Il pasticcio della finta punizione dei Benetton, a spese degli italiani. Eppure ci vorrebbe più Stato nell’economia, ma con cervello

di Filippo Astone ♦︎ L'esito della vicenda Autostrade-Stato italiano è sostanzialmente un vantaggio per la famiglia azionista, accusata di cattiva manutenzione e della responsabilità perlomeno morale di tanti morti. Ma permette a Giuseppe Conte e ai Cinque Stelle di presentarsi come vincitori di fronte all'elettorato. Tuttavia, lo sviluppo economico - drammaticamente più urgente dopo il Covid e la montagna di debiti fatti per uscirne - avrebbe bisogno di un ruolo attivo dello Stato, con una strategia precisa e veri piani di politica industriale

Luciano Benetton, uno degli azionisti di riferimento di Edizione Holding, capofila della catena di controllo di Autostrade

Tanto tuonò che non solo non piovve, ma chi doveva bagnarsi cammina impettito e più asciutto e ricco di prima. La partita Benetton-Stato italiano si conclude cosi: niente revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, ma solo un passaggio di proprietà, con l’ente pubblico Cassa depositi e prestiti che si compra tutta la baracca dalla famiglia di Ponzano Veneto a prezzo di mercato, e accollandosi il rischio finanziario di non riuscire a quotarla in Borsa recuperando l’investimento. Certo, Aspi dovrà versare 3,4 miliardi a titolo di misure compensative, ma non è chiaro chi dovrà pagare quei soldi: la vecchia Aspi dei Benetton oppure la nuova Aspi di Cdp, cioè degli italiani?

Visto che il passaggio di proprietà dovrebbe essere immediato, il dubbio che si verifichi la seconda ipotesi-beffa è realistico. Ma comunque, anche se i 3,4 miliardi dovessero versarli i Benetton è ben poca cosa rispetto al danno potenziale che avrebbero potuto subire. E al maggior vantaggio di cui gli italiani avrebbero potuto godere. Non va dimenticato, che l’accordo prevede la rinuncia a tutti i giudizi promossi a carico di Aspi. E comunque, si tratta di una perdita risibile rispetto agli enormi guadagni fatti con la pessima privatizzazione orchestrata anni fa da Partito Democratico e Forza Italia.







Eppure, se ci fosse stata davvero la volontà di far pagare i Benetton ci sarebbero state altre strade più vantaggiose per lo Stato e per le tasche degli italiani. La prima era di proseguire con la revoca della concessione, modificando opportunamente le leggi: strada rischiosa dal punto di vista legale e sostanziale – grazie agli accordi pregressi a enorme e vergognoso vantaggio dei Benetton poteva finire molto male – ma perfetta dal punto di vista morale.

Il premier Giuseppe Conte

La seconda strada era di lasciar loro la concessione ma imporre indennizzi estremamente più elevati e condizioni di manutenzione, investimenti e tariffe assai più punitive.

Si è scelta la terza strada, che massimizza l’utile politico per il Presidente del Consiglio e il maggior partito di Governo, massimizza l’utile economico per i Benetton e punisce in silenzio i contribuenti.

Non a caso, dopo l’annuncio dei termini dell’accordo, il titolo di Atlantia è salito in Borsa del 25% e probabilmente nei prossimi giorni crescerà ancora.

Di fronte a questo accordo, inoltre, c’è una grande domanda che non trova risposta: in base a quale progetto industriale Cassa depositi e prestiti diventa azionista di maggioranza di Autostrade per l’Italia? Con quale strategia ? Per farne che cosa?

Insomma, in questa vicenda, lo Stato italiano ha dato una pessima prova di se stesso.

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Il cancelliere tedesco Angela Merkel

Nonostante il dato di fatto evidente, in linea di principio una maggior presenza dello Stato nell’economia sarebbe indispensabile. Certo, non uno Stato imprenditore vecchia maniera, o uno Stato clientelare come temono i più. Ma uno Stato in grado di realizzare politiche industriali basate su investimenti a lungo termine in ricerca scientifica e tecnologica da parte pubblica, su incentivi fiscali, su azioni di coordinamento. Politiche industriali, insomma, come quelle che hanno determinato il successo economico degli Stati Uniti di Barack Obama, della Germania di Angela Merkel (si pensi che l’industria 4.0 è un’invenzione di un piano di politica industriale tedesca del 2011) fino a qualche anno fa, di Israele, del Giappone. Uno Stato che abbia elaborato un’idea abbastanza precisa di come potrebbe crescere il Paese nei prossimi tre, cinque, dieci anni e si adoperi di conseguenza.

