Tra Ponte sullo Stretto e Marocco: i programmi futuri di Fagioli

di Marco Scotti ♦︎ Logistica internazionale e sollevamento grandi macchinari: sono queste le aree di business della multinazionale, attiva nelle industry oil&gas, civile, energia, cantieristica navale, nucleare, industria mineraria e salvataggio. Con un occhio al mercato del Southeast Asia e all’idrogeno. I fondi del Recovery e… Ne abbiamo parlato con l’ad Fabio Belli

Fagioli_assemblaggio piattaforma off shore in Canada

Muoversi soprattutto all’estero continuando a sperare che in Italia cambi (finalmente) qualcosa. Investire una quota superiore al 5% del fatturato totale in ricerca e sviluppo per proseguire nel miglioramento delle tecnologie. Incrementare la presenza di personale qualificato all’interno delle aziende. Sono alcuni degli ingredienti di Fagioli, media impresa italiana specializzata in due aree di business: spedizioni internazionali e sollevamento dei grandi macchinari. Un’eccellenza nel mondo della logistica “prestata” alle grandi opere, dalle piattaforme petrolifere ai grandi ponti. Non per niente è stata una delle protagoniste del trasporto delle parti che compongono il nuovo ponte Morandi.

Non a caso è stata incaricata di smuovere il relitto della Costa Concordia dall’Isola del Giglio. Fagioli è una di quelle multinazionali tascabili che oggi spera che il Recovery Fund diventi una nuova spinta per la ripresa economica che, magari, convinca anche a lanciarsi in opere “avveniristiche”, come il Ponte sullo Stretto di Messina. Nonostante la contingenza drammatica, il 2020 si è chiuso con un fatturato in aumento rispetto ai poco meno di 200 milioni del 2019. Peccato per il 2021, salutato come un anno di forte espansione che invece si chiuderà con un risultato simile ai 12 mesi precedenti. E per il futuro la strategia è chiara: puntare sul consolidamento all’estero, soprattutto nei paesi del mondo anglosassone. Anche perché in Italia, al momento, non si vedono grandi possibilità. Anche l’idrogeno, che sembra essere la nuova speranza su cui puntano tanti colossi, da Snam ad A2a, deve ancora essere “decrittato” per raccontare quale sarà il suo sviluppo industriale e come verrà organizzata la filiera.







Fondata nel 1955 a Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia), è un unicum nel su genere perché garantisce al cliente lo sviluppo dell’intera catena logistica, dal trasporto ai progetti di sollevamento. L’azienda è attiva principalmente nei settori oil & gas, civile, energia, cantieristica navale, nucleare, industria mineraria e salvataggio. Dispone di una delle più grandi flotte di mezzi al mondo per eseguire qualsiasi tipo di trasporto e sollevamento eccezionale.

Fabio Belli, ad di Fagioli

Dal 2017 nel portafoglio del fondo di investimento QuattroR, Fagioli opera attraverso l’headquarter di S. Ilario d’Enza (Reggio Emilia) e gli hubs di Houston (Texas) e Singapore, contando 17 società operative in tutti i continenti e impiegando complessivamente oltre 600 dipendenti nel mondo. Il fatturato 2019 è stato pari a circa 195 milioni di euro (+40% sul 2018) di cui circa l’85% all’estero.

Tra le operazioni più importanti che lo hanno visto protagonista in Italia si annoverano il raddrizzamento (in gergo tecnico il parbuckling) e il successivo rigalleggiamento (re-floating) della Costa Concordia dalle acque dell’isola del Giglio; il trasporto eccezionale del Sottomarino Toti dal porto fluviale di Cremona al Museo della Scienza e Tecnologia di Milano; il coordinamento logistico per il lancio della sonda spaziale della missione Exomars; l’opera di demolizione del ponte Morandi e gli interventi di sollevamento per la ricostruzione del nuovo ponte ‘Genova San Giorgio’ progettato da Renzo Piano; e, tra i più recenti, i lavori di imbarco, sbarco e installazione della turbina a gas ad alta efficienza GT36, soprannominata “Monte Bianco”, la turbina più potente mai realizzata in Italia e prodotta da Ansaldo Energia.

