Transizione 5.0? Industriali sbrigatevi! Competence Center? Ne servono molti di più e più risorse! E sulla produttività… Intervista a 360° a Marco Taisch

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ Per il presidente del Made è ora di accelerare. Su tutto: digitalizzazione, innovazione, servitizzazione sostenibilità. I tempi sono maturi. Importante discussione su un punto dolente per le industrie italiane: la produttività. Taisch fa notare come sia bassa in assoluto, ma cresce più che in Spagna e Francia. Per incrementarla, serve investire maggiormente in formazione. Soprattutto sulle pmi

«Gli industriali italiani devono fare presto! Non c’è tempo da perdere: accelerare sulla digitalizzazione e sulla sostenibilità – che poi sono due facce della stessa medaglia. Ci sono gli strumenti, ci sono gli incentivi e sta cambiando la cultura: è il momento. Perciò agli imprenditori dico: sbrigatevi!». Il presidente del Competence Center milanese Made, Marco Taisch, professore di Digital Manufacturing al Politecnico di Milano e soprattutto uno dei massimi esperti italiani di questi temi, non ha dubbi: con Transizione 5.0 si aggiunge un nuovo importante tassello per portare l’Italia sulla via della digitalizzazione e dell’innovazione. Per Taisch, Transizione 5.0 avrà esiti importanti, analoghi a quelli già prodotti dal pacchetto Industry 4.0 di Carlo Calenda, e dal sistema di trasferimento tecnologico (Competence Center e Digital Innovation Hub) che ha integrato gli incentivi e che trasformando la testa delle imprese. Gli incentivi sono un potente stimolo all’innovazione non solo e non soltanto a livello economico, ma soprattutto a livello culturale e di paradigma. Il grande merito di Industria 4.0 è stato di aver riportato la manifattura al centro del dibattito politico e mediatico, dopo anni in cui era sostanzialmente sparita, incoraggiando gli industriali a innovare. Anzi, in qualche modo obbligandoli: si è creato infatti un clima culturale per cui chi non si fosse mosse in questo senso sarebbe stato in qualche modo escluso da tutto, emarginato, in difficoltà. Un clima culturale che ha contribuito agli anni buoni dell’economia fino al 2020, quando è arrivato il Covid.

Marco Taisch, professore di Digital Manufacturing al Politecnico di Milano e presidente del Competence Center milanese Made.

La lunga intervista che Taisch ha concesso a Industria Italiana prende le mosse da un altro parere autorevole, ma critico, verso i crediti fiscali di Industry 4.0 e quelli appena nati del 5.0: quello di Corrado La Forgia, vice presidente di Federmeccanica con delega alla Transizione Tecnologica ed Ecologica, direttore generale della Vhit di Offanengo (storica azienda della componentistica auto) e, soprattutto, ascoltato opinionista. La Forgia è autore di molti interventi, tra cui il Manifesto dell’Intelligenza Artificiale, con Massimo Chiariatti e Nicola Intini. Secondo La Forgia (la cui intervista è leggibile qui), «la transizione 5.0 rischia di essere inefficace, come inefficace è stata quella 4.0». In buona sostanza, per La Forgia Industria 4.0 non ha aumentato la produttività dell’industria italiana, che da questo punto di vista è in costante declino, fanalino di coda d’Europa e degli Stati Ocse. Inoltre, se è vero che alcuni hanno acquistato macchinari interconnessi, e perciò meritevoli di incentivi, nella realtà si sono realizzate ben poche aziende al 100% 4.0, cioè totalmente interconnesse e con i conseguenti benefici economici e, soprattuttto, cambiamenti di business model.







Non è così secondo Taisch (che faceva parte del team di esperti che all’epoca ha redatto il “pacchetto Calenda” di incentivi) che ritiene «gli incentivi pubblici per la digitalizzazione efficienti, soprattutto perché poco costosi per le casse dello Stato a fronte di un grande valore aggiunto. Valore che va visto soprattutto in termini di cambiamento di paradigma: le industrie italiane hanno compreso che la via maestra è questa e che dalla digitalizzazione non si può prescindere». Anche se la portata della trasformazione è ancora limitata in termini di numero di aziende toccate e trasformate. La risposta puntuale La Forgia viene fornita da Taisch alla fine dell’intervista.

