Re David, Fiom: protagonisti su Ilva e Fca Stellantis. E vogliamo una politica industriale sulla siderurgia

di Aldo Agosti ♦︎ Per la numero uno della Federazione la ripresa del Paese deve passare dall’acciaio, vero baricentro del Recovery Plan. Lo Stato detti la linea sull’Ilva, usi il Golden Power e tenga bene gli occhi aperti sul nuovo gruppo guidato da Tavares, che desta preoccupazioni. Attenzione al blocco sui licenziamenti

Stabilimento Mirafiori Stellantis

I lavoratori metalmeccanici italiani ci credono. D’altronde c’è poca scelta, il governo non può fare cilecca sul Recovery Plan, lo spartiacque tra un’industria che muore o che vive. Ma non basta. Bisogna stare con gli occhi bene aperti sull’Ilva, Alitalia e, perché no, anche su Stellantis.

E, naturalmente, occhio a quella mina licenziamenti, la cui moratoria è stata prorogata fino al 30 giugno. Francesca Re David guida la Fiom, il principale sindacato delle tutte blu italiane, dal luglio del 2017, quando ha preso il testimone di Maurizio Landini, diventato segretario generale della Cgil. Re David, romana, è una veterana del sindacato di Corso Italia, nel quale è entrata a soli 27 anni, nel 1987.







E da oltre 22 anni è tra i vertici della stessa Fiom, in veste di membro della segreteria nazionale. In questi quattro anni l’industria metalmeccanica è cambiata molto e adesso rischia di trovarsi all’anno zero. Partendo da un punto fermo, anzi due: è tempo che lo Stato torni a guidare la politica industriale nazionale, anche al prezzo di una sua maggior presenza nell’industria e attenzione allo sblocco dei licenziamenti. Che non vuol dire avere il diritto assoluto di poter mandare la gente a casa.

 

D. Re David, tra poco più di un mese il governo dovrà inviare a Bruxelles la bozza definitiva del Recovery Plan. Che cosa non deve mancare, davvero?

Francesca Re David, segretaria Fiom. Credits fiom-cgil.it/

R. Per quanto riguarda in particolare l’industria italiana quella che abbiamo davanti è l’occasione per fare della buona politica industriale, visto che sono 20 anni che non la facciamo. Noi siamo ancora la seconda manifattura d’Europa e in questi anni abbiamo preso un po’ troppo seriamente l’idea che il mercato fa da sé. Ma penso che ci serva una vera politica industriale e penso per esempio alla transizione ecologica e alla mobilità. Ma anche, per essere più concreti, a Fca.

D. Cosa c’entra Fca, ora Stellantis, con il Recovery Plan?

R. C’entra eccome. Perché ad oggi ci sono tanti stabilimenti, tanti impianti, tanti lavoratori e tutto l’indotto che c’è dietro a questa grande realtà che non hanno un piano industriale di matrice politica alle spalle. Tanti Paesi stanno riportando al loro interno, dietro i loro confini le produzioni, mentre l’Italia questo non lo sta facendo. E anche questa è politica industriale.

La presenza dell’idrogeno anche all’interno del Pnrr. Secondo Re David serve una vera politica industriale per quanto riguarda la transizione ecologica e la mobilità

D. Dica la verità, c’è da preoccuparsi per l’operazione Stellantis? Vi aspettate problemi sul fronte dell’occupazione?

Carlos Tavares, ceo di Stellantis

R. Stellantis ha subito rassicurato sulla tenuta degli stabilimenti. Ma noi siamo preoccupati perché in Italia gli stabilimenti dell’automotive viaggiano alla metà della capacità installata. Noi produciamo la metà delle macchine che si potrebbero produrre con la capacità produttiva esistente e questo dall’era Marchionne. Non è così in Francia e in altri Paesi. Dunque occorre capire quali sono i piani di Stellantis in Italia: se investe, se innova, se allarga la produzione. Queste sono le nostre preoccupazioni. L’ad ha dato rassicurazioni, bisogna poi vedere i progetti e i fatti concreti, anche se ha iniziato mettendo l’accento sugli aspetti espansivi.

 

D. Al governo cosa chiedete?

R. Gli chiediamo che non lasci che il mercato si autoregolamenti da solo, ma che punti sugli asset e sui settori strategici. L’auto, una filiera che occupa 250.000 persone in Italia, è uno di questi. Il momento di debolezza del governo non aiuta, ma non può non intervenire su una delle più importanti operazioni industriali a livello europeo e mondiale

 

D. Torniamo al Recovery Plan. Per la siderurgia vale lo stesso ragionamento dell’automotive?

R. Assolutamente. Siamo un Paese che consuma acciaio e non si può pensare di non realizzare un grande piano nazionale per la siderurgia. Senza considerare che ci sono tanti asset strategici nel comparto. Serve un’idea e l’idea è l’intervento dello Stato, che faccia da volano e anche da finanziatore. Nella siderurgia, come in altri settori, serve un ruolo forte dello Stato, che funga da indirizzo e controllo.

Come andrà il settore siderurgico nel 2021? Fonte Siderweb

D. Siderurgia di Stato fa rima con Ilva, oggi, visto che la mano pubblica è tornata a manovrare su Taranto. Questo però non ha posto fine ai guai. Anzi.

R. Il tema dell’Ilva non è la nazionalizzazione, visto che lo Stato entra nella proprietà con una quota del 50%. La questione è come ci entra. Non bastano i soldi, servono le idee, la visione, la proposta industriale. Se l’Ilva oggi non va avanti è perché ci sono impianti sotto sequestro e perché in questi anni non sono stati fatti grandi investimenti, oltre a piani industriali costantemente sottomessi ai piani finanziari. Parliamoci chiaro, senza la siderurgia non c’è Recovery Plan, se non si dà stabilità alla siderurgia non la si dà nemmeno alla manifattura italiana.

 

D. Dunque a Taranto cosa bisogna fare?

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Veduta dello stabilimento dell’ex Ilva

R. Ci vuole una decisione forte sulla riconversione industriale, con le migliori tecnologie che vadano verso una transizione. E ci vuole il Golden Power, perché serve qualcuno, e cioè lo Stato, che assuma finalmente quelle decisioni senza le quali la siderurgia non può partire.

 

D. I fronti industriali, Re David, sono tanti a dire il vero. Alitalia, Whirlpool. Ma perché in questo Paese le crisi industriali sono all’ordine del giorno?

R. Perché non c’è politica industriale. Sa che vuol dire? Che le multinazionali vengono, prendono i soldi dallo Stato italiano e poi delocalizzano. E noi, lavoratori italiani, rimaniamo senza niente. Il problema è che non sono mai state poste delle condizionalità. Cioè se io ti do sei soldi, devo anche porre delle condizioni. Tutto questo non c’è stato e i risultati si sono visti.

 

D. Cambiamo argomento. Il governo ha prorogato fino al 30 giugno il blocco ai licenziamenti. Una buona notizia?

R. Finché c’è lo stato di emergenza tutte le misure vanno conservate e non tutte tranne una. Onestamente è impensabile immaginare una ripresa partendo dal licenziamento delle persone perché solo se hanno sicurezza sul futuro i lavoratori possono dare la loro spinta alla ripresa. E comunque, intendiamoci bene. Sblocco dei licenziamenti non significa libertà di licenziare. Questo è molto chiaro per noi e deve essere molto chiaro anche per il governo. In questo momento noi abbiamo molte aziende che sono cariche di straordinari, il manifatturiero sta lavorando in questo Paese, lavora per l’Est e per l’Ovest e noi siamo contoterzisti di lusso, di qualità, lavoriamo per la Germania, la Francia, l’America. Naturalmente la crisi c’è perché non è negabile e pensiamo che il blocco dei licenziamenti debba durare quanto dura lo stato di emergenza.

Sono 6 le missioni del Pnrr, che a loro volta raggruppano 16 componenti funzionali a realizzare gli obiettivi economico-sociali definiti nella strategia del Governo. Le componenti si articolano in 47 linee di intervento per progetti omogenei e coerenti. I singoli progetti di investimento sono stati selezionati secondo criteri volti a concentrare gli interventi su quelli trasformativi, a maggiore impatto sull’economia e sul lavoro

D. Collateralmente si può fare qualcos’altro?

R. Sì. Pensiamo che nello stesso tempo vadano riformati gli ammortizzatori sociali nei termini di aiutare le riduzioni di orario, la formazione in orario di lavoro, il reddito dei lavoratori. Questo deve essere fondamentale se vogliamo che l’Italia continui ad essere un Paese fortemente manifatturiero. La pandemia porta con sé la digitalizzazione e dunque la riduzione degli orari di lavoro. E dunque serve anche un intervento, per esempio, sui contratti di solidarietà che accompagni la fine del blocco.

 

D. Re David, come se la immagina la fabbrica dopo la pandemia?

R. Durante la pandemia abbiamo fatto un’importante esperienza con i protocolli sulla sicurezza. I metalmeccanici hanno fatto sì che dopo anni si riparlasse di riorganizzazione del lavoro. Io non riesco a immaginare una manifattura a distanza, anche se dobbiamo prevedere un po’ di smart working. Ma credo che il lavoro in presenza rimanga fondamentale. E questo al netto dell’innovazione e dell’immane processo di digitalizzazione in atto.

Per quanto riguarda le pmi industriali nel 2021 la prima priorità è quella di investire sulle tecnologie digitali per tutelare la salute dei dipendenti sul luogo di lavoro (34% del campione), seguita dalla gestione digitale della mole documentale (30% delle pmi manifatturiere). Meno di un quarto del campione ha investito in tecnologie per digitalizzare e monitorare il processo produttivo













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