Giampietro Castano: le imprese zombie vanno accompagnate a morire

di Marco de' Francesco ♦︎ Intervista a Giampietro Castano, l'uomo chiave delle crisi industriali per 11 anni. Le sue opinioni sulle politiche di Mario Draghi e su che cosa si dovrebbe fare adesso. I casi Piaggio Aerospace, Blutec, Whirlpool, Corneliani, Embraco, Ilva, Cerutti, Alitalia e tanti altri. Le conseguenze del Covid sull'Industria

«Draghi ha ragione: non tutte le aziende in crisi vanno salvate». Parola di Giampietro Castano, il “mister 130 tavoli” e uomo chiave delle crisi industriali italiane: ha guidato per 11 anni, dal 2008 al 2019, l’unità di gestione delle vertenze del Ministero dello Sviluppo economico, quella poi diretta da Giorgio Sorial e, fino a poco fa da Alessandra Todde. Infaticabile (tante le trattative chiuse all’alba), ha interpretato il suo ruolo con terzietà, lavorando con ministri di diverso colore politico: da Claudio Scajola a Flavio Zanonato, da Corrado Passera a Claudio Romani, da Federica Guidi a Carlo Calenda. «Il mio ruolo era prettamente tecnico» – ama ripetere Castano. Prima di questa lunga esperienza, gli inizi della carriera all’Enel, all’ufficio studi “servizio costruzioni termiche”; 23 anni al vertice della Fiom, prima regionale e poi nazionale; e infine direttore del personale prima di Olivetti Lexicon e poi di Engineering Ing Informatica.

Le parole di Castano hanno un orizzonte e un riferimento precisi. L’orizzonte è quello del tessuto industriale post-Covid-19. La pandemia ha aggravato la posizione finanziaria di tante imprese. Sono 81mila, secondo il Cerved Goup Score, quelle ad alto rischio di fallimento. E al Mise temono che, una volta terminato il divieto di licenziamento, il numero delle vertenze potrebbe aumentare vertiginosamente. Il riferimento è ad un discorso che il premier ha tenuto al Senato il 17 febbraio scorso, all’atto di chiedere la fiducia. “Whatever it takes” non vale per le imprese decotte. «Sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi» – ha affermato il presidente del consiglio. Parole che riflettono quanto già espresso da Draghi a dicembre al Gruppo dei Trenta, un’organizzazione internazionale di finanzieri e di accademici. In quest’ultima occasione si è acceso un dibattito che ha avuto ampi riflessi in Italia: quello sulle “aziende zombie”, quelle che, ormai improduttive, si mantengono in vita solo grazie all’intervento dello Stati. Il rischio, secondo Draghi, è quello di creare, con gli interventi governativi post-Covid, «masse» di imprese di questo tipo, «mantenendo in piedi un’inefficiente allocazione delle risorse». Occorre un approccio strategico.







Castano gli fa eco, entrando nel dibattito. Se il prodotto non ha più mercato, se non c’è più un imprenditore o se il management non è all’altezza, se il debito non è più sostenibile bisogna trovare il coraggio di “metterci una pietra sopra”. Il rischio è quello dell’accanimento terapeutico, che è un male, non un bene. Nell’industria funziona così: c’è un normale processo selettivo per cui alcune aziende spariscono, altre nascono, e altre si rafforzano. Tra le vertenze più importanti, Castano vede positivamente quella di Piaggio Aerospace, mentre manifesta seri dubbi per la Whirlpool di Napoli, per Blutec, per Jsw di Piombino, per le Officine Meccaniche Cerutti e per il progetto ItalComp. Ora il titolare del ministero dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, sta pensando di modificare radicalmente l’unità per le vertenze che Castano ha guidato, realizzando di fatto una nuova “Struttura per le crisi di impresa”, dove convogliare i quasi 100 dossier aperti. Ne farebbero parte i rappresentanti del Mise, del ministero delle Politiche sociali e di Unioncamere. È una mossa risolutiva? No, dice Castano: le vertenze le fanno le persone, e se l’unità non sarà terza e politicamente indipendente, non servirà a molto. Tutto ciò secondo Castano, che abbiamo intervistato.

 

D: Giorgetti vorrebbe dar vita ad una nuova unità di crisi, allargata e interministeriale. Cosa ne pensa?

Il titolare del ministero dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti

R: Non è così. In realtà si pensa di emanare un decreto che vada a ripescare ciò che era già stato previsto ma non attuato.

 

D: Quando era stato previsto?

R: Già il decreto interministeriale del 2007 che dava vita all’Unità di gestione delle vertenze delineava una struttura molto simile a quella che si intende realizzare adesso. Erano tempi difficili, per via dei forti contraccolpi su economia e industria causati dalla crisi dei mutui subprime: così, l’aspetto operativo ha prevalso su quello analitico, e la segreteria è diventata la parte più importante dell’unità, se non, in pratica, l’unità stessa.

 

D: Funzionerà la nuova struttura che Giorgetti intende realizzare? 

R: Non ho idea di come si intenda affrontare, con la nuova struttura, la gestione delle crisi. Le risorse per rendere operativa l’unità non mancano, perché sono state stanziate con un altro decreto, il 34/20. Ma quello delle vertenze è un campo in cui le finanze contano fino ad un certo punto: occorre forte dedizione e terzietà.

 

D: I tempi della burocrazia italiana non sono mai troppo celeri; non si corre il rischio che, prima che il tavolo interministeriale sia operativo, i casi più gravi possano diventare irrecuperabili?

R: Molte situazioni sono talmente complicate che un mese e mezzo in più o un mese e mezzo in meno non cambiano nulla. Si pensi a Blutec, l’ex Fiat di Palermo: lì la crisi va avanti da dieci anni. La cosa importante è che la struttura funzioni, e che quindi possa affrontare vicende gravi come quella citata, o come quella di Acc o della Jsw Piombino. 

 

D: A proposito della Acc di Borgo Valbelluna (Belluno), il governo Conte II intendeva associarla all’ex Embraco di Riva di Chieri (Torino) per realizzare il polo nazionale del compressore per i frigoriferi, funzionale all’intera catena europea del Bianco. Un progetto di politica industriale, finalmente.

Embraco
Embraco, veduta aerea dello stabilimento di Chieri (dal sito ufficiale dell’azienda)

R: Non sono certo che funzioni; anzi, per il vero, faccio un po’ difficoltà a crederci. La fabbrica torinese è spenta da tempo; quella bellunese non ha risolto definitivamente i suoi problemi sotto diverse proprietà: Zanussi, Acc, e i Cinesi della multinazionale Wanbao. Non è chiaro quali chance di riprendersi abbia una volta associata ad una azienda fallita. Il modello che si intende perseguire non è corroborato da un’analisi di mercato che mi porti a pensarla diversamente. Ora, mi rendo conto che vista dall’esterno l’iniziativa del governo Conte II possa sembrare lodevole; ma non vorrei che si perpetuasse un accanimento terapeutico.

 

D: Però con l’articolo 43 del decreto Rilancio, e quindi con il finanziamento del Mise, probabilmente si salverà Corneliani, nota azienda di abbigliamento di Mantova.

R: Il problema è: per quanto tempo? Lì si rischia di scontrarsi con il cambiamento dei gusti del pubblico, che non è più così tanto affezionato ai marchi di lusso nell’abbigliamento. Bisogna prenderne atto. Non so se la cosa possa stare in piedi, anche a seguito di un ridimensionamento.

 

D: Lei ha passato undici anni al Mise nell’unità di crisi. I tavoli certificati sono sempre stati tra i 130 e i 250, e molti, come abbiamo già visto, si sono protratti per molti anni. Come giudica l’operato dell’unità che ha guidato?

Jsw Piombino

R: Il bilancio dell’unità è, secondo me, molto positivo. Ci siamo trovati in un crocevia molto rilevante per le sorti del Paese, dal 2007 in avanti: la domanda interna e il Pil erano crollati, la produzione industriale era in terreno negativo per il 26% e si potrebbe continuare.  Insomma, una situazione per certi versi drammatica: così, diverse vicende di aziende in crisi molto delicate, data la scarsità di risorse che caratterizzava l’unità, furono “risolte” con dosi massicce di cassa integrazione. Proprio in quel periodo, fu inventata la cassa in deroga (intervento di integrazione salariale a sostegno di imprese che non possono ricorrere agli strumenti ordinari perché esclusi all’origine da questa tutela o perché hanno già esaurito il periodo di fruizione delle tutele ordinarie; Ndr).

