Manifattura italiana, allarme rosso: produzione calata del 20% dal 2008

di Laura Magna ♦︎ Servono riforme strutturali che incidano sulla produttività, ma che non sono previste nell’attuale legge di bilancio. Il rischio è di veder sfumare il boost dato dagli incentivi di industria 4.0. E la crisi tedesca (l’automotive ha perso il 14,4% a/a) sta rendendo vulnerabili i nostri produttori di componenti e macchine. Ma che fare? Ne abbiamo parlato con i professori Luca Beltrametti e Marco Taisch

La manifattura tedesca prosegue la discesa verticale e tira a fondo con sé componenti e macchine italiane. Che rischiano di veder sfumare il boost che gli arrivava, dal 2017, dagli incentivi di industria 4.0. Tuttavia, nel lungo periodo, questa condizione che oggi crea sofferenza potrebbe ammorbidire le politiche fiscali dando qualche respiro all’economia. A patto che da parte del governo, anziché proclami di uscita dalla recessione, arrivi un’assunzione di responsabilità per quella che è, a ogni effetto, una situazione di emergenza.

Ne abbiamo parlato con Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova e con Marco Taisch, professore di Advanced & Sustainable Manufacturing Systems alla School of Management del Politecnico di Milano. Mentre Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Wm Italy, ci ha spiegato come l’economia stia cambiando e dipenda sempre meno dalla manifattura, anche in Europa.







 

I numeri tedeschi

Ma partiamo dai numeri. Il dato di ottobre della produzione industriale tedesca è quello che ha fatto drizzare le antenne: -5,3% anno su anno e -1,7% rispetto al mese precedente, peggio della più pessimista delle attese. Non solo: è il dato peggiore dalla crisi del 2009 e soprattutto è ormai un anno che le fabbriche tedesche soffrono. Trainate a picco dall’automotive che ha perso il 14,4% anno su anno (e il 5,6% rispetto a settembre) mentre le maggiori case automobilistiche hanno annunciato che sono a rischio 50mila posti di lavoro sugli 830mila totali.A sostenere l’economia tedesca (+0,1% nel terzo trimestre) una maggiore spesa pubblica e i consumi, mentre l’export ha ripreso fiato nell’attesa di una tregua, seppur temporanea, nella trade war tra Usa e Cina.

 

L’impatto della crisi tedesca

Il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte

Ma questo crollo non riguarda solo la Germania e ha almeno tre tipi di impatto. Il primo, che ci interessa più da vicino, è sui produttori di componenti e macchine italiani, partner fedeli e interconnessi dei tedeschi; il secondo è sull’Europa, costretta a ripensare se stessa sulla base di modelli industriali nuovi; il terzo è sulla transizione verso l’auto elettrica che, mentre è ancora più un’utopia che una realtà possibile, sta distruggendo valore reale. Tutto questo avviene mentre il nostro premier Giuseppe Conte dichiara con incomprensibile entusiasmo che il Paese sia fuori dalla recessione e contestualmente la nostra produzione industriale registra un -2,4% (che non ingloba l’ulteriore rallentamento tedesco) e l’Istat stima che il Pil reale si fermerà a +0,2% nel 2019 e a +0,6% nel 2020, dal +0,8% dello scorso anno. Con rischi al ribasso «rappresentati da possibili evoluzioni negative dei conflitti tariffari e delle turbolenze geopolitiche con riflessi sfavorevoli sull’evoluzione del commercio internazionale e sul livello di incertezza degli operatori», spiega l’Istat nel report.
Il Paese è fermo: dal Pil alla spesa delle famiglie, dagli investimenti fissi alle esportazioni, non c’è una sola componente che migliori rispetto al recente passato.

 

Quanto pesa la crisi tedesca sull’Italia

Evoluzione del fatturato nel 2019. Fonte Rapporto dei Settori Industriali del centro studi di Intesa Sanpaolo in collaborazione con Prometeia

Allora partiamo dal primo elemento: l’impatto sull’Italia. Secondo l’ultimo Rapporto dei Settori Industriali del centro studi di Intesa Sanpaolo in collaborazione con Prometeia, “i legami di filiera sono uno dei canali preferenziali di trasmissione degli shock tra un’economia e l’altra. Le forti interrelazioni tra Italia e Germania stanno esponendo il manifatturiero italiano al rallentamento dell’automotive tedesco”. Lo stesso report cita il World Input Output Database (WIOD) per evidenziare il ruolo centrale dell’Italia nella fornitura di alcune tipologie di componenti alle auto tedesche. “Spiccano i contributi della filiera Metallurgia e Prodotti in metallo, dello stesso settore degli Autoveicoli (componenti), della Meccanica, degli Altri intermedi (gomma-plastica), degli Intermedi chimici, del Sistema moda (tessile-pelletteria per l’automotive). Complessivamente, il nostro paese apporta una quota di valore aggiunto del 2,4% alla produzione tedesca di autoveicoli, contro il 5,5% dell’intero aggregato Est Europa, che vede in testa la Polonia (con una quota di valore aggiunto del 2%)”.
Il risultato è una maggiore vulnerabilità dei nostri produttori al rallentamento in atto nella filiera: il cliente Germania pesa circa un quinto sul valore aggiunto manifatturiero che l’Italia destina all’automotive mondiale (filiera domestica inclusa), una quota non trascurabile.  E non a caso tra i settoriautoveicoli e moto, chiuderanno, secondo Intesa e Prometeia, ancora in negativo del fatturato 2019 (-2,3% a prezzi costanti), “per poi lasciare spazio ad un trend di crescita moderata (+1,3% medio annuo nel 2020-21), anche se ancora insufficiente per riportare un equilibrio nel quadro settoriale”. Le difficoltà dell’automotive stanno penalizzando anche l’attività dei produttori di beni intermedi attivi lungo la sua catena del valore, dalla metallurgia, ai prodotti in metallo, all’elettrotecnica, alla gomma plastica e agli intermedi chimici.

 

… e sull’Europa (che deve ripensare se stessa)

Il crollo tedesco ha due cause: la prima è la crisi dell’export generata dalla guerra commerciale tra Usa e Cina, la seconda (lo vedremo più avanti) è il cambiamento di paradigma nel mondo dell’auto. «Il modello economico europeo è più vulnerabile di altri allo scenario attuale in cui la guerra commerciale rappresenta un rischio sensibile. La strategia economica seguita dall’Europa è centrata su competitività ed export, rendendoci un’economia più aperta ed esposta a shock esterni», secondo Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer Ubs WM Italy. «È una differenza importante rispetto agli Stati Uniti che, essendo concentrati sulla domanda interna, risultano meno esposti. Nella zona euro le esportazioni lorde rappresentano il 28% del PIL, oltre il doppio rispetto agli Stati Uniti e quasi 10 punti percentuali più di Giappone e Cina. Quest’ultima è cresciuta soprattutto grazie all’export, ma sta ora trasformando il proprio modello economico in favore della domanda interna». Secondo il l’esperto di Ubs Wm Italy, i tassi di crescita del Pil sono, in Europa, ancora positivi, perché l’economia è sempre meno sbilanciata nei confronti dellaproduzioneindustriale. «Abbiamo sotto gli occhi tanti esempi di prodottiindustrialiche si sono dematerializzati o che si sono trasformati in servizi. L’industria della musica e cinematografica ha visto una drastica riduzione del proprio prodotto «fisico» a favore di file scaricati da Internet. Girando per le principali città europee non si può non notare come anche l’automobile spesso venga offerta come un servizio dai diversi operatori di car sharing. Le nuove generazioni sono meno legate al possesso fisico dei beni e vivremo un’accelerazione in questa direzione. A livello globale probabilmente l’Europa è l’area economica più orientata all’industria, ma anche nel nostro caso i servizi rappresentano la quota maggiore dell’economia. In Germaniala manifattura rappresenta solo un quinto dell’economia, in Italia un sesto, in Francia un decimo. Proprio per queste ragioni, una recente ricerca della nostra Investment Bank suggerisce che, nel caso di una contrazione significativa della manifattura, c’è solo il 30% di possibilità che l’intera economia entri in recessione», spiega Ramenghi.

 

Da dove deriva la crisi dell’auto, secondo Beltrametti

Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova

Le cause della crisi sono diverse. «La sensazione è che innanzitutto il ciclo espansivo stia terminando in tutto il mondo. Se questo è un dato congiunturale, ci anche fattori strutturali preoccupanti», dice a Industria Italiana Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova. «Il più importante è il dato sull’automotive che, come detto, è crollato di oltre il 14% rispetto al 5,3% dell’industria nel suo complesso. L’auto è l’epicentro della crisi. Sembra difficile attendersi un rapido recupero: perché lo status quo dipende alla transizione all’elettrico che è tutt’altro che banale. Le tecnologie sono tutt’altro che mature e batterie ricaricabili nell’ordine di dieci minuti sono molto lontane. L’industria tedesca farà fatica a trovare un nuovo assetto. A questo si aggiunge il fatto che il settore dell’auto non solo soffre la transizione verso tecnologia elettrica, ma è investito dalla rivoluzione digitale e dal car sharing che allontana dal tema del possesso dell’auto, che diventa commodity e meno status symbol. Il settore dell’auto è impattato due volte».

 

Il governo italiano deve assumersi la responsabilità di dichiarare lo stato di emergenza

E se al momento la crisi dell’auto tedesca trascina nel baratro le imprese italiane, soprattutto i produttori di macchine che rischiano di vedere sfumare il boost dato dagli incentivi di industria 4.0, nel lungo termine la crisi tedesca potrebbe essere positiva. «È ragionevole pensare che ci sarà un ammorbidimento. I tedeschi diverranno meno rigorosi in termini di regole fiscali e di questo potrà beneficiare anche l’Italia. Dovrebbe però intervenire anche la politica locale. L’ultima Finanziaria è del tutto inadeguata, un pannicello caldo. Osservo una totale assenza nelle parole e nelle azioni del governo di un senso di urgenza. Un governo che è l’unico dell’Ocse che in venti anni ha visto diminuire il reddito pro-capite e la cui produzione industriale è calata del 20% dal 2008. È intollerabile un governo che si balocchi con la tassa su bibite gasate e su macchine da gioco, di fronte a un Paese con problemi gravi. Ho paura che questo ottimismo un po’ ingenuo, infondato, non supportato da argomenti seri, di facciata, alla fine non sia in grado di rilanciare le aspettative. Difficile che un imprenditore in Italia decida di investire in un momento del genere. Dovrebbe ripristinarsi quel senso di urgenza e di emergenza che c’era in agosto con lo spread a 300 ma poi è sfumato», continua Beltrametti. Intanto la produzione industriale italiana a ottobre ha perso il -2,4% ma partendo da una base molto più debole di quella tedesca. «Non si vede ancora l’effetto del crollo della Germania e si aggiunge uno stato delle aspettative molto piatto, anche per l’azione del governo».

 

Taisch: la Germania è un’occasione per far ripartire l’Italia

direttore dell'Osservatorio Industria 4.0|Le competenze più importanti per Industria 4.0.|Marco Macchi
Marco Taisch, presidente di Made e docente al Politecnico di Milano

Anche secondo Marco Taisch, professore di Advanced & Sustainable Manufacturing Systems alla School of Management del Politecnico di Milano, «Il dato tedesco non sorprende, avevamo già avuto dei segnali, e permane l’incertezza da un lato legata alla guerra dei dazi tra Cina e Usa, dall’altro all’evoluzione dell’automotive da cui dipende l’economia tedesca. La mia sensazione è che molti stiano aspettando per acquistare l’auto nuova per scegliere tra diesel o ibrida o elettrica a seconda della tecnologia che risulterà predominante. E questo rallenta le immatricolazioni e contribuisce ulteriormente alla flessione del settore e di conseguenza di tutto l’indotto che segue». Un indotto di cui, come abbiamo visto, l’Italia ha una parte fortissima: «I produttori di beni strumentali italiani hanno fermato gli investimenti prevedendo questo rallentamento. Noi siamo fornitori di componenti auto ma soprattutto di macchine. I produttori di macchine per il taglio laser, per esempio, stanno risentendo in maniera tragica di questo rallentamento dell’industria tedesca. Passando da Oem a fornitore c’è un’amplificazione della perdita. In questo senso questo il crollo della manifattura tedesca è preoccupante perché siamo fornitori di beni strumentali e dunque il rallentamento sarà ancora più significativo».

Ma questo rallentamento ha un impatto anche sull’Europa nel suo insieme. «La Germania è il motore dell’Europa: allora sarebbe interessante andare a vedere cosa succede agli altri Paesi dell’Europa che stavano crescendo. In Italia, il Pil varia da -0,1% del trimestre precedente a +0,1%, il premier parla di fine della recessione, la verità è che siamo bloccati nella trappola dello zero virgola. Il problema è che noi abbiamo accumulato crescita zero per anni mentre gli altri crescevano. Un dato che deve essere letto insieme alla stagnazione della nostra produttività che continua a non metterci in condizioni di competere. Dire che cresciamo senza andare a vedere come sta cambiando la produttività del Paese è ignorare una parte fondamentale del problema, ovvero che la debolezza dipende dalla stagnazione della produttività. Non siamo capaci di essere più efficienti e questo nel medio lungo periodo lo paghiamo».

 

… ma servono riforme strutturali che incidano sulla produttività

Ciò detto, le politiche fiscali devono essere fatte «ma nella legge di bilancio non ci sono in Italia», precisa Taisch. «Ci sono solo leggeri aggiustamenti rispetto alla politica di bilancio di due anni precedenti e soprattutto non vedo riforme strutturali, interventi che consentano nel medio lungo periodo di recuperare quella produttività che ha un effetto espansivo sull’economia. È una legge di bilancio di galleggiamento. Vedo una serie di misure di brevissimo periodo e che a mio avviso sono più di carattere elettorale. La domanda è avremmo potuto fare qualcosa di diverso? Con i nostri conti è molto difficile. Però, un’alternativa esiste per stare nei parametri deficit/Pil ed è quella di far aumentare il Pil per migliorare il ratio, anziché puntare sempre a ridurre il debito. Il problema è che continuiamo a essere penalizzati da un Pil che non cresce. Dovremmo poter sforare i parametri per investire non in spese correnti, ma in riforme strutturali, infrastrutture che incidano sulla produttività. Questa nuova Commissione e la condizione della Germania può agevolare questa dinamica», conclude il professore del Politecnico.














Articolo precedenteLe parole di Gualtieri: finalmente una visione di politica industriale e un progetto di sviluppo!
Articolo successivoMarc Baret e le nuove frontiere di Rockwell Automation






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui