Davvero la pandemia ci ha insegnato a lavorare da casa?

di Alice Ampola ♦︎ Agli italiani piace lavorare in smart working. Il 29% non vuole ritornare in ufficio. Ben il 34% chiede una soluzione ibrida. La ricerca di Bnp Cardiff e Eumetra MR

smart working

Tra le cose che la pandemia da Covid-19 ci lascerà in eredità c’è una sempre fiducia nello smart working. Il mondo del lavoro è cambiato e, nonostante i limiti digitali e tecnologici del paese, non si torna più indietro. Se le aziende hanno compreso che il lavoro da casa non coincide con una minore produttività, professionisti e dipendenti hanno apprezzato una maggiore flessibilità che ha permesso loro di godersi la famiglia. I numeri parlano chiaro: anche ad emergenza sanitaria finita il 63% dei dipendenti preferisce il remote working o una formula mista tra presenza in ufficio e giorno di lavoro agile, secondo i dati della ricerca «Fiducia, relazioni e comunicazione: la società italiana nell’era del Covid-19», redatta da Bnp Paribas Cardiff e Eumetra MR.

«La crisi pandemica ha spinto le imprese a utilizzare il lavoro a distanza coinvolgendo il personale con un’intensità mai sperimentata prima e ciò ha consentito loro anche di acquisire gli elementi per valutarne gli effetti su diversi aspetti organizzativi e sulla performance d’impresa. Oltre la metà delle imprese che hanno attivato lo smart working ha dichiarato di non aver rilevato effetti sulla produttività, i costi operativi, l’efficienza, gli investimenti in formazione del personale e l’adozione di nuove tecnologie», si legge nel «Rapporto sul mercato del lavoro 2020» di Istat, Ministero Lavoro, Inps, Inail e Anpal, che integra i dati delle diverse organizzazioni. In particolare, sul fronte della produttività, quasi il 70% delle imprese più grandi, quelle che contano almeno 50 addetti, ha dichiarato che lo smart working non ha avuto nessun effetto, ben il 14,5% ritiene che abbia avuto un effetto positivo, mentre un 16,2% segnala effetti negativi.







Il lavoro da remoto durante la pandemia

Prima dello scoppio dell’epidemia il ricorso al lavoro da remoto interessava solo un segmento limitato di attività e di lavoratori: nei primi tre trimestri del 2019, infatti, meno di un occupato su 10 ha praticato lo smart working, nonostante la professione glielo permettesse. Le percentuali di chi ha fatto ricorso al lavoro agile, invece, nel 2020, balzano al 17,1% nei primi tre mesi, al 41,9% nel secondo trimestre, scendendo (ma non azzerandosi) nel terzo trimestre, al 28,6%, rivela il «Rapporto sul mercato del lavoro 2020».

Occupati che potrebbero potenzialmente svolgere il lavoro da casa per settore di attività. Fonte: Istat

Da casa, in piena pandemia, ha lavorato anche chi, secondo la classificazione teorica, solitamente non farebbe ricorso al remote working. Il fenomeno, in piena emergenza sanitaria, ha interessato il 21,3% delle imprese con almeno 3 addetti; la percentuale è calata all’11,3% nel periodo giugno-novembre, mentre la quota di lavoratori in smart working nelle imprese che lo hanno attivato sale dal 5% del periodo precedente il Covid-19 al 47% dei mesi di lockdown, per assestarsi intorno al 30% da maggio in avanti.

Nel secondo trimestre 2020 ad aver adottato questa soluzione, sempre secondo dati Istat, sono state soprattutto le donne (23,6% in confronto al 16,3% degli uomini) e gli occupati con più di 35 anni (20,5% in confronto al 14,8% dei più giovani), gli italiani (21,0 contro il 4,0% degli stranieri), i residenti nel Centro e del Nord (21,9 e 20,6 rispetto al 15,0% nel Mezzogiorno, Figura 3).

Guardando al lato istruzione, invece, nei primi tre mesi di emergenza sanitaria hanno praticato lo smart working il 42,5% dei laureati, il 17,6% dei diplomati e il 3,4% di chi ha la licenza media. Facile intuire che questi numeri sono strettamente legati al tipo di professione svolta nel post studi. «Le professioni qualificate, tra cui sono concentrate quelle praticabili da remoto, sono caratterizzate da una maggiore incidenza di occupati che hanno lavorato da casa (41,1% con un picco del 54,8% tra le professioni intellettuali ad elevata specializzazione). Rispetto al tipo di occupazione, il lavoro da casa è più diffuso tra i dependent contractor e i lavoratori autonomi senza dipendenti (con incidenze del lavoro da casa del 30,0% e 25,2%)», si legge nel Rapporto.

Renato Brunetta: bisogna fare dello smart working uno strumento di organizzazione del lavoro

Renato Brunetta, Ministro della Pubblica Funzione

«Lo smart working è stato certamente fondamentale durante la fase acuta della pandemia e ha segnato un cambiamento culturale da cui bisogna trarre tutte le conseguenti analisi», ha affermato, nelle scorse settimane, il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta in una nota.

«Ora occorre ricondurlo ad essere uno degli strumenti di organizzazione del lavoro delle singole amministrazioni, strettamente connesso al livello di qualità dei servizi da fornire a cittadini e imprese – ha aggiunto il Ministro – Sarà un punto all’ordine del giorno della nuova contrattazione, per quanto riguarda la regolazione. Un tema su cui le parti sociali pubbliche e private sono chiamate a riflettere. Il fenomeno va studiato a fondo e servono grandissimi investimenti dal punto di vista progettuale, di relazioni sindacali, regolativi, infrastrutturali e di intelligenza sociale anche alla luce della sfida della transizione digitale che l’Europa ci chiama a raccogliere».

Smart working: la nuova normalità

E allora cosa accadrà finita l’emergenza? Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio smart working della School of Management del Politecnico di Milano, circa il 70% delle imprese promette di aumentare il numero di giornate in cui i dipendenti potranno lavorare da remoto, mentre il 65% aumenterà il numero di smart worker. Anche la pubblica amministrazione cambierà volto: per il 47% si prevedono più giorni in remoto, mentre per il 72% verrà incrementato il numero di dipendenti che opereranno a distanza. Ben il 51% delle grandi aziende, invece, sta valutando in nome di questa trasformazione di riprogettare i propri spazi fisici, e il 10% è pronto ad una riduzione di essi.

Smart working
I numeri dello smart working nel post Covid. Fonte: Polimi

Anche i professionisti hanno già un’idea chiara su come vorrebbero che le aziende si organizzassero nel post Covid-19. La popolazione lavorativa si divide in un 37% che preferisce lavorare in ufficio, un 29% da casa e un 34% vorrebbe un mix tra le due modalità, secondo i dati della ricerca «Fiducia, relazioni e comunicazione: la società italiana nell’era del Covid-19», condotta da BNP Paribas Cardif, tra le prime dieci compagnie assicurative in Italia, in collaborazione con l’istituto di ricerca Eumetra MR. La voglia di lavoro agile prevale: la pandemia «ha trasformato anche la sfera lavorativa», commenta Fabrizio Fornezza, Presidente di Eumetra MR, in occasione della presentazione dello studio.

Fabrizio Fornezza, Presidente di Eumetra MR
Fabrizio Fornezza, Presidente di Eumetra MR

Percentuali e desideri a parte, non va dimenticato, si legge nella ricerca, che circa metà del paese non può che lavorare in presenza, o perché il suo lavoro non prevede altra modalità (38%) o semplicemente perché non lo ha praticato neppure in questi mesi (14%).

La distanza prodotta dal remote working