 

D: Appunto, una critica che viene mossa all’unità di crisi che Lei guidava è quella di aver promosso troppa cassa integrazione.

R: Non c’era modo di fare diversamente: non si poteva lasciare per strada un milione di persone. D’altra parte non avevamo strumenti adeguati; il nostro personale era ridotto, formato per lo più da giovani molto volenterosi; quanto ai poteri, non potevamo neppure convocare l’Agenzia delle Entrate o i creditori, che invece avremmo ascoltato volentieri, anche per valutare le situazioni da diversi punti di vista. Poi, io stesso riconosco che la cassa non è una soluzione: dovrebbe essere uno strumento transitorio. Invece, in molto casi rischia di diventare cronico, e cioè pura assistenza. A Termini Imerese (caso Blutec; Ndr) questo ammortizzatore sociale è applicato da dieci anni. Certo non è colpa dei lavoratori, ma alla fine il rischio è quello di dar vita a imprese “drogate”, che dipendono dallo Stato per la loro stessa esistenza.

 

D: Qual è la giusta strategia per risolvere le vertenze?

Alitalia
Nel caso di Alitalia: sembra che lo Stato non possa rinunciare alla sua compagnia di bandiera. Evidentemente ha un valore simbolico. Bisogna poi vedere se si tiene in piedi.

R: In generale, l’idea giusta è quella di favorire una soluzione che rigeneri, nel territorio in cui opera o operava l’impresa, il tessuto economico e sociale lacerato dal suo collasso. Con talune aziende è quello che in effetti si è fatto, ma certo non con tutte.

 

D: Quali casi annovera, tra i successi?

R: Quelli in cui si è portato avanti un processo di re-industrializzazione, come per l’Ideal Standard di Roccasecca (Frosinone; nel settembre 2018 al Mise è stata siglata una intesa tra l’azienda e Saxa Glass per consentire a quest’ultima di rilevare l’impianto in continuità aziendale, quindi con tutti i 300 lavoratori e con un piano di investimenti supportato da Governo e Regioni coinvolte per 30 milioni di euro. Prima lo stabilimento faceva sanitari; ora produce sampietrini da materiale di scarto in un’ottica di economia circolare; Ndr), la Indesit di Teverola (Caserta; nell’agosto 2017 la giunta regionale campana approva l’accordo di sviluppo tra il Mise, Regione Campania e Invitalia per sostenere il programma “Litio” presentato dalla società Fib – finanziato con 37 milioni di euro di cui 20 dal ministero e 17 dalla Campania. Sono riassorbiti 75 dipendenti ex Indesit. Lo stabilimento, chiuso nel 2015, produce ora celle al litio per accumulatori industriali; Ndr) e la ex Miroglio di Ginosa (Taranto; nel settembre 2014 Logistic&Trade, firma con Mise e Regione Puglia l’accordo per acquisire parte dello stabilimento dismesso nel 2009 rioccupando in più tranche 92 addetti. L’azienda fa imballaggi per l’ortofrutta; Ndr).

 

D: Qual era, secondo lei, il punto di forza della “sua” unità di crisi, quella che Lei guidava prima di Sorial e della Todde? 

Aessandra Todde, viceministro dello sviluppo economico

R: Noi eravamo “terzi”, neutri, apolitici. Questo non significa che non ascoltassimo la parte politica. Ma poi, nelle trattative, non ci siamo mai schierati con nessuno degli attori coinvolti; e su questo aspetto, credo, si fondava la nostra credibilità. D’altra parte, ogni modifica di questo complesso equilibrio non può che generare tensione fra i portatori di interesse ed una più alta possibilità di fallimento della vertenza.

 

D: Dopo di Lei, per qualche tempo si è avuta l’impressione che per qualche mese la macchina si fosse fermata. Poi ha ripreso a funzionare.

R: Non commento il lavoro altrui. Mi limito a ribadire, ma solo per completare il discorso sulla terzietà, che il rischio di sembrare schierati è sempre presente nella nostra attività. E se le parti coinvolte pensano che l’unità sia vicina ai Cinque Stelle, o al Pd, anche se ciò non è vero, è un problema: viene meno l’impegno a trasmettere quelle informazioni sensibili e necessarie per risolvere le vertenze.