Solo lo Stato – come ha brillantemente dimostrato l’economista Mariana Mazzucato nel libro Lo Stato Innovatore, edito in Italia da Laterza – può farsi carico degli investimenti a lungo termine in innovazione e ricerca che poi rendono possibili i vantaggi competitivi che le aziende usano per crescere, creando lavoro, occupazione, ricchezza. Nel suo saggio, la Mazzucato ha dimostrato come tutte le recenti innovazioni in campo tecnologico (a partire da Ipad, Iphone e dispositivi touch screen) ed energetico siano nati da ricerca pubblica, prevalentemente negli Stati Uniti. Le aziende possono investire in ricerca solo se hanno una remunerazione dell’investimento ragionevolmente certa, e in tempi abbastanza certi. Per questo, sono adatte a fare perlopiù ricerca applicativa, ma sono impossibilitate a investire in quella ricerca di base lunga e rischiosa che determina il vero successo economico.

L’economista Marianna Mazzuccato

A proposito della Mazzucato, il suo incarico di consigliere economico del Presidente del Consiglio e di membro della commissione che ha redatto il piano Colao ha suscitato grandi speranze. Ma finora non si sono visti esiti. E forse non è un caso che non abbia firmato – unica fra i membri della commissione – la relazione conclusiva del team di Colao.

La centralità del ruolo dello Stato è stata riscoperta nei mesi bui del Covid: senza un intervento pubblico, il disastro sarebbe stato totale. Fame nera, in poche parole.

La stagione del Coronavirus verrà ricordata, giustamente, per la più grande crisi economica post bellica. Ma anche per aver forzato la digitalizzazione e la diffusione delle tecnologie, imponendo una modernizzazione di cui c’era assoluto bisogno. E per aver spazzato via gran parte di quella retorica anti-Stato che negli ultimi venticinque anni ha prodotto solo danni enormi, cominciati con le privatizzazioni degli anni Novanta e dell’inizio del Duemila, un gigantesco regalo di beni pubblici a un manipolo di imprenditori incapaci e rapaci.

Uno spreco che ha prodotto danni enormi per tutto il secolo successivo, giustificato dalla retorica per cui tutto ciò che era pubblico fosse intrinsecamente cattivo, e tutto il privato buono, giusto, sano, competitivo, produttore di valore economico. Una retorica assurda e contraria ai fatti: tutto lo sviluppo economico post bellico si deve allo Stato imprenditore e all’industria automobilistica largamente tutelata e finanziata da politiche pubbliche. Ancora oggi, gran parte delle grandi imprese italiane sane e ricche sono figlie di quella stagione: Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Alenia e tante altre.

La riscoperta del ruolo centrale dello Stato dovrebbe essere, potrebbe essere, un patrimonio prezioso.

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Barack Obama, ex presidente degli Usa

Il Coronavirus ha permesso di fare una politica di investimenti in deficit di cui c’era da anni disperato bisogno per creare sviluppo. Non c’erano alternative per creare sviluppo, ma le regole europee non lo consentivano. Adesso che si può, con quale progetto strategico vengono spese le decine di miliardi di debiti che vengono fatti e che domani bisognerà ripagare? Con quale visione del Paese fra cinque, dieci, quindici anni? Se prima un progetto strategico di sviluppo era urgente per permettere al Paese di tornare ai livelli pre-crisi, adesso è vitale per poter ripagare questi debiti. Ma non ce n’è alcuna traccia. Si prestano i soldi agli Agnelli-Elkann per permettere loro di incassare i dividendi derivanti dalla cessione di Fca a Psa. Si privatizza Alitalia e Autostrade per l’Italia senza ne prospettiva ne piano. Sull’Ilva e la siderurgia c’ è il buio più fitto. Per non parlare del destino della filiera dei componentisti auto – quasi tutta basata sul diesel – alla vigilia della svolta verso l’elettrico che potrebbe spazzare via miliardi di fatturati e migliaia di posti di lavoro.

Eppure. Eppure lo Stato resta centrale, almeno come potenzialità. E noi non smetteremo mai di segnalare la necessità di una politica industriale. Prediche Inutili è il titolo di un famoso saggio di Luigi Einaudi. Almeno potremo dire di esser stati in buona compagnia.














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