D: Allora professore, partiamo dall’ultima novità: Transizione 5.0. Qual è il suo giudizio complessivo?

R: È un giudizio totalmente positivo! La norma prosegue quanto iniziato nel 2017 con Industria 4.0, quando abbiamo di fatto preso una direzione in termini di politica industriale, abbracciando l’innovazione e anche supportandola con investimenti pubblici. La struttura del sistema degli incentivi sulla sostenibilità non è diversa da quella relativa alla digitalizzazione e quindi non crea difficoltà di comprensione o di accettazione dalle imprese italiane: ben venga! E ben venga il fatto, importantissimo, per cui i nuovi crediti si sommano e non si sostituiscono a quelli già in essere. Insomma, ci sono ancora sostegni alla Transizione 4.0.

D: In più, i nuovi acceleratori fiscali danno una direzione strategica e culturale alle imprese…..

R. Il loro principale effetto benefico è proprio questo! Effetto ben superiore a quello delle agevolazioni economiche, che comunque non è trascurabile. Con Transizione 5.0 si spinge fortemente le aziende a immettere sul mercato quei prodotti verdi che oggi i consumatori chiedono sempre di più. Si prepara l’Italia a cogliere quell’opportunità di mercato. Ultimo, ma non meno importante, noi siamo grandi esportatori e quindi, anche se l’incentivo vale per gli acquisti di macchine in Italia, se le macchine diventano green lo sono anche i prodotti che fabbricano e che, quindi, si venderanno di più all’estero.

D: Insomma, cavalchiamo quello che sembra essere un megatrend ineluttabile: una maggiore offerta di soluzioni green, per assecondare una domanda di mercato che va verso la sostenibilità…

Corrado La Forgia, vice presidente di Federmeccanica, con delega alla Transizione Tecnologica ed Ecologica e direttore generale della Vhit.

R. Esatto. Vede, il cambiamento che innescano queste norme, è soprattutto culturale. Ed è il più importante. La sostenibilità dei consumi energetici e dell’impatto ambientale non è un tema solo romanticamente o mediaticamente interessante, ma lo è anche dal punto di vista del mercato. Il consumatore di oggi e di domani è nativo sostenibile e quindi è un consumatore che è e sarà sempre molto esigente sulla sostenibilità dei prodotti: vorrà una sostenibilità dichiarata, misurata, certificata e non un greenwashing. Per misurare, dichiarare e certificare il valore di riduzione dell’impianto ambientale serve il digitale: 5.0 e 4.0 sono strettamente interconnessi. Senza dimenticare che la cifra stanziata per il 5.0, 6,3 miliardi di euro, è una cifra del tutto ragionevole, direi contenuta, per dare una spinta iniziale a qualcosa che serve effettivamente.

D: Il tema delle soluzioni green è collegato a quello del nuovo corso dei macchinari: la servitizzazione. Un fenomeno epocale, del quale Industria Italiana ha parlato a lungo, anche con Lei…

R: Cambia il processo di acquisto, dal possesso del prodotto all’utilizzo, a partire dalla sharing economy del noleggio di auto e motorini fino ad allargarsi ai beni strumentali. Consumatori e imprese sempre più spesso non vogliono comprare un bene ma vogliono utilizzare il servizio di uso di quel bene. È un tema legato all’interconnessione perché per fornire il servizio devi raccogliere i dati dalle macchine e analizzarli (quindi necessita di sistemi connessi) e anche a sostenibilità, perché se non vendi ma noleggi, produci meno e si ha impatto ambientale. Ed esiste una inedita contemporaneità ed efficienza delle economie di scala.

D: E allora, se dovesse lanciare un appello, da presidente di Made4.0, cosa direbbe alle imprese? Cosa devono fare?

Made è un Competence Center per l’Industria 4.0 che al suo interno ha una vera e propria fabbrica digitale. Nato per realizzare attività di orientamento, formazione e finalizzazione di progetti di trasferimento tecnologico con le aziende Italiane, in particolare con le Pmi, sui temi dell’industria 4.0.

