Le nuove regole UE per l’industria 5.0, interconnessa e sostenibile: obblighi o vantaggi?

di Piero Formica* ♦︎ Neanche il tempo di assimilare i dettami di Industria 4.0 che la Commissione Europea ha già pronto un nuovo paradigma, quello in cui la produttività si unisce alla sostenibilità. Urge rigenerare quei "serbatoi" di carbonio che abbattono le emissioni e trovare strategie che minimizzino l'impatto sull'ambiente. Facile a dirsi, ma il momento storico rischia di trascinarci in un neo-luddismo. Serve trovare una linea d'azione per manifattura ed ecologia

Mentre le imprese sono in viaggio lungo il cammino tracciato dall’Industria 4.0, la Direzione generale della Ricerca e dell’Innovazione (RTD) della Commissione Europea sposta il traguardo in avanti. Industria 5.0 è la meta verso cui tendere, come illustrato nel documento Industry 5.0: A Transformative Vision for Europe, ESIR Policy Brief No. 3.

Ambiente, clima e società spingono l’Industria vero traguardi più ambiziosi, secondo il documento della Commissione Europea

L’industria 4.0 – recita il documento in questione – non tiene conto delle prestazioni indispensabili per assicurare il necessario disaccoppiamento dell’uso delle risorse e dei materiali dagli impatti negativi sull’ambiente, sul clima e sulla società. Le catene del valore vanno progettate conformemente alle caratteristiche dell’economia circolare. Da adottare sono le tecnologie che non sostituiscono ma arricchiscono le capacità umane. La salvaguardia dell’ambiente impone la trasformazione industriale promotrice dell’efficienza energetica ottenuta con soluzioni basate sulla natura, rigenerando i serbatoi di carbonio (che assorbono più carbonio dall’atmosfera di quanto ne rilascino; per esempio: le piante, l’oceano e il suolo), ripristinando la biodiversità e creando nuovi modi di vivere in rispettosa interdipendenza con i sistemi naturali.







………ma attenzione a non cadere nelle trappole del ‘senza di noi’ e del ‘luddismo’.

Come procedere in equilibrio tra Industria ed Ecologia? Soprattutto, come ottenere il bilanciamento tra capitale umano e capitale naturale? È il possesso di capitale umano che segna la linea di confine tra chi va avanti e chi resta indietro. Nell’odierna economia della conoscenza, i beni davvero importanti sono quelli che ci portiamo nella nostra testa, aggrappandoci all’educazione che è un incessante percorso di miglioramento nell’intero arco della vita. Solo così il cervello umano si distinguerà come ‘macchina’ non eguagliabile per intelligenza e potenza computazionale. Ne consegue che il salto da 4.0 a 5.0 va fatto ‘con noi’. Si guardi alla Germania che –come scrive Alec MacGillis, su The New Yorker dello scorso 31 gennaio – ha «intrapreso uno sforzo formale per abbandonare il carbone, con una commissione nazionale e una successiva legislazione che stabilisce specifiche scadenze di chiusura per le miniere e gli impianti, e distribuisce miliardi di euro di compensazione alle compagnie del carbone, ai lavoratori e alle regioni stesse. La Germania sta cercando di mostrare come una grande potenza produttiva possa ridurre la sua dipendenza dal carbone senza causare troppi danni economici o contraccolpi politici. [Dicono i minatori], “se dobbiamo cambiare le cose per il bene della politica climatica, non ci opporremo, ma il cambiamento non può avvenire sulle nostre spalle. Deve essere fatto con noi”. Il non da farsi è un’uscita dal carbone che conduca a un declino dell’industria tedesca a causa dei costi più alti dell’elettricità. “Non si può avere una deindustrializzazione in Germania. Industria significa prosperità”».