«La nostra strategia – spiega l’amministratore delegato Fabio Belli a Industria Italiana – è quella comune a molte altre medie imprese italiane che guardano soprattutto all’estero. L’85% delle nostre revenue proviene da lì, o perché viene fatturato direttamente in Paesi diversi dal nostro o perché, pur se realizzato in Italia, è indirizzato ai mercati stranieri. Per “missione”, sopravvivenza e per necessità ci muoviamo fuori dai confini, ma abbiamo fiducia che le nostre infrastrutture debbano essere completamente riviste: tante di esse necessitano di manutenzione, altre vanno rifatte da zero. Ci sono quelle ovvie, come il ponte Morandi, ma altre meno note dal sistema viario a quello portuale, che necessitano di una profonda revisione».

 

Il ruolo del Recovery Fund (o Pnrr) e il Ponte sullo Stretto

Fagioli eolico offshore Spagna. Fagioli è una media impresa italiana specializzata in due aree di business: spedizioni internazionali e sollevamento dei grandi macchinari. Un’eccellenza nel mondo della logistica “prestata” alle grandi opere, dalle piattaforme petrolifere ai grandi ponti. Non per niente è stata una delle protagoniste del trasporto delle parti che compongono il nuovo ponte Morandi

L’Italia si trova di fronte alla più clamorosa opportunità della sua storia recente. I 209 miliardi stanziati dall’Europa, in parte come sovvenzioni, in parte come prestiti, possono davvero permettere a un’economia asfittica come la nostra (e il Covid non c’entra nulla) di riprendere vigore. L’importante, però, è puntare sulle giuste categorie e industry. Una di queste è ovviamente il mondo delle infrastrutture, che già nel Secondo Dopoguerra fece da prodromo al boom economico che ci catapultò tra le potenze mondiali.

«Ci troviamo a un punto di non ritorno – ci spiega Belli – perché quando un ponte crolla, non dobbiamo neanche perdere troppo tempo a parlare di allocazione di risorse: serve agire nel più breve tempo possibile riparando dove serve e manutenendo il resto. Mi aspetto che quei 209 miliardi vengano utilizzati anche per implementazioni strutturali».

Tra i progetti che sono stati annunciati e al centro del dibattito politico di queste settimane c’è anche il Ponte sullo Stretto di Messina, un’epopea iniziata quasi mezzo secolo fa e che ancora oggi non si sa se riuscirà a trovare una conferma. Con i soldi del Recovery Fund, però, le cose potrebbero cambiare in maniera significativa. «Questa potrebbe essere la volta buona – dichiara l’amministratore delegato di Fagioli – perché si potrebbe perfino trovare un compromesso sociale. Un investimento da 8-10 miliardi che dà da lavorare a 1015mila persone per quattro o cinque anni. Potrebbe offrire un’opportunità che non c’è stata prima. Non è un caso che alcune società primarie hanno già fatto i preventivi, anche perché un ponte di questo tipo deve avere i campioni italiani che lo realizzano, da WeBuild a Fincantieri. Sarei veramente deluso se un’infrastruttura così non potesse nascere dall’unione delle eccellenze nostrane».

In effetti, pare oltretutto che anche l’architettura ibrida che contempli una parte sottomarina e una esposta, in stile Manica, possa essere la più indicata, anche perché il “modello San Francisco” presenta delle oggettive difficoltà in un braccio di mare come quello compreso tra Scilla e Cariddi. Anche perché la soluzione di realizzare componenti enormi anche in diverse zone e poi farli confluire verso il punto di assemblaggio è una strategia che funziona bene.