R: Devono sbrigarsi a fare qualunque cosa in termini di innovazione. Se poi l’innovazione si vuole far passare attraverso Transizione 5.0 o attraverso i Competence Center e Digital Innovation Hub meglio ancora perché sono strumenti che abilitano e accelerano il cambiamento. Ma la cosa più importante è incanalarsi nel mindset della transizione. Sbrigatevi! Mettetevi nell’ottica di fare innovazione, questo direi, e fate innovazione per una serie di ragioni: perché i mercati sono sempre più dinamici e sono erratici… 20 anni fa si potevano fare le previsioni di vendita a tre anni ed erano affidabili. Adesso anche quelle a sei mesi rischiano di fallire.  Ci vuole dunque una qualità della capacità produttiva elevata e questa qualità si raggiunge solo facendo innovazione: sul sistema produttivo, sui prodotti, sui modelli di business. E sul capitale umano, utilizzando meglio le competenze e facendo evolvere le persone insieme alle loro competenze. La formazione diventa oggi imprescindibile nella roadmap evolutiva delle imprese. Ciò detto, va specificato che questa non è una rivoluzione che prevede una cesura netta e un cambio di paradigma repentino ma è un percorso graduale, un perenne movimento. Una corsa sempre più veloce, perché il traguardo viene spostato continuamente in avanti.

D: Va bene, ma da dove si inizia praticamente per sfruttare gli incentivi del 5.0? Praticamente, come si migliora l’efficienza energetica in produzione?

R. Si parte dalla mappatura, dall’analisi di quelli che sono i più importanti consumi energetici, in relazione alle utenze a cui sono collegati. Misurare i consumi di una singola utenza non è complicato: il primo punto è questo; poi questi consumi vanno messi in correlazione con gli eventi che si verificano nella fabbrica, con i prodotti realizzati, per capire da cosa dipendono. L’IoT consente di mettere insieme consumo energetico e tipologia produttiva.

Secondo Taisch, l’IA generative per le aziende manifatturiere ha un grande valore aggiunto. Permette di analizzare rapidamente documenti lunghi e complessi, restituendo velocemente risposte a problemi complessi.

D: Insomma, è davvero ottimista sulla portata di questi nuovi incentivi. Ma ne approfitterei per fare un punto anche su Industry 4.0. Industry 4.0 nasce come soluzione dopo un lungo periodo di stagnazione della manifattura italiana, iniziato nel 2008 almeno. Ma i progressi, pur significativi, nell’adozione di tecnologie digitali non si sono tradotti in un aumento di produttività: che è rimasta ferma, a fronte di un aumento nelle consegne di macchine utensili sul mercato interno: +18,9% nel 2017 e +16,2% nel 2018. Come lo spiega?

R. Ritengo che il ragionamento su produttività ed efficacia delle misure 4.0 vada articolato diversamente, e che ci sia una complessità da rappresentare. Innanzitutto, riuscire a misurare la produttività nel 2020-2021 è veramente faticoso. Sono anni che esulano da qualsiasi media e non possono essere utilizzati come campione da nessun punto di vista: prima il Covid, poi l’aumento dei costi delle materie prime e del prezzo della bolletta energetica, infine la rottura delle catene di approvvigionamento e la carenza di componenti e semilavorati. È chiaro che con tutte incognite intervenute nel contesto, la produttività non sia aumentata: alle aziende sono rimasti i costi fissi, di personale, macchine e impianti, anche nell’impossibilità di produrre per la mancanza fisica di materie prime o componenti. Dunque usare questi anni come metro di paragone è significativamente sbagliato.

Nel 2023 i licenziamenti di natura economica sono stati 524 mila, con un calo di quasi il 7% rispetto al 2022, e confermando una tendenza alla riduzione del fenomeno. (Fonte: Istat)

D: Siamo d’accordo, ma la produttività del nostro Paese resta bassa anche allargando l’orizzonte temporale dal 2017 a oggi: questo quantomeno dovrebbe far accendere un campanello di allarme sul fatto che incentivi che coprono una frazione piccolissima delle necessità siano comunque sufficienti…

R: Bisognerebbe chiedersi che cos’è la produttività di una nazione o di un settore. La produttività è il rapporto tra l’output e i due input, che sono capitale (tra cui annovero le tecnologie digitali) e persone, ovvero lavoro. In questo senso, a parità di output, è evidente che una maggiore iniezione di capitale tenda a portare a una riduzione dell’input di lavoro in termini di ore lavorate. In questo senso, il Paese ha visto una progressiva crescita della produttività del lavoro, pari a circa lo 0,5% medio annuo nell’ultimo decennio. Questo dato è ben al di sotto all’area UE o della sola Germania ma in linea, se non migliore, con Paese nostri simili come Spagna e Francia.

