L’IA catalizza tutti gli investimenti in Emea. Tutte le aziende la vogliono adottare, ma sull’EU AI Act… con Lenovo

di Renzo Zonin ♦︎ Nel 2024 ci si aspetta una crescita del 61% degli investimenti in varie forme di IA. Tutte le imprese stanno puntando sulla nuova rivoluzionaria tecnologia. E l'Italia per una volta è la capofila: solo il 2% delle imprese nostrane la considerano una distrazione. Ma non mancano incertezze. A partire dai costi del cloud per arrivare ai timori relativi alla privacy e alla perdita di occupazione. Ma il principale freno è la bulimia di regolamentazioni europee, che rischiano di stroncare sul nascere l'innovazione. Ne parliamo con Alessandro de Bartolo, amministratore delegato e country manager dell’Infrastructure Solutions Group di Lenovo

Le aziende di tutto il mondo credono nel potenziale dell’Intelligenza Artificiale, stanno investendo e investiranno sempre di più in questo settore. Questo il primo dato che emerge da una ricerca di Idc, “Cio playbook 2024: It’s all about Smarter AI”, realizzata in collaborazione con Lenovo, che ha raccolto i pareri di 600 cio e decisori aziendali di tutta l’area Emea (Europe & Middle East).

Secondo la ricerca, l’Intelligenza Artificiale in tutte le sue forme (generativa, interpretativa, machine learning e robotica) catalizzerà la maggior parte degli investimenti IT del prossimo anno, che vedranno una crescita intorno al 61%. Significativo il fatto che solo il 17% delle aziende Emea stia progettando di realizzare progetti IA sul public cloud, mentre la maggioranza sta prendendo in considerazione soluzioni che vanno dal cloud ibrido, al cloud privato, o addirittura all’implementazione diretta su dispositivi utente.  In alcuni settori, per esempio nel manufacturing e nel retail, un ruolo determinante nell’implementazione di soluzioni IA sarà rivestito dalle tecnologie di edge computing connesse al cloud. La possibilità di installarle molto vicine al punto di produzione dei dati da elaborare, infatti, garantisce un processamento immune dai problemi di latenza tipici delle architetture centralizzate, se non addirittura in real-time.







Con piccole differenze da Paese a Paese e da settore verticale a settore verticale, l’Intelligenza Artificiale viene vista da quasi la metà delle aziende come un “game changer”, una tecnologia che cambia radicalmente il mercato; mentre un altro 40% circa la ritiene una tecnologia che è necessario avere per rimanere competitivi. Solo circa il 10% delle aziende, infine, la considera una “distrazione”, ovvero una perdita di tempo.

Alessandro de Bartolo, country general manager Isg Italy di Lenovo.

In Italia, in particolare, le aziende che non credono nell’IA sono appena il 2% del campione. E non è l’unico primato della Penisola: siamo anche il Paese con la più alta percentuale di investimenti in GenAI già pianificata (68%, al pari dell’Olanda), e quello in cui le aziende hanno meno difficoltà a trovare personale qualificato (34% contro una media europea del 55%). «C’è una grandissima considerazione nel tessuto economico italiano rispetto a queste tecnologie» ci ha confermato Alessandro de Bartolo, amministratore delegato e country manager dell’Infrastructure Solutions Group di Lenovo, durante la presentazione della ricerca.

Tutte rose e fiori quindi nel futuro dell’Ai? Beh, non proprio. Alcune problematiche sono ancora presenti e non tutte sono in via di soluzione. Circa il 40% degli intervistati vorrebbero modelli più capaci, più semplici da addestrare e meno assetati di risorse di calcolo e storage. E un 37% si dice ancora preoccupato sia per i possibili usi “impropri” della GenAi, sia dai problemi di “allucinazioni” che ancora affliggono alcuni dei più diffusi modelli. Un altro problema da affrontare, di tipo culturale, è la paura dei lavoratori di perdere il posto di lavoro a causa della nuova tecnologia.