 

Le dimensioni (non) contano

D’altronde, il Ponte di Genova lo insegna: la tecnologia e le nuove tecniche di costruzione stanno permettendo una riduzione significativa dei tempi di assemblaggio delle grandi opere infrastrutturali, oltretutto con un incremento della sicurezza in cantiere. «Per il nuovo Ponte Morandi – aggiunge Belli – abbiamo realizzato campate da 1.000 tonnellate ciascuna sollevate solo una volta ultimate. Fino ad allora si è lavorato al suolo, massimizzando la sicurezza, senza i “ponteggi” tradizionali che sono stati impiegati in passato. Sono soluzioni ad alta efficienza, tant’è che abbiamo potuto inaugurare il nuovo ponte sul Polcevera nel giro di 18 mesi, con una diminuzione dell’impatto ambientale e con meno cemento. Si tratta di un’idea nata nel mondo oil&gas e poi trasferita anche al mondo delle infrastrutture civili e che stiamo vedendo anche in Danimarca».

 

La strategia di Fagioli

Fagioli, rigalleggiamento e rimozione Costa Concordia dalle acque dell’isola del Giglio. Fondata nel 1955 a Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia), l’azienda è un unicum nel su genere perché garantisce al cliente lo sviluppo dell’intera catena logistica, dal trasporto ai progetti di sollevamento. L’azienda è attiva principalmente nei settori oil & gas, civile, energia, cantieristica navale, nucleare, industria mineraria e salvataggio

La multinazionale tascabile ha da tempo una modalità di lavoro trasversale che permette di compenetrare tutta l’architettura della logistica, dal trasporto del singolo pezzo fino al sollevamento di intere piattaforme petrolifere. Ed è questo che rappresenta un unicum in un mondo fatto da player che hanno fatturati anche centinaia di volte più grandi di quelli dell’azienda ma che, al tempo stesso, non offrono possibilità così varie. «Abbiamo dovuto acquisire perfino normative per quanto riguarda gli spostamenti – chiosa Belli – in modo da sapere come funziona il mercato del lavoro dei luoghi in cui andiamo a realizzare gli appalti. Abbiamo una struttura organizzativa piuttosto complessa con competenze trasversali. Il nostro “vanto” è anche quello di avere un’età media piuttosto bassa e che ogni anno assumiamo tra i 20 e i 30 nuovi ingegneri e tecnici. Abbiamo stretto degli accordi con le università di Parma, Reggio Emilia, Bari e Palermo per trovare competenze differenziate. Ogni anno investiamo i 10 e i 12 milioni in nuovi mezzi. Un lavoro come quello del Ponte Morandi è un po’ una “stranezza” per l’Italia, come fu per la rimozione della Costa Concordia. Abbiamo anche già siglato degli accordi con WeBuild per la realizzazione di ponti vicino a Napoli/Bari con delle soluzioni innovative che derivano dall’esperienza del ponte di Genova».

 

Uno sguardo privilegiato verso l’estero (e l’anomalia italiana)

Ma, come detto, il focus dell’azione di Fagioli è all’estero, dove viene realizzato l’85% dell’intero fatturato. L’idea di fondo è di impiegare tre hub principali con competenze di project managment, ingegneria e gestione dei mezzi: Nord America, Apac ed Emea, che serve anche per coprire il Nord Africa.

«Questo – aggiunge Belli – ci permette di essere camaleontici, perché il mercato non si muove più nel medio-lungo periodo, ma in un orizzonte temporale di un anno o due. Quindi, o hai già degli “hub” nelle grandi aree del globo, o altrimenti i costi di movimento dei mezzi che impieghiamo diventano proibitivi. Quello che notiamo, oltretutto, è che il nostro è un mondo particolarmente soggetto alle ondate. Sette o otto anni fa per esempio il mercato era estremamente attivo per la costruzione di impianti di Lng, poi si è totalmente fermato, oggi riparte».

Quello che rimane un’anomalia difficile da decrittare è l’Italia: in molti Paesi ci sono degli investimenti significativi che sono proporzionati al numero di abitanti. Da noi, che pure avremmo 60 milioni di cittadini, si realizzano piccole opere infrastrutturali che non valgono neanche la metà di quelle che vengono fatte in paesi che magari hanno solo 10 o 20 milioni di abitanti.