La natura è un bene che si deprezza permettendo all’attività umana di danneggiare la biosfera. Il capitale naturale si valorizza insieme al capitale umano che, a sua volta, esige capitale sociale, vale a dire relazioni tra gli attori che avvengono in maniera orizzontale e sono basate su meccanismi di fiducia e reputazione. Per esempio, l’azione per ridurre il contributo di CO2 dell’industria siderurgica richiede un’ampia collaborazione tra industriali, legislatori, banchieri e consumatori. L’alternativa è il malcontento della gente con, a seguire, la caduta nella trappola del luddismo, quel movimento di operai che all’inizio del XIX secolo sabotò in Inghilterra i macchinari che cancellavano posti di lavoro. Non riuscendo a bilanciare Industria ed Ecologia non c’è garanzia che le nuove occupazioni che le persone potrebbero essere in grado di trovare avranno salari e condizioni di lavoro soddisfacenti al pari di quelli che hanno perso. È questo un tema scottante per l’Italia dove la variazione dai salari annuali medi reali tra il 1990 e il 2020 è stata negativa.

Industria ed Ecologia: una coppia imperfetta che impara ad utilizzare le proprie differenze facendole convivere.

Il matrimonio tra Industria ed Ecologia richiede un contratto che garantisca a tutti gli interessi rilevanti, presenti e futuri, di essere adeguatamente perseguiti rispettando le differenze tra i coniugi, entrambi consapevoli dei problemi che incrociano tre sostenibilità: ambientale, economica e sociale. Solo in questo modo l’Industria può diventare il vero motore della ‘tripla transizione’: digitale, ecologica e comportamentale. I promessi sposi trarrebbero giovamento dalle politiche che incoraggiassero gli esperimenti di ideazione incrociata tra tutti li attori coinvolti, lo sviluppo e la diffusione di pratiche per tenere insieme le vari forme di capitale: umano e naturale, sociale e aziendale.

È in questa cornice che andrebbero incastonate, come sollecita il documento in esame, «strategie di approvvigionamento ben mirate che possono esplicitamente incoraggiare e sostenere i fornitori, i produttori e i prestatori di servizi che soddisfano i requisiti di sostenibilità, resilienza e principi rigenerativi, e creare condizioni chiare sulla qualità dei posti di lavoro che vengono offerti. Le strategie di approvvigionamento possono anche includere condizioni per l’impiego di gruppi svantaggiati o sottorappresentati nel mercato del lavoro. Tali strategie di approvvigionamento equo sono particolarmente importanti per favorire il lavoro dignitoso in tutti i settori legati all’azione per il clima e alla protezione ambientale, dove gli appalti sono ampiamente utilizzati».

Nel tempo in cui viviamo i documenti sul futuro da costruire resi noti dai decisori politici corrono il rischio di parlare per enigmi, di raccontare favole, di lasciare ai destinatari l’interpretazione o, peggio, di essere retoriche dell’intransigenza, di cui discettava l’economista Albert Hirschman, che si traduce in perversità, futilità e messa a repentaglio. Un rischio evitabile se si ha piena consapevolezza sia del valore che nasce dalle relazioni tra la prosperità umana cui l’Industria tanto contribuisce e la sostenibilità ambientale, sia delle ricadute degli interventi a sostegno dell’una e dell’altra. L’Industria è, pertanto, chiamata a partecipare attivamente all’era relazionale di cui le reti tecnologiche e le catene di offerta sono solo un aspetto. Lo può fare impegnandosi nel progettare un ecosistema di relazioni interdipendenti, ciò che il fisico Fritjof Capra definiva “rete della vita”. In breve, per saltare da 4.0 a 5.0 senza cadere, l’Industria deve presentarsi ai suoi interlocutori avendo chiaro il quadro delle interdipendenze tra il suo operare e le necessità di tutti gli organismi viventi.

*Piero Formica è Professore di Economia della conoscenza. Senior Research Fellow dell’International Value Institute, Maynooth University, Irlanda. Docente e advisor, Cambridge Learning Gateway, Cambridge, UK. Presso il Contamination Lab dell’Università di Padova e la Business School Esam di Parigi svolge attività di laboratorio per la sperimentazione dei processi di ideazione imprenditoriale














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