Eureka: le imprese italiane hanno ripreso a investire!!! Ma manca la fiducia, e non basta ancora…

di Laura Magna♦ Le imprese italiane hanno ripreso a spendere soldi per crescere, come prima della crisi. Ma non è sufficiente: devono fare di più, impiegando anche la liquidità in eccesso che attualmente hanno in cassa. Le risorse interne nette nel 2017 sono state pari al 3,7% del fatturato, 1,2 punti percentuali in più rispetto a quelle a disposizione nel 2007 (2,5%). Lo sostiene una nota il Centro Studi di Confindustria

Il tema degli investimenti è cruciale per la solidità delle imprese produttive, e rappresenta un indicatore di grande importanza. In Italia. poi, è un tasto particolarmente dolente. Sulla base di un ampio campione di bilanci di imprese industriali italiane (circa 30mila), i ricercatori del Csc (Centro studi di Confindustria) concludono che la redditività operativa sarebbe praticamente tornata sui livelli pre-crisi, anche a fronte di una minore disponibilità di credito bancario scaturita dalla crisi stessa, che non ha avuto grossi impatti perché nelle medie le imprese hanno imparato a gestire meglio le risorse operative e il mercato dei capitali. E dunque hanno fatto la propria parte: lo dimostra il fatto che gli investimenti produttivi siano tornati su valori del 2007 e non solo per effetto degli incentivi fiscali di Industria 4.0, ma anche di una maggiore attenzione delle imprese alla gestione non operativa (meno oneri finanziari) e al capitale circolante (meno crediti e debiti commerciali).

Dati alla mano le imprese hanno costantemente ridotto le risorse assorbite dagli investimenti finanziari, restando concentrate sul core business industriale. Ma non basta ancora: è necessario un passo ulteriore. La conseguenza di questa migliore gestione ha portato a un accumulo di una liquidità in bilancio che è addirittura superiore a quella rilevata nel 2007, ma che non si traduce in ulteriori investimenti produttivi e dunque in incremento di competitività necessaria alla crescita. E questo vale soprattutto per le piccole e micro imprese, quelle per cui il credit crunch ha morso più forte e quelle con la maggior avversione al rischio, soprattutto nell’incertezza imperante. Senza un’iniezione di fiducia la parte più rilevante della nostra economia industriale, il 90% delle microimprese su cui essa si sostiene, difficilmente, nonostante fondamentali in linea, potrà ripartire.







Il campione: 30mila bilanci manifatturieri

Ma vediamo in dettaglio i risultati dell’indagine. Innanzitutto, si tratta di una ricerca che ha preso in considerazione circa 30mila bilanci di impresa (il 7% delle industrie italiane): la base di riferimento è la popolazione delle società di capitali italiane appartenenti alla manifattura (con esclusione delle imprese che godano della contabilità semplificata). La composizione del campione per dimensione delle imprese incluse risulta relativamente sbilanciata verso le medio- grandi, rispetto all’universo delle imprese industriali. Le micro-imprese per
numerosità sono decisamente sotto rappresentate (il che in parte può distorcere la percezione): sono il 13% nel campione, rispetto all’82% nel totale dell’industria; per addetti, si fermano all’1%, rispetto al 23% nell’intera popolazione di aziende. Più avanti però vedremo anche i risultati relativi a questo segmento del campione, che sono in effetti significativamente difformi dalle medie.

 

palazzo confindustria
Sede di Confindustria, Viale dell’ Astronomia, Roma

 

Il Centro Studi Confindustria e il Cerved hanno ricostruito, sulla base di dati di bilancio, il cosiddetto “flusso dei fondi” per le imprese manifatturiere italiane a due date significative: il 2017, l’anno migliore per l’Italia all’uscita dalla seconda recessione e prima della frenata del 2018; la situazione pre-crisi, fotografata nei dati sul 2007. In sostanza il flusso dei fondi è il risultato di una riclassificazione dei dati di bilancio che consente di illustrare la relazione tra gli investimenti produttivi realizzati dalle imprese e le risorse interne ed esterne disponibili per finanziarli.

Una maggiore attenzione alle risorse migliora la redditività

La prima osservazione rilevante è che nel 2017 l’auto finanziamento lordo, cioè le risorse interne derivanti dai proventi della gestione operativa delle imprese, al netto dei costi (per lavoro, materie prime, servizi), è stato pari al 7,9% del fatturato, analogo all’8% osservato nel 2007. Un ritorno alla normalità, che dipende anche da una migliore gestione non operativa: oneri e proventi finanziari, partite straordinarie, imposte, distribuzione di dividendi ai soci valgono il 3,5% del fatturato (rispetto al 4,4% del periodo pre-crisi).

In particolare, le imprese sono riuscite ad attutire il peso degli oneri finanziari (0,8% da 1,5%) e persino a distribuire più dividendi (2,4% dall’1,9%), grazie ai tassi agevolati della Bce ma anche, secondo gli analisti, grazie anche alla minore pressione fiscale, determinata nei dieci anni in oggetto da riduzione dell’aliquota di imposta Ires; eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap; super ammortamento e sgravi contributivi per i neo-assunti a tempo indeterminato.
Ma non solo: le imprese sembrano aver imparato anche a gestire meglio il capitale circolante che ha assorbito solo lo 0,7% del fatturato, contro l’1% del 2007. “Emerge quindi che, all’uscita della crisi, le imprese italiane sono divenute più attente anche nel contenere le dilazioni e i ritardi nei pagamenti da e per fornitori e clienti.

Voci di bilancio che in Italia hanno avuto, storicamente, un ruolo significativo”, scrivono Cerved e Confidustria. In particolare, la variazione dei crediti commerciali nel 2017 è stata pari solo allo 0,9% dal 2% del 2007. Ne risulta che le risorse interne nette nel 2017 sono state pari al 3,7% del fatturato, 1,2 punti percentuali in più rispetto a quelle a disposizione nel 2007 (2,5%). A fronte di questa maggiore disponibilità di risorse interne, le imprese nel 2017 hanno realizzato investimenti fissi e immateriali, al netto dei disinvestimenti, per un ammontare analogo (3,8% del fatturato) e di poco inferiore al 4,1% rilevato nel 2007.

 

Più capitale proprio e meno banche

Le imprese del 2017 sono però diverse: perché se dieci anni fa il loro ammontare di investimenti era molto maggiore alle risorse interne nette, oggi i valori sono allineati. Il che, in qualche modo, ha prodotto come effetto collaterale quello di dotare le stesse imprese di una maggiore disciplina finanziaria: tanto che il saldo finanziario lordo che misura la necessità di reperire risorse esterne è oggi pari a -0,1% contro il -1,6% del 2007. Pur sommando gli investimenti finanziari in partecipazioni e la variazione di altri crediti finanziari, che nel 2017 hanno richiesto risorse aggiuntive per l’1% del fatturato (simile allo 0,9% rilevato nel 2007), complessivamente il saldo netto da finanziare con risorse esterne nel 2017 è stato di gran lunga inferiore a quello del 2007: 1% contro 2,5%.

Altro dato rilevante: le imprese cercano capitali sul mercato e non più solo dalle banche. Gli aumenti di capitale azionario hanno coperto una buona parte delle necessità finanziarie (0,8% simile al dato pre-crisi); ma è emersa una quota pari allo 0,8% del fabbisogno finanziario in arrivo dall’emissione di bond (che nel 2007 era stata inesistente). I debiti delle imprese verso le banche, viceversa, sono cresciuti nel 2017 in misura molto ridotta rispetto a un decennio prima (0,5%  del fatturato, rispetto a 1,6%), data la perdurante selettività dell’offerta.

Dalla metà del 2018, peraltro, le banche hanno ricominciato a stringere l’accesso al credito per le imprese italiane: le prospettive per i prestiti, quindi, sono peggiorate. I debiti finanziari verso altri soggetti sono addirittura diminuiti nel 2017 (-0,3% di fatturato, rispetto a 0,5% nel 2007), specie per l’assottigliarsi delle risorse a medio-lungo termine. Nel complesso, quindi, i debiti finanziari a lungo e a breve termine (bancari e non) hanno fornito risorse solo per uno 0,2% del fatturato, rispetto al robusto 2,1% del 2007.

 

Ci vuole fiducia per non annegare nella liquidità

Minore disponibilità di credito e maggiore apertura dei mercati dei capitali, hanno condotto complessivamente a una maggiore accumulazione di liquidità rispetto al periodo pre-crisi (0,8% versus 0,3%). Solo potenzialmente questa è una buona notizia. Al momento, come rilevano Confindustria e Cerved “la maggiore accumulazione di cassa e conti correnti riflette, verosimilmente, un atteggiamento più cauto che in passato, di fronte alla crescente incertezza”, pertanto “un’iniezione di fiducia per le imprese potrebbe condurre a trasformare, almeno in parte, la liquidità accumulata in ulteriori investimenti produttivi, cruciali per rafforzare la crescita in Italia. 
Dalla primavera del 2018, tuttavia, è accaduto il contrario, con il clima di fiducia delle imprese manifatturiere italiane che ha registrato una progressiva e profonda caduta”.

 

Piccole e micro più a rischio

Un ulteriore esercizio contenuto nel documento separa le imprese in basa alla dimensione, riscontrando alcune differenze significative. Non sorprendentemente le micro e le piccole imprese sono le più in difficoltà. E questo proprio per il tema della scarsa propensione a impiegare una liquidità – che per le micro e piccole imprese è anche più rilevante – in investimenti. A fronte di una variazione della liquidità che per le piccole e micro è dell’1,1% nel 2017 (contro lo 0,1% del 2007) e superiore sia all’1% delle medie imprese che allo 0,5% delle grandi, gli investimenti netti valgono il 2% del fatturato (dal 2,9% del 2007) contro il 3% delle medie dal 3,5% e il 4,9% delle grandi imprese (che sono prossime al 5,1% del 2007). “Le grandi imprese sono quelle che riescono a tenere gli investimenti produttivi più vicino ai valori pre-crisi; viceversa, le medie e, soprattutto, le micro-piccole li hanno ridotti in misura significativa; sul fronte degli investimenti immateriali, ciò può indicare un ritardo delle Pmi nella digitalizzazione”, secondo gli autori del documento.

… anche perché non possono fare più affidamento sulle banche

Un dato ulteriore che evidenzia la debolezza relativa delle piccole e micro è la minore disponibilità di credito bancario che riguarda tutte le classi dimensionali, ma è molto più accentuata per le prime, essendo passata dal 2,3% del fatturato allo 0,2%, variazione che evidenzia come fossero proprio quelle che vi facevano più affidamento nel periodo pre-crisi. Le grandi imprese – per cui il credito bancario è passato dall’1,3% allo 0,7% – mostrano la maggiore capacità di diversificare le fonti di finanziamento, rivolgendosi con maggior frequenza al mercato dei capitali. L’autofinanziamento lordo per le micro imprese vale il 6% del fatturato, rispetto al 7% del 2007 mentre le media imprese hanno aumentato la propria quota sopra i valori pre-crisi (all’8,1% dal 7,1%) e le grandi imprese si sono avvicinate a quella soglia (8,4% dall’8,9%).

La redditività resta più bassa per le imprese più piccole e, meno, per le grandi; le medie imprese, invece, sono riuscite ad accrescerla in misura marcata. Piccole e medie imprese hanno visto però il maggior miglioramento del saldo finanziario lordo e netto, “il che indica un aumento della solidità patrimoniale”, ma il miglioramento nella gestione di crediti e debiti commerciali riguarda soprattutto le grandi imprese, “che verosimilmente hanno fatto valere il loro potere negoziale”, conclude il report.














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