L’Italia ha visto una progressiva crescita della produttività del lavoro, pari a circa lo 0,5% medio annuo nell’ultimo decennio. Questo dato è ben al di sotto all’area UE o della sola Germania ma in linea, se non migliore, con Paese nostri simili come Spagna e Francia. (Fonte: Istat)

Se guardiamo al settore manifatturiero, maggiormente beneficiato dai Piani Industria 4.0, la crescita è stata anche più accentuata fino a +6,8% rispetto al 2015 (anno precedente il Piano Nazionale Industria 4.0). Vi è tuttavia un tema di formazione e cultura digitale che è ancora un nervo scoperto per molte realtà e che limitano l’effetto propulsivo degli investimenti sulla produttività del lavoro. Ancora, se il sistema del lavoro è rigido è un ulteriore elemento peggiorativo e lo dimostra il fatto che negli Stati Uniti la produttività sia schizzata in un contesto di mercato del lavoro fluido, che consente alle aziende di alleggerirsi sui costi del personale nei momenti di contrazione e di ripartire con la medesima serenità ad aumentare il personale quando l’economia riparte. Sembra un paradosso, ma in Italia la disoccupazione dipende in parte anche dalla rigidità del mercato del lavoro. E allora è illusorio pensare che con i soli incentivi fiscali per la digitalizzazione delle imprese si aumenti la produttività di un Paese. Tuttavia, in assenza di uno scenario controfattuale, possiamo solo ipotizzare quale sarebbe stato l’andamento di produttività in assenza di un piano di sviluppo del 4.0 coerente con le politiche attuate dai nostri principali partner e competitor internazionali. Senza considerare che la produttività del Paese è anche quella della pubblica amministrazione, e se la pubblica amministrazione non investe e non migliora i suoi Kpi, gli economics del paese non avanzano. Non c’è solo il settore privato e manifatturiero.

D: C’è anche un altro tema che La Forgia mette sul tappeto: la questione della connessione reale di tutte le macchine, che di fatto non è avvenuta. O per lo meno non è avvenuta in maniera olistica. Non si è mai realizzata – per dirla in altri termini – la smart factory dove i dati vengono scambiati e analizzati e trasformati in valore…

Uno dei vantaggi di Industry 4.0 è la flessibilità: a differenza dei sistemi tradizionali, quelli 4.0 non sono olistici e pervasivi, ma modulari.

R: Le macchine incentivate devono essere per forza connesse, altrimenti vorrebbe dire che le aziende hanno usufruito di un incentivo fiscale senza averne diritto. Tra i famosi criteri per ottenere il beneficio fiscale c’è sempre stata la connessione del macchinario e la capacità di scambiare dati in via bidirezionale. Certamente, un conto è connettere un macchinario un conto è connettere l’azienda: avere un impianto 4.0 non vuol dire che tutta la fabbrica diventa in automatico 4.0. Ma anche connettere le macchine in maniera indiscriminata senza ragionamento è sbagliato. Ci vuole strategia alla base. E molti processi non possono che essere incrementali, progressivi. Uno dei vantaggi del 4.0 è la flessibilità: a differenza dei sistemi tradizionali, quelli 4.0 non sono olistici e pervasivi, ma modulari. Ovvero si può connettere una macchina alla volta e si può allargare ed estendere il 4.0 in maniera graduale. In fabbrica possono coesistere macchine 2.0, 3.0, 4.0. E meno male che è così.

D: Certamente, Industry 4.0 ha avuto alcuni meriti indiscutibili. Il maggiore è stato probabilmente quello di aver portato cambiamenti soprattutto culturali…

R. Le ricadute sul fronte culturale sono state decisive. Le misure hanno avuto il merito di proiettare la manifattura al centro del dibattito, al centro delle politiche e delle relazioni industriali tra le associazioni di categoria e i sindacati: è stata riaccesa l’attenzione sulla necessità di formare le persone sulle competenze e sui settori strategici del Paese. Veramente questi incentivi hanno innescato una rivoluzione più culturale che tecnologica, in Italia ma anche negli altri paesi in cui si è parlato di 4.0.