 

D: Draghi ha fatto in Senato un discorso molto chiaro: non tutte le aziende vanno salvate. È la polemica sulle aziende “zombie”: quali sono i criteri grazie ai quali si determina quali siano le aziende da salvare e quali no? 

R: Anzitutto, condivido questo punto di vista. I sindacati, ad esempio, pensano talora che un’impresa vada salvata solo perché occupa dei dipendenti; ma questi sono una parte dell’azienda, non l’azienda. Se l’impresa non ha più un mercato, se non ha un management all’altezza e se ha un debito non più sostenibile, è un’impresa zombie. E non sempre è necessario che concorrano tutte queste condizioni: talvolta ne basta una. Nessuno di noi, infatti, può affermare che una società sia viva se non è reperibile un imprenditore disposto a guidarla. Già per questo, in realtà, l’impresa non c’è più. E quindi in genere viene messa in un recinto, con qualche ammortizzatore sociale, per lasciarla morire.

 

D: Talvolta è lo Stato che diventa imprenditore per salvare l’azienda

l’Ex Ilva di Taranto

R: Come nel caso di Alitalia: sembra che lo Stato non possa rinunciare alla sua compagnia di bandiera. Evidentemente ha un valore simbolico. Bisogna poi vedere se si tiene in piedi. Poi c’è l’ex Ilva. Mettiamola così: da cittadino italiano mi auguro che questa vicenda finisca bene. Certo, la presenza maggioritaria di Invitalia costerà parecchio alle casse pubbliche, e non sono affatto sicuro che il piano industriale possa funzionare. Sarebbe stato preferibile, a mio avviso, che si fossero fatti avanti gli imprenditori privati italiani, ma ciò non è accaduto. E questo è un segno.

 

D: Un segno di che?

R: La decadenza italiana non è solo dovuta a politiche industriali che si sono dimostrate deboli o fallimentari: è anche una crisi imprenditoriale e manageriale. Le ultime generazioni di imprenditori non sempre sono state all’altezza di quelle precedenti, per coraggio, iniziativa, capacita di gestire situazioni complesse. Quanto al resto, si fatica a trovare tecnici di buon livello, di cui la Germania abbonda grazie agli Its; noi preferiamo moltiplicare i disoccupati con il titolo di avvocato. E i manager latitano, dal momento che in Italia ci sono poche scuole di formazione: la Bocconi, o il Politecnico di Milano e non molto altro. In Francia, ad esempio, non è così.

 

D: Cosa ne pensa del governo Draghi, dal punto di vista della capacità di risolvere le crisi?

Il premier Mario Draghi

R: Siamo solo agli inizi, ma penso che Draghi, che gode di un credito importante in un momento nevralgico per le sorti del Paese, abbia anche la capacità di scegliere persone molto qualificate, in grado di risolvere le vertenze.

 

D: Quanto sta incidendo il Covid-19 sulle crisi industriali?

R: Ovviamente sta già incidendo, perché è aumentato il numero delle imprese vulnerabili o a rischio di fallimento. Ma quello che pensano i più, e cioè che quando verrà meno il blocco dei licenziamenti subito si verificheranno allontanamenti di massa di personale dalle aziende, probabilmente non corrisponderà al vero. Il fatto è che le imprese, in questi mesi difficili, hanno capito che devono riorganizzarsi per competere meglio sui mercati: intendono ridurre i costi, automatizzare i processi, cercare tecnici più competenti. Dunque, si assisterà ad un periodo medio-lungo di grandi cambiamenti; e questo senz’altro comporterà la fine di alcune aziende incapaci di intercettare il cambiamento. Ma non c’è niente di nuovo in questo: è la distruzione creativa di Schumpeter (Joseph Alois, 1883-1950) che, come aveva scoperto l’economista austriaco 80 anni fa, spiana la strada ad un tessuto industriale più robusto e alla creazione di nuova ricchezza.

 

D: Il primo novembre del 2020 i 420 dipendenti della Whirlpool di Napoli sono rimasti a casa. Lo stabilimento ha cessato le sue attività produttive. Dopo qualche mese di cassa, il mese scorso l’azienda ha confermato l’intenzione di procedere con i licenziamenti collettivi a Napoli, non appena la fine del blocco lo consentirà. I sindacati chiedono la riapertura del tavolo. Accadrà, secondo Lei?