Secondo un’analisi condotta da Lenovo, quasi tutte le imprese in Europa hanno investito in IA o si stanno preparando a farlo. E questa volta l’Italia è in prima fila: solo il 2% delle aziende del Bel Paese la considera una distrazione. Ce ne parla Alessandro de Bartolo. 

Ma la sfida più grande, con ogni probabilità, sarà di riuscire a rispettare gli innumerevoli regolamenti, lacci e lacciuoli che l’Unione Europea sta promulgando sull’Intelligenza Artificiale, con il lodevole intento di proteggere i cittadini da ipotetiche invasioni della loro privacy. Questo fervore regolatorio rischia, se non supervisionato e moderato da tutti i player del settore, di affossare sul nascere non solo il settore dell’IA, ma anche tutte le aziende europee. Esse si ritroveranno infatti svantaggiate rispetto ai competitor stranieri, i quali potranno sfruttare al massimo le nuove tecnologie, senza dover rispettare regolamenti troppo stringenti – tanto è vero che anche la recente risoluzione dell’Onu sull’argomento è poco più che una dichiarazione d’intenti.

IA: investimenti in crescita del 61% nel 2024

Secondo l’inchiesta firmata Idc, i cio europei si preparano nel 2024 a far crescere gli investimenti in intelligenza artificiale del 61%. Si tratta di un dato in linea con l’incremento previsto nel Nord America (+62%) e molto più alto di quello previsto per la regione dell’Asia/Pacifico (+45%). Ad attrarre le maggiori quote di investimento sarà la GenAI, che fino alla fine del 2022 aveva ricevuto ben poche attenzioni rispetto alle più consolidate tecnologie del machine learning e dell’IA interpretativa. Nonostante questo, grazie al cospicuo incremento complessivo, tutte le tipologie di AI cresceranno nel 2024. Qualcuno potrebbe domandarsi dove le aziende abbiano trovato i soldi, visti i budget It sempre risicati. Ebbene, altre ricerche di Idc mostrano che in moltissimi casi le risorse per l’Ia vengono in parte “drenate” da altri progetti di digital transformation e di modernizzazione delle applicazioni.

Nel 2024 cresceranno del 61% gli investimenti nelle varie forme di IA nell’area Emea. La spesa è equamente distribuita fra robotica, GanAI, deep learning e machine learning.

È interessante notare che in Italia gli investimenti in IA sono ai massimi livelli europei. «Questa ricerca ci dice che in Italia il 68% di coloro che hanno risposto hanno già fatto investimenti in tecnologia di intelligenza artificiale, o li stanno facendo – ci ha detto de Bartolo, – E ci dice che soltanto il 2% delle aziende italiane intervistate ritiene che l’intelligenza artificiale sia una distrazione da altre cose più importanti. Quindi in realtà c’è una grandissima considerazione nel tessuto economico italiano rispetto a queste tecnologie». Quel misero 2% di aziende che non credono nell’IA, valore più basso in Europa al pari della Spagna, è in effetti la vera sorpresa in un Paese dove il motto aziendale più diffuso è “Qui abbiamo sempre fatto così”. Non solo: l’Italia è l’unico Paese europeo che indica esplicitamente l’adozione dell’IA come la priorità numero 1 per gli investimenti tecnologici. E questo nonostante la maggior parte delle aziende italiane non considerino l’IA un game changer, ma piuttosto una tecnologia da avere per motivi molto pragmatici: per esempio, per battersi ad armi pari con la concorrenza. E l’impiego prevalente, a quanto pare, dovrebbe essere nella gestione dei rapporti con i clienti tramite GenAi.

L’Italia è l’unico Paese dell’area Emea a indicare gli investimenti sull’IA come priorità numero 1.

Cloud pubblico, ibrido o privato? 

Se tutto va bene, l’incremento degli investimenti provocherà un corrispondente aumento dei carichi di lavoro di tipo IA. Ma dove verranno eseguiti questi carichi? Ebbene, la risposta non è così scontata. Sappiamo che tutti i principali hyperscaler stanno procedendo a tappe forzate per dotare i propri centri di calcolo in cloud di rilevanti capacità di esecuzione IA, con Aws ad aprire la strada e Google e Microsoft che seguono a un’incollatura. Eppure, i cio europei mostrano ben poca fiducia nelle infrastrutture di cloud pubblico, tanto che appena il 17% delle aziende conta di utilizzarle per i suoi workload Ai. Le soluzioni preferite sembrano essere il cloud ibrido (48%) e il cloud privato (24%). Situazione dunque ben diversa da quella delle regioni Asia-Pacifico (31% punta sul cloud pubblico) e più vicina a quella Nord Americana (21% di pubblico e 41% ibrido). A un primo esame, la cosa potrebbe essere dovuta alle stringenti regolamentazioni europee, che rendono piuttosto complicato implementare workload di IA su cloud pubblico mantenendo la conformità con le leggi sulla privacy dei dati.

Il cloud ibrido è la piattaforma Ai preferita dai Cio europei. Fra i motivi il timore che i dati aziendali possano venire utilizzati per addestrare i modelli di altri player.

Secondo de Bartolo, «l’interesse verso l’utilizzo di tecnologie di intelligenza artificiale porta a una riflessione ulteriore sul posizionamento non solo dei dati, ma anche degli algoritmi aziendali. La maggior parte di coloro che adottano tecnologie di intelligenza artificiale ritengono che questa debba essere utilizzata all’interno di infrastrutture cloud private o ibride. Probabilmente la motivazione risiede proprio nella criticità del progetto di intelligenza artificiale all’interno dell’azienda». Off record, de Bartolo è stato anche più esplicito: in sintesi, le aziende temono che i loro dati vengano usati per addestrare le IA di altri player. Del resto, tutti ricordiamo come la prima GenAI consumer, ChatGpt, sia sbucata all’improvviso sul mercato, con un modello addestrato usando praticamente tutti i dati pubblicamente reperibili su Internet fino al 2021. Cosa che, fra parentesi, ha portato a reazioni di vario genere, dal blocco in Italia decretato dal Garante della Privacy, alle minacce di cause legali da parte di aziende (per esempio editori e società di ricerche di mercato) i cui dati erano stati utilizzati, senza permesso esplicito, per addestrare ChatGpt.

L’edge computing avrà un ruolo di rilievo nell’uso dell’Ai, soprattutto in settori come il manufactuing e il retail.

Azzardiamo anche un’altra ipotesi: i costi del cloud cominciano a spaventare le aziende. Perché se è vero che non c’è capex e che ogni workload ha costi bassi e calcolabili, è anche vero che l’estrema facilità con cui è possibile configurare nuovi workload, o scalare in alto quelli esistenti, ha comportato per molte aziende un aumento esponenziale dei costi di abbonamento. E molte aziende stanno quindi cambiando direzione: tornano ad avere un proprio data center, magari in pay per use (pensate a TruScale di Lenovo), dove eseguire la maggior parte dei carichi di lavoro, e configurato come cloud dal punto di vista software. In questo modo si possono tenere sotto controllo sia i costi, sia la sicurezza dei dati, con l’opzione di attivare rapidamente risorse su cloud pubblico in caso di picchi di carico (cloud ibrido). A supporto di questa ipotesi, la preferenza degli europei per le soluzioni di cloud ibrido (48%) rispetto a quelle su cloud privato (24%) ha tutta l’aria di essere una situazione interlocutoria in attesa di dotarsi internamente di capacità di calcolo sufficienti per far girare on premise la maggior parte dei workload.

