Facebook, Microsoft, Amazon, Google, Netflix e Paypal: col Coronavirus hanno guadagnato enormemente

di Laura Magna ♦︎ Il lockdown a livello mondiale ha costretto a casa centinaia di milioni di lavoratori che si sono trasformati nel volgere di poche ore in “smart workers”. Anche se forzosamente, la digitalizzazione ha fatto passi da gigante. I Big Tech hanno incrementato fatturati e il valore di borsa dal 20 al 50% e si sono scatenati nelle acquisizioni. E hanno riserve pari o superiori allo scorso anno

Google, Facebook, Paypal, Netflix, Tencent, Zoom. Sono queste le principali aziende tecnologiche che nei bilanci e in Borsa escono ultra-vincenti dalla pandemia, come ovvia conseguenza della forzata digitalizzazione. La loro vittoria a mani basse è stata raccontata su un articolo della rivista svizzera Republik –  da  Anna-Verena Nostho, filosofa e politologa dell’Università di Vienna  e Felix Maschewski, professore di economia a Berlino. L’articolo è stato tradotto e ripreso sull’ultimo numero dell’Internazionale – numero 1364 ventisei febbraio-due luglio – che lo titola “Come le grandi aziende tecnologiche approfittano della pandemia per fare ancora più soldi”.

Il titolo della traduzione italiana e alcuni toni sono a nostro avviso troppo caricati, come se ci fosse un cinismo e una volontà predatoria che invece sono del tutto assenti, trattandosi solo di ovvie conseguenze di una digitalizzazione forzatamente accelerata. Digitalizzazione che – aggiungiamo noi – non è che positiva, aumentando la ricchezza, la crescita e il benessere dell’intera società umana. Ma l’esposizione di fatti e numeri è comunque eccellente, e fotografa molto bene alcuni passaggi di grande interesse generale. Ne riprendiamo alcuni nelle righe che seguono.







 

La parabola delle big tech Usa

La parabola sempre più ascendente delle Fang (acronimo sotto cui ricadono le big tech Usa Facebook, Amazon, Netflix, Alphabet, ma che è usato estensivamente per indicare l’intero settore) inizia il 10 aprile quando Apple e Google annunciano la loro collaborazione allo sviluppo di una piattaforma per il contact tracing degli infetti da Coronavirus. Un modo per mettere al servizio dell’umanità la tecnologia – molto tipico della narrativa Usa sulla questione, ma anche per iniziare a colmare l’enorme lacuna che lo Stato ha lasciato nella gestione della Sanità. Non è un mistero che proprio i titoli Tech, nel tracollo generale delle Borse globali, si siano mossi in controtendenza registrando in Borsa performance a due cifre da inizio anno, dal 43,8% di Facebook, al 51,5% di PayPal, al 20% della cinese Tencent fino allo stellare 255% di Zoom.

La crescita non si limita alla Borsa. Mentre l’economia globale è in profonda crisi e molte aziende sono sull’orlo del fallimento, i grandi colossi tecnologici investono, grazie alla enorme liquidità di cui dispongono. Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft hanno riserve di circa 557 miliardi di dollari (la sola Apple ha 193 miliardi), una cifra che gli permette di investire come nel 2019, quando il sistema economico era a pieno regime. Non è un caso che, come rileva PwC, negli ultimi dieci anni siano stati tra i maggiori investitori in ricerca e sviluppo. Così il 18 giugno, Facebook ha annunciato la creazione di un fondo specializzato per investire in start-up promettenti due giorni dopo aver acquistato Gojek, un’app indonesiana che opera nei trasporti e nelle consegne e dopo l’acquisto di Reliance Jio, un’azienda di telecomunicazioni indiana e quello di Giphy, che sviluppa gif animate. Nel 2020 Apple ha comprato ben quattro aziende: DarkSky, che sviluppa un’app per le previsioni del tempo; NextVR, specializzata nella realtà virtuale; Voysis, che sviluppa un software per il riconoscimento vocale e un assistente digitale; Xnor.ai, una start-up attiva nel settore dell’intelligenza articiale. La Microsoft ha comprato tre aziende nel cloud computingAffirmed Networks, Me- taswitch Networks e Softomotive – mentre Amazon è in trattativa per assicurarsi Zoox, una start-up che si occupa di veicoli a guida autonoma.

 

La crisi legata al Covid non ha intaccato tutti i settori

 

Insomma, un’espansione che non ha freni. Ma la nuova rivoluzione digitale si giocherà a partire dai sistemi sanitari nazionali, in cui, da anni, i gruppi della Silicon valley stanno puntando, accumulando conoscenze sul tracciamento attraverso gli smartphone e con i cosiddetti wearable, i dispositivi indossabili interconnessi, come gli smartwatch. La crisi pandemica attuale è il punto di ingresso ideale per accreditarsi come pionieri di un sistema sanitario basato sui dati. Per dirlo con le parole di Rahm Emanuel, al capo dello staff di Barack Obama, durante la crisi del 2008 “non vorrei mai sprecare un periodo di crisi. È una opportunità per fare cose che mai avresti pensato di fare prima”. Un motto che tutte le big tech Usa, evidentemente, hanno fatto proprio. Agendo rapidamente e fornendo ciò che serve per affrontare la pandemia.

Il numero de l’Internazionale contenente l’articolo “Come le grandi aziende tecnologiche approfittano della pandemia per fare ancora più soldi”

Per esempio Alphabet, la holding a cui appartiene Google, ha offerto il coordinamento dei test e test propri attraverso la sua controllata Verily. Che da due anni, attraverso il progetto Baseline, lavora alla “riconfigurazione del futuro della sanità”, usando i dati sapere di più sull’interazione tra il corpo, la mente e l’ambiente, per indagare il significato di salute e malattia, ma soprattutto per sviluppare nuovi prodotti e servizi. I test per il Covid-19 non sono l’unica risposta di Alphabet alla pandemia. Con Google Maps e i suoi abituali sistemi di mappatura l’azienda ha prodotto i cosiddetti Mobility-report in 131 Paesi. Si tratta di ricerche che usano dati di localizzazione aggregati e resi anonimi per tracciare la mobilità, individuare zone a rischio di contagio e verificare che la popolazione si attenesse davvero all’obbligo di restare a casa.

Anche Facebook ha creato il Coronavirus information center per il suo newsfeed e usa l’interconnessione della sua comunità per monitorare il virus: in particolare si rivolge in modo mirato ai suoi utenti promuovendo un questionario della Carnegie Mellon University, grazie a cui ogni settimana viene aggiornata la mappatura dei sintomi e la diffusione del contagio. “Informazioni che potranno essere utili al sistema sanitario per capire dove impiegare le risorse e stabilire quali settori della società possono eventualmente riaprire, quando, dove e perché”. Anche il social network usa la geolocalizzazione per aumentare “l’efficienza delle campagne sanitarie e della lotta all’epidemia” (come aveva fatto per il tracciamento del colera in Mozambico e nel contenimento del virus zika). Ora tre nuovi strumenti – le Colocation maps, i Movement range trends e il Social connectedness index – dovrebbero permettere di studiare come il raggio degli spostamenti e dei contatti sociali della popolazione contribuisce alla diffusione del Covid-19 e di capire se le restrizioni imposte alla popolazione stanno funzionando o se servono nuove misure. L’obiettivo di Mark Zuckerberg sarebbe quello di accreditarsi come l’infrastruttura pubblica che ha sempre voluto essere: una sorta di network di ricerca e non a caso ha ampliato le collaborazioni con l’accademia, coinvolgendo oltre alla Carnegie Mellon university, la New York university e la Harvard school of public health, tra le altre.

Le Big Tech hanno gioco facile: con il Covid-19 è cresciuta la disponibilità a donare i propri dati per solidarietà: quella che prima della pandemia poteva ancora sembrare una sorveglianza invasiva oggi è percepita come una mappatura sanitaria partecipativa, al servizio della scienza. Una scienza i cui risultati sono sempre più legati ai dispositivi smart. Una manna che, in nome della salute pubblica, sgombra il campo da tutte le questioni etiche e filosofiche sulla protezione dei dati personali che sono, in fondo, l’unico cruccio delle aziende della Silicon Valley che da molto prima della esplosione della pandemia usano i dati sanitari per i loro scopi di business. Questo abbattimento della barriere crea a tutto il settore un vantaggio competitivo enorme.

L’Apple Watch è già considerato un elemento essenziale in molti studi sul Covid-19 e il futuristico tracciamento di cui è capace riscuote molti consensi. Sfruttando il momento, il ceo Tim Cook si è messo a disposizione del suo Paese, dando consigli a Trump, riorganizzando le catene di distribuzione, progettando visiere per il personale sanitario e, attraverso il sistema di mappe dell’azienda, fornendo alle autorità rapporti sulla mobilità. Tutto questo porterà a un sistema che Internazionale definisce “biopolitica datificata”: da tempo ormai le istituzioni pubbliche e i privati hanno capito quanto siano antiquati i vecchi strumenti come le statistiche periodiche e le medie. Sanno che servono meccanismi più personalizzati, mappe più precise, apparati più flessibili per assicurare il funzionamento del corpo individuale e soprattutto sociale. Sistemi che solo gli strumenti che arrivano dalla Silicon valley possono fornire. Ma bisogna tenere la guardia alta e fare attenzione alle derive che questa biopolitica dei dati può generare in termini di controllo e perdita della libertà. E l’espansione dei giganti tecnologici comincia a preoccupare i legislatori e le autorità antitrust negli Stati Uniti e in Europa, che lanciano di nuovo l’allarme sull’eccessiva concentrazione di potere, la penalizzazione della concorrenza e altri problemi, tra cui la diffusione delle notizie false. Problemi a cui bisogna far fronte, tenendo però a mente che la digitalizzazione del mondo è inarrestabile.














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