D: Fin qui, abbiamo fatto un discorso qualitativo. I numeri ci dicono però anche che l’adozione delle nuove tecnologie si è sviluppata con un forte ritardo nelle imprese di minori dimensioni. Un importante studio condotto da Bratta et al. (2020, ne abbiamo parlato qui) mostra che le microimprese (con meno di 10 dipendenti) sono clamorosamente sotto-rappresentate nell’accesso agli incentivi dell’iper-ammortamento: in particolare, alle imprese con meno di 10 (il 95% del totale) è riconducibile poco più del 7% del totale degli investimenti incentivati nel 2017.

R: Il punto, secondo me è un altro. Le grandi imprese hanno più facilità a fare politiche di formazione, perché possono dare vita a economie di scala. Hanno un vantaggio innegabile che è la capacità di creare un fattore moltiplicativo di efficienza, perché in genere hanno all’interno le persone che sanno quello che si deve fare dal punto di vista strategico. E poi perché una volta avviato il piano formativo, esso scarica su 500-mille persone e ha un costo unitario basso. Una piccola azienda non ha queste due caratteristiche: non ha competenze strategiche nella formazione e il costo della formazione per unità è molto elevato. Investire in formazione resta comunque una responsabilità in capo alle imprese: se si investe per comprare una macchina più veloce e poi non si insegna a guidarla, l’investimento è zoppo. Qualcuno all’inizio diceva che fosse complicato usare l’incentivo alla formazione perché c’era l’accordo di primo e secondo livello che però è stato eliminato subito: insomma, non ci sono alibi, bisogna agire. E se non avviene è perché c’è un tema culturale di scarsa sensibilità dell’importanza delle competenze. In questo senso i Competence center possono fare moltissimo: perché consentono di condividere gli investimenti in formazione con altri soggetti e perché, essendo enti no profit, offrono prezzi unitari bassi.

D: Parliamo di numeri. Quanta formazione riesce effettivamente a fare un Competence Center? Parliamo di Made che è sicuramente quello più evoluto e quello con un focus più centrato su Industry 4.0…

Nel 2023 Made ha erogato più di 10.000 ore uomo di formazione e in tre anni oltre 37 mila ore uomo.

R. Noi abbiamo fatto nel 2023 più di 10.000 ore uomo di formazione e in tre anni oltre 37 mila ore uomo. Inoltre Made ha la capacità produttiva per erogare tre volte quattro volte la formazione che ha fatto lo scorso anno. E inoltre, il 67% delle imprese presso cui abbiamo somministrato questa formazione sono Pmi. Le prospettive sono ancora ampissime e tutte da esplorare. E c’è un altro punto che va sottolineato. Ovvero che il modello dei Competence Center funziona ed è molto efficiente dal punto di vista della spesa pubblica. Noi abbiamo costruito e avviato Made con 7,5 milioni di euro di investimenti pubblici ricevuti nel 2019, riuscendo a far leva sugli investimenti privati e quindi riuscendo a raccogliere altri 12 milioni con l’approccio virtuoso della Ppp – Public private partnership. Se dividiamo la cifra di avvio per il numero di ore uomo di formazione somministrate, ne ricaviamo un costo unitario del servizio bassissimo: circa 10 euro l’ora a persona!

D: Certo che siete stati bravi, ma le persone che avete formato sono poche migliaia, una cifra bassissima rispetto al sistema Italia. Un’avanguardia virtuosa, ma pur sempre una minoranza. Per questo motivo, a esser molto critici si potrebbe dire che Industria 4.0, con i suoi Competence Center e Dih, non ha certo cambiato la struttura del sistema produttivo italiano.

R. Il motivo però non è certo l’inefficienza dei Competence Center italiani. Il fatto è che ce ne vorrebbero molti più: non 8, ma 16, 24 o 32. Basterebbe ri-orientare una quota parte dei fondi del Pnrr: stanti le cifre di cui sopra, basterebbero 75 milioni per aprire altri 10 Competence Center. Spiccioli a fronte del potenziale impatto. Soprattutto se i nuovi enti fossero avviati con un pensiero strategico alle spalle: i Competence Center vanno fatti non ovunque, ma laddove c’è un sistema industriale: Milano, Varese, Como, Brescia e Bergamo. Probabilmente in Puglia, nelle Marche e in quegli altri territori a forte vocazione industriale.














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