Headquarters di Whirlpool a Benton Harbor, Michigan
Headquarters di Whirlpool a Benton Harbor, Michigan. Il primo novembre del 2020 i 420 dipendenti della Whirlpool di Napoli sono rimasti a casa. Lo stabilimento ha cessato le sue attività produttive. Dopo qualche mese di cassa, il mese scorso l’azienda ha confermato l’intenzione di procedere con i licenziamenti collettivi a Napoli, non appena la fine del blocco lo consentirà

R: Il problema è che lì si era fatto avanti un’altra azienda, che aveva proposto di realizzare, in partnership con Whirlpool, una produzione alternativa a quella delle lavatrici. I sindacati hanno detto di no, ma la multinazionale non ha alcun interesse a continuare con il prodotto di prima. Si rientra nel caso in cui viene a mancare l’imprenditore.

 

D: Si era accennato, prima, all’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese. Si era aperta la strada della riconversione, con la newco Blutec, del gruppo Metec, azienda di componentistica per auto. Le cose sono andate male, e ora c’è l’amministrazione controllata.  Si può fare qualcosa, secondo lei?

R: C’è questo consorzio (S.u.d., Smart Utility District) che punta sull’economia circolare ed in particolare sul riciclo dei materiali, sulla mobilità sostenibile, sull’intelligenza artificiale e sulle energie rinnovabili.  Mi auguro che il progetto possa andare avanti, ma è anche vero che i lavoratori andrebbero riqualificati, e ormai hanno tutti un’età.

 

D: Piaggio Aerospace di Villanova d’Albenga (Alessandria) è una tra le più importanti aziende di produzione aeronautiche italiane. Nel novembre 2018, il fondo proprietario di Abu Dhabi ha chiesto l’amministrazione straordinaria per l’azienda. La crisi si può risolvere?

R: Penso di sì: lì il prodotto c’è, è l’aereo per trasporto executive P180, famoso in tutto il mondo; peraltro va manutenuto con costanza, e quindi garantisce un service profittevole. Poi ci sono i motori per aerei e elicotteri, prodotti molto appetibili sul mercato. Infine ci sono i droni, ma sono meno interessanti. Ora il commissario Vincenzo Nicastro ha deciso di fare una gara, e sono già state depositate quattro offerte, a quanto se ne sa. Non credo che ci saranno problemi perché, oltre al prodotto, ci sarà l’imprenditore.

 

D: Le Officine Meccaniche Cerutti di Casale Monferrato (Alessandria) producono macchine ed attrezzature per la stampa, soprattutto rotocalco e flexografica. Dopo anni di crescita e di acquisizioni, la crisi: e dopo il fallimento dell’anno scorso, ora la partita è in mano ai curatori, che hanno analizzato il piano industriale presentato dalla newco Gruppo Cerutti. Una parte dei lavoratori, però, non ha più la cassa straordinaria, l’altra la perderà fra pochi giorni. Come finirà questa vicenda?

Piaggio P180

R: Loro fanno macchine bellissime, in un mondo in cui si stampa sempre di meno: è un bel problema.

 

D: Sulle acciaierie di Piombino ci sarebbe tanto da dire, visto che l’attività risale al 1865. Tante le proprietà che si sono succedute: tra queste, l’Iri, l’Italsider, Lucchini, i russi di Severstal’, gli algerini di Cevital. Poi, nel maggio 2018 è stato firmato l’accordo per la cessione dell’azienda da Cevital al gruppo indiano Jsw (Jindal South West) di Saijan Jindal.  Era previsto un finanziamento statale di 15 milioni di euro ed uno regionale di 30. Secondo i sindacati, però, il piano industriale di Jsw «non può funzionare», e richiederebbe grandi finanziamenti da parte dello Stato. Tanto vale che l’azienda passi allo Stato, pensano. Qual è secondo Lei la situazione?

R: La parte dell’azienda che funziona bene è quella che produce le rotaie, e che assorbe 200 dei 1.600 lavoratori. Gli altri laminatoi non sono molto efficienti, per cui la questione è estremamente complessa.

 

D: Lei tornerebbe a fare il responsabile dell’Unità di crisi?

R: Rispondo solo se qualcuno me lo chiede ufficialmente.  Quanto a me, non ho chiesto niente a nessuno.














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