Le prossime sfide: i costi del cloud, il cambio culturale, le normative UE

Va tutto a gonfie vele dunque? Beh, non proprio. Se è vero l’Intelligenza Artificiale non è una tecnologia nuovissima (la si studia da decenni), è anche vero che sono pochi anni che è uscita dai laboratori di ricerca per approdare all’ambito business. E quindi ci sono ancora molte cose da sistemare.

I costi energetici dell’IA sono elevatissimi. Buona parte dell’energia, quasi metà, viene utilizzata per raffreddare i chip. Le soluzioni di raffreddamento a liquido Neptune di Lenovo permettono di ridurre i consumi energetici fino al 40%.

Il problema maggiormente sentito dagli intervistati è la necessità di modelli di maggiore capacità, in grado di trattare più variabili. Non si tratta di un problema esclusivamente software: più capacità richiede l’uso di macchine più potenti dal punto di vista computazionale e di storage. Al momento, il mondo dipende da Nvidia per la capacità computazionale in IA. E proprio con Nvidia Lenovo ha annunciato l’anno scorso una partnership volta a portare le tecnologie di IA nelle infrastrutture di cloud ibrido di qualsiasi azienda. Inoltre, altri produttori di chip stanno arrivando sul mercato con nuove Npu (Neural Processing Unit, i processori specializzati necessari per i calcoli IA), e quindi, almeno da un punto di vista squisitamente hardware, il problema dovrebbe essere in via di soluzione.

Anche se più potenza corrisponde, in genere, a maggiori consumi. «L’intelligenza artificiale consuma energia elettrica, quindi bisogna fare attenzione anche alla sostenibilità e all’impronta ambientale di questi sistemi.

Per esempio, Lenovo, con la propria tecnologia Neptune, sviluppa sistemi che riescono ad abbattere fino a 40% il consumo energetico attraverso l’utilizzo di tecnologie di raffreddamento a liquido».

Il maggior freno allo sviluppo dell’IA rischia di essere rappresentato dalle istituzioni UE, che con stringenti regole rischiano di frenare lo sviluppo e l’adozione della tecnologia nel Vecchio Continente.

Al secondo posto fra i problemi segnalati dai cio troviamo gli errori della GenAI che, come sappiamo, è soggetta ad “allucinazioni” e a volte inventa di sana pianta le risposte alle domande. Inoltre, i cio sono preoccupati dai possibili “usi impropri” dell’OA – probabilmente riferendosi alla creazione di falsi (news, video, email eccetera) – ma anche dalle modalità d’uso in azienda. «La natura opaca di molti modelli di intelligenza artificiale sottolinea la necessità per le imprese di stabilire fiducia nel loro utilizzo dell’IA e dei dati che alimentano i sistemi di IA – si legge tra l’altro nella ricerca Idc/Lenovo – I cio dovrebbero concentrarsi sulla promozione della collaborazione interdipartimentale, e sull’investimento in capacità di Ai che migliorino la gestione e la spiegabilità dei modelli».

Altre preoccupazioni dei cio riguardano la necessità di disporre di piattaforme dati affidabili, il ricorso a fornitori terzi per lo sviluppo di applicazioni GenAI, e soprattutto problemi di tipo “culturale”, come la paura dei dipendenti di perdere il posto di lavoro (il luddismo è ancora vivo e vegeto) o anche le resistenze dei reparti IT all’implementazione di tecnologie a rapidissima evoluzione come l’IA.

Ma per le aziende europee, l’ostacolo più grosso sulla strada dell’IA rischia di essere la bulimia legislativa delle istituzioni comunitarie. Già oggi, le leggi sulla privacy e l’EU AI Act in vigore dai primi di aprile (che allarga indefinitamente il concetto di IA, censisce una serie di categorie di rischio e stabilisce criteri di valutazione e conformità di ciascuna) rischiano di rendere estremamente difficoltosa la realizzazione e l’uso dell’IA nel nostro continente.














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