive in senso Schumpeteriano (e cioè in grado di innestare nuovi cicli; Ndr)».

E poi, come si diceva, di rado le grandi imprese si riferiscono alle start-up innovative per lo sviluppo di nuove tecnologie disruptive. «Si pensi ai vaccini anti Covid 19: sono il frutto della ricerca avanzata di piccole realtà scientifiche, i cui risultati sono stati acquisiti dalle multinazionali del farmaco. Il vaccino Pfizer è figlio della BioNTech, una start up tedesca e il vaccino Astrazeneca di un laboratorio di Oxford. Occorre un gioco di squadra per l’innovazione tecnologica avanzata, che da noi manca purtroppo».

PERCHÉ RISCHIA DI NON FUNZIONARE: LA FABBRICA DI PAPER NON FAVORISCE L’INDUSTRIA

Secondo Varaldo, «le università sono diventate fabbriche di paper anche di alto livello internazionale ma non di spin-off».  I docenti impegnati nella ricerca “trasmissibile” sono un’assoluta minoranza e svolgono un’attività che in ambito accademico è considerata di secondo livello. Il “publish or perish” italiano sembra poi puntare più sulla quantità ma non sempre sulla qualità dei lavori degli studiosi, che paiono impegnati nell’arte di uno sterile citazionismo, nella malcelata speranza di essere a loro volta citati.

Mancano poi in Italia le research universities di tipo Statunitense ed ora presenti anche in Cina. Sono le istituzioni dedicate a valorizzare in senso economico i risultati della ricerca scientifica per il mercato. In Italia abbondano invece distretti tecnologici, parchi scientifici ed incubatori secondo un modello di partenariato pubblico privato sostenuto in genere da fondi regionali.  Dovrebbero realizzare il trasferimento di conoscenze scientifiche e competenze in chiave 4.0. Per Varaldo tuttavia, la produttività di queste realtà è molto ridotta in fatto di un effettivo trasferimento di conoscenze scientifiche e tecnologiche dalle università.

PERCHÉ RISCHIA DI NON FUNZIONARE: IL MONDO NON ASPETTA L’ITALIA

Tutti questi fattori, secondo Varaldo, sono aggravati dal fatto che in generale il mondo avanza ad una velocità assai maggiore di quella tipica del sistema-Italia, con negative conseguenze sulla sua capacità di crescita del PIL.

Per Varaldo è importante che i fondi di venture capital stiano crescendo in Italia per poter sostenere start up ad elevato potenziale di sviluppo. «Nel 2021 in Italia è molto aumentato: è a quota 1,2 miliardi di euro.  Ma in Francia vale 6,6 miliardi, e in Germania 16 miliardi».

In Italia abbiamo inoltre rilevanti problemi nell’assicurare ai fondi di venture capital possibilità di disinvestimento adeguate alle esigenze. L’exit è l’obiettivo dichiarato degli investitori in start-up: si realizza quando i soci fondatori e gli investitori possono disinvestire le quote investite in start up per realizzare un guadagno e attivare un nuovo ciclo di investimenti.  Tecnicamente, le strade sono due: da una parte la quotazione in Borsa, con la start-up che fa l’Ipo, l’offerta pubblica iniziale per entrare nel mercato azionario; dall’altra la start-up può essere venduta ad una grande o media azienda che realizza una acquisizione per perseguire obiettivi strategici di sviluppo di nuove tecnologie o nuovi modelli di business. «Ma in Italia non è come negli Usa, è tutto più complicato: è quasi impossibile entrare in Borsa per una start-up, e il corporate venture capital di grandi imprese per sostenere la crescita di start-up innovative è molto ridotto e circoscritto.

Le esportazioni di alta tecnologia da parte dell’Italia sono nettamente inferiori rispetto a Germania e Usa (Fonte: Oecd 2015)

Altri Paesi, fra cui in primis la Cina, hanno saputo attivare un dinamico trasferimento dall’estero di nuove tecnologie di frequente senza rispettare le regole del gioco. Ma ha funzionato. «La Cina ha consentito di aprire il proprio mercato locale a multinazionali straniere ma dietro la possibilità di accedere a tecnologie avanzate. È in questo modo che in Cina si è sviluppata una crescita tecnologica rapida ed avanzata, cercando di catturare il meglio della ricerca internazionale. Per questo alcune università statunitensi hanno dovuto limitare a studenti e ricercatori cinesi la frequentazione dei loro laboratori: pare che fossero troppo impegnati nel fotografare ciò che vedevano negli ambienti di ricerca» – afferma Varaldo.

Quanto al sistema-Paese italiano, invece – neanche nel contesto di una grave crisi energetica, «che dovrebbe logicamente sollecitare un’evoluzione culturale, in grado di favorire il trasferimento tecnologico» – è lecito, secondo Varaldo, nutrire troppe speranze: «È un Paese ritardatario e arretrato, sotto il profilo di un vero, produttivo trasferimento tecnologico, con una capacità di crescita molto modesta nel campo dell’innovazione».

Manca «la cultura profonda dell’innovazione e del capitale umano qualificato». Dal Mezzogiorno in particolare, in questi ultimi 20 anni sono emigrati 260mila laureati, tra cui molti talenti. «Anche in Cina era accaduto: poi Pechino li ha richiamati in patria, con offerte economiche molto incentivanti. Da noi questo non accade. Anzi, in Italia c’è chi pensa che una ulteriore riduzione del costo del lavoro, possa accrescere la competitività del Mezzogiorno; in effetti il rischio è che comporti l’aumento dell’emigrazione dei migliori laureati verso il Nord Italia e l’estero.

L’ESEMPIO  DI ECOSISTEMA DELL’INNOVAZIONE: LA FONDAZIONE R&I

Ciò che fa la Fondazione, afferma Perfetti è «attivare un efficiente sistema di trasferimento delle nuove tecnologie early-stage attraverso l’adozione di un particolare modello operativo che costituisce il supporto al percorso di trasferimento tecnologico dall’idea porta al mercato. E lo si realizza con la costruzione di appositi team che seguono con l’esperienza di soggetti diversi l’evoluzione dei diversi stadi di maturità».

Antonio Perfetti amministratore delegato di Officine Aeronavali e di Mdba Italia

In effetti partecipano alla Fondazione grandi imprese (come  LeonardoEricssonIrenFerrovie dello StatoAnsaldo EnergiaMbdaOrizzonte Sistemi NavaliRinaEngineering) interessate ad acquisire dall’esterno idee, soluzioni e applicazioni innovative attraverso il coinvolgimento di nuove realtà, e quindi start-up, Pmi innovative e spin-off «che sono oggetto di una ricognizione a livello nazionale» – chiarisce Perfetti,  e che siano a loro volta alla ricerca di contatti e collaborazioni con il mondo industriale avanzato;  istituti finanziari (Intesa SanpaoloFondo Italiano di InvestimentoInvitalia e Invitalia Ventures) che intervengono a supporto delle start-up precostituendo condizioni di exit favorevoli; istituzioni scientifiche (Fondazione Politecnico di MilanoScuola universitaria superiore Sant’Anna di Pisauniversità Federico Secondo di NapoliIstituto Italiano di TecnologiaCnruniversità di Genovauniversità campus bio-medico di Roma).

In pratica, spin-off, start-up e Pmi innovative vengono inserite in processi di accelerazione della crescita. Questi vengono coordinati dalla Fondazione R&I e svolti con interventi di grandi imprese interessate alle risposte tecnologiche e capaci di attivare anche fondi di venture capital collegati. «Occorre una visione di sistema, e noi ci occupiamo di tutti i segmenti del ciclo di vita della proprietà intellettuale».

Come si accennava, le gradi imprese svolgono un ruolo fondamentale, e non solo in fase di scouting, perché aiutano la Fondazione a «individuare il mercato potenziale di una innovazione e ad utilizzare l’idea della start-up anche in contesti disruptive».  Peraltro le grandi imprese molto spesso non utilizzano i risultati della ricerca, che restano “nei cassetti” per anni: la Fondazione sta realizzando una ricognizione, per metterli a disposizione delle giovani realtà interessate.

Si è data vita ad una piattaforma digitalizzata per la valutazione dei risultati della ricerca e per la generazione di prototipi.

Si guarda anche a Sud. Il Piano Strategico della Fondazione R&I, promosso in sintonia con Invitalia e Svimez, è di respiro lungo, ed è basato su un insieme organico di progetti congiunti con cui si mira a rafforzare e sviluppare l’ecosistema dell’innovazione del Mezzogiorno.

Il principale obiettivo è quello di sperimentare forme di collaborazione avanzata tra università e industria nella valorizzazione dei risultati della ricerca e nel dar vita a progetti strutturati di co-generazione di spin-off e startup di valore. E questo con l’intento di attrarre e interessare alla sfida dell’imprenditorialità giovani talenti, con il sostegno di mirate attività di formazione e training.














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