 

Il lavoro durante il lockdown

Fagioli, ricostruzione ponte Genova San Giorgio. L’azienda si è occupata dell’opera di demolizione del ponte Morandi e degli interventi di sollevamento per la ricostruzione del nuovo ponte ‘Genova San Giorgio’ progettato da Renzo Piano

Il settore delle infrastrutture non è stato particolarmente toccato dal Covid. Trattandosi di opere necessarie, hanno continuato a progredire al netto di qualche difficoltà di spostamento tra i paesi diversi. Tant’è che il 2020 di Fagioli, dalle stime preliminari, dovrebbe chiudersi con ricavi superiori a quelli del 2019, sfondando il muro dei 200 milioni. «Il 2021 – racconta l’amministratore delegato dell’azienda – sarà sostanzialmente in linea con l’anno appena trascorso, ma le previsioni erano di un incremento di fatturato. Oltre al Covid, c’è stato un altro fattore che ci ha condizionati, ovvero le elezioni americane. Le quali storicamente cambiano un po’ lo scenario. Fino all’inizio del 2020 sono stati messi sul piatto trilioni di dollari per la realizzazione di impianti di raffinazione, gas ed infrastrutture. Ma nei sei mesi prima delle elezioni si sono bloccati gli investimenti. E il Covid, che ha tagliato i consumi, ha dato un ulteriore spallata alle spese. Ci aspettiamo dunque che il Nord America scenda come peso specifico nelle nostre attività, ma che poi riprenda vigore nel 2022. In altri Paesi, invece, non c’è stato un blocco causa Covid così pesante, ma alcuni hanno usato la pandemia come “scusa” per evitare determinati investimenti».

 

Gli scenari futuri

Fagioli, reattore 2000 ton utilizzo heavy lift equipment, torri, tailing e gru cingolata. Dal 2017 nel portafoglio del fondo di investimento QuattroR, Fagioli opera attraverso l’headquarter di S. Ilario d’Enza (Reggio Emilia) e gli hubs di Houston (Texas) e Singapore, contando 17 società operative in tutti i continenti e impiegando complessivamente oltre 600 dipendenti nel mondo. Il fatturato 2019 è stato pari a circa 195 milioni di euro (+40% sul 2018) di cui circa l’85% all’estero

Il 2021 sarà quindi un anno di transizione, sia dal punto di vista dei ricavi, sia per quanto concerne le industry coinvolte. Diverso il discorso, invece, per quanto concerne l’idrogeno, che sarà sicuramente un asset importante ma bisognerà vedere come produrlo. E poi c’è un gradito ritorno… «Il power – aggiunge Belli – vedrà una crescita significativa in Italia con l’accordo per le turbine a bassa emissione e ad alto rendimento. Nei prossimi tre anni saremo molto impegnati da quel punto di vista».

I Paesi in cui si punterà maggiormente sono quelli del Southeast Asia, soprattutto l’Indonesia, che genera circa 20 milioni di fatturato all’anno con l’oil&gas. Si registra invece un netto rallentamento in Medio Oriente e soprattutto in Sud America. Quest’ultimo è totalmente bloccato in termini di investimento se non per quanto concerne l’eolico. «L’Africa – conclude Belli – non è mai proprio partita se non a macchia di leopardo. E il Covid non c’entra granché. In Algeria negli anni passati ci sono stati investimenti molto importanti ma ora non più, così come in Libia. Chi si sta muovendo invece è il Marocco».

Infine, c’è sempre l’enorme punto interrogativo della Cina. Fagioli ha scelto di non lavorare con Pechino in maniera cosciente. Questo perché la policy applicata nel paese è quella di subentrare progressivamente ai partner stranieri “copiando” la tecnologia applicata. Senza contare che, in materia di sicurezza, la Cina non è ancora allo stesso livello dei paesi occidentali. Si tratta di un mercato molto chiuso, fortemente autarchico e con standard non conformi alle regole europee. E quindi, seppur estremamente ricco dal punto di vista numerico, da evitare.














Articolo precedenteDa Advantech nuove interfacce Hmi per ambienti industriali
Articolo successivoIl futuro del Cluster Fabbrica Intelligente: ecosistema collaborativo e resilienza industriale






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui