“Comunicare innovazione e impresa. Le regole del gioco per far parlare di sé”. Il nuovo libro di Luca Barbieri

Un vero e proprio manuale per aziende e imprenditori per coordinare in un unico piano editoriale social network, giornali, piattaforme pubblicità, eventi. Edito da Ayros Editore, il volume si compone di casi studio e consigli pratici per valorizzare i progetti imprenditoriali

Cosa comunicare, come, dove, quando e perché. Per far crescere un’azienda trasformandola in un medium e sfruttando al meglio l’interesse naturale che ogni progetto innovativo genera nel pubblico. Insomma, la cassetta degli attrezzi per essere riconosciuti come veri portatori di innovazione comunicandola nel modo giusto, al momento giusto e nel posto giusto.

È il cuore di «Comunicare innovazione e impresa. Le regole del gioco per far parlare di sé» del giornalista e imprenditore Luca Barbieri, (192 pagine, Ayros Editore) disponibile in libreria dal 10 febbraio (acquistabile online a questo link): un libro che, tra casi studio e consigli pratici, condensa dieci anni di esperienza professionale come consulente, a cavallo tra comunicazione e innovazione, capitalizzando gli insegnamenti che il metodo giornalistico può dare al mondo dell’impresa.







Ve ne proponiamo un estratto che spiega perché, per una Pmi, ha senso porsi il problema di comunicarsi come “innovativa“.

 

La piramide dell’innovazione

Non esiste innovazione senza comunicazione. L’innovazione, di cui esiste una grande congerie di definizioni cui non resistiamo ad aggiungere la nostra, è quella attività di generazione di prodotti, processi e servizi che apportano un radicale miglioramento nella società e nell’economia. Il legame tra tutto ciò che è nuovo e la sua ineluttabile comunicazione esiste per due ordini di motivi: quelli legati al funzionamento dell’ecosistema e uno valoriale legato all’evoluzione della società. Ce ne sarebbero altri di motivi, tra cui uno ontologico che qui riassumo brevemente: innovativo è qualcosa che prima non c’era e non si conosceva, e non si può conoscere qualcosa che non viene comunicato. Un’invenzione, insomma – che sia una tecnologia, un servizio o un processo – diventa innovazione solo nel momento in cui è capace di incidere sulla società e ciò non può avvenire senza che essa venga comunicata, adottata e compresa. Ma concentriamoci ora sui primi due motivi per cui l’innovazione è così strettamente legata alla comunicazione.

Iniziamo dalle motivazioni legate al funzionamento dell’ecosistema dell’innovazione. Esso è costituito da quell’insieme di attori che vanno da chi produce ricerca a chi fornisce servizi agli innovatori, dagli investitori ai produttori di innovazioni applicate. Possiamo raffigurarcelo come una piramide o, se preferite, un sistema a cerchi concentrici, a galassia: il concetto non cambia, l’importante è provare ora a dare fisicità a quell’ecosistema dell’innovazione che si è fatto strada in Italia dal 2012, anno in cui Corrado Passera varò, come ministro dello Sviluppo economico nel governo Monti, la legislazione dedicata alle startup innovative definendo i criteri che davano diritto all’iscrizione al registro speciale dedicato alle imprese innovative e le agevolazioni di cui potevano godere.

La piramide dell’innovazione

 

In cima alla piramide (o al centro della galassia) mettiamo la ricerca, ovvero chi produce per mandato ricerca pura, senza un immediato ritorno tecnologico, ma può innescare con le sue scoperte processi di trasferimento tecnologico e diffondere nuova conoscenza. Sotto, alla base della piramide, ci sono i produttori privati di tecnologia, che la sviluppano in proprio o la acquistano riadattandola: Pmi innovative, startup, grandi aziende che praticano la open innovation, cioè il ricorso a risorse esterne per innovare la propria organizzazione. In mezzo alla piramide, tra il vertice e la base, gli enablers, gli abilitatori, ovvero tutti coloro che aiutano l’innovazione tramite i loro servizi: venture capital, incubatori, banche, pubblica amministrazione (pensiamo al ruolo crescente di Cassa depositi e prestiti), sistemi di formazione, associazioni di categoria. Premessa per operare all’interno della piramide: essere accettati dagli altri interlocutori, sviluppare relazioni, essere – di fatto – certificati come realtà innovative. All’esterno della piramide preme una grande schiera di wannabe innovators, di aspiranti innovatori: aziende non posizionate come innovative, talenti che stanno covando il proprio progetto, università e centri di ricerca che vogliono ritagliarsi un ruolo in questo ecosistema, istituti di credito e associazioni che vogliono posizionarsi come interlocutori credibili nei confronti di tutte queste realtà.

L’aspetto che qui preme sottolineare è che esiste un «dentro», costituito da chi è percepito come innovativo, e un «fuori», nel quale gli attori non vengono considerati – a torto o a ragione, questo poco importa in questa sede – innovativi. Dentro la piramide si svolge, a tutti gli effetti, quel processo di trasferimento di conoscenza che chiamiamo tech transfer e che ha poi ricadute anche all’esterno dell’ecosistema, quindi nella società e nell’economia. Principalmente ciò avviene quando nei laboratori universitari (o privati) si scopre o si inventa qualcosa che si trasforma poi in un prodotto che può essere portato sul mercato da attori quali spin-off, startup o Pmi. Ad agevolare questo processo è preposto quell’insieme di attori (competence center, incubatori, acceleratori con solide relazioni accademiche, aziende di consulenza specializzate) che si occupano proprio di agevolare i rapporti tra il vertice e la base della piramide.

La comunicazione, è evidente, è essenziale per il corretto funzionamento dell’ecosistema dell’innovazione così disegnato in due sensi:

• rendere poroso l’ecosistema permettendo a nuovi attori di entrare;

• facilitare il processo di tech transfer.

Luca Barbieri

Riguardo al primo punto, cioè l’ingresso nell’ecosistema: se siete un’azienda innovativa come fate a farvi percepire come tale? Il gap tra la vostra realtà e la percezione che hanno di voi il mercato, i possibili interlocutori e gli stakeholder è principalmente un gap di comunicazione. Esserne consapevoli, ridefinire la propria identità grazie alla comunicazione, è il primo passo per poter aspirare a entrare nella piramide. Il primo effetto positivo della comunicazione sull’ecosistema è quindi quello di consentire continuamente a nuovi attori di entrare sulla base del proprio valore. Per farlo devono identificarsi, farsi conoscere e riconoscere come innovativi. Fare in modo che l’innovazione trasmessa al pubblico sia veramente di valore e non una mera operazione di immagine è uno dei punti salienti di questo libro.

Il secondo effetto positivo della comunicazione sull’ecosistema è legato al processo di trasferimento tecnologico. L’open innovation per funzionare ha bisogno di mappe continuamente aggiornate e l’Italia è un Paese eccezionalmente policentrico: l’innovazione spesso nasce in periferia o in laboratori di cui nessuno conosce l’esistenza. Ancor peggio: alcuni attori che avrebbero tanto da dire ancora non hanno capito i vantaggi derivanti dall’entrare a far parte di un ecosistema vitale fatto di interscambio. Paura di essere copiati, presunzione di autosufficienza, disinteresse per il sistema Paese: sono tanti i motivi che culturalmente ostacolano una trasparente diffusione dell’innovazione. Abbinati ovviamente alla farraginosità e incertezza legislativa che in Italia hanno creato una cronica sfiducia nei confronti della sfera pubblica dell’agire. Facciamo l’esempio delle Pmi. Quante sono in Italia? Oltre 160mila, considerando solo quelle che rispettano gli standard europei di dimensione e fatturato (dati Cerved). Quante di queste si sono registrate come Pmi innovative ai sensi del decreto che istituisce il registro camerale apposito che dà accesso ad alcune agevolazioni? Appena 2146 nell’ottobre 2021, secondo il report periodico del Ministero dello sviluppo economico. Ovviamente sappiamo bene, dall’esperienza comune, che quelle veramente innovative sono molte di più. Aziende che sviluppano tecnologie, investono in ricerca e sviluppo, che hanno rapporti continui, di vario tipo, con le startup. Se non abbiamo una mappa, come si fa a raggiungerle, a comunicare con esse? Peraltro il fatto che si siano registrate all’elenco speciale delle Camere di commercio non vuol per forza dire che agiscano all’interno dell’ecosistema, ma è sicuramente un primo buon elenco da cui partire.

Innovazione vuol dire, o dovrebbe voler dire, «eccellenza»: entrare nel «club», poter avere rapporti stabili con centri di ricerca e abilitatori fornisce alle aziende un accesso privilegiato a opportunità che possono innescare e supportare la crescita futura. Chi è «dentro» lo sa. Potete vederlo come un club esclusivo o un circolo per entrare nel quale sia necessario pagare una tessera d’ingresso. Ma la storia di ciascuno dei membri del club ha un prima e un dopo: il non essere percepiti come innovativi (e quindi non essere pienamente abilitati a discutere e fare affari in questo campo) e l’esserlo. E la fee per l’ingresso in questo club si paga anche in comunicazione.

Perché comunicare? Per quale scopo un’azienda, una startup, o anche un ente di ricerca, dovrebbe investire tempo e risorse per far sapere al mondo la portata innovativa delle proprie idee? Luca Barbieri, co-founder di Blum, cerca di rispondere a questa domanda

L’autore

Luca Barbieri, Consulente per la comunicazione di centri di ricerca, PMI innovative e startup, è imprenditore e giornalista. Dopo tredici anni in RCS dove ha collaborato alla nascita e al lancio di Corriere Innovazione, ha co-fondato Blum, società di consulenza che aiuta imprese innovative grandi e piccole e centri di ricerca a crescere attraverso comunicazione, media relation ed eventi. Investitore e mentor di numerose startup, insegna Linguaggio Giornalistico all’Università di Padova e Comunicazione dell’Innovazione al Moim – Master in Open Innovation Management dello stesso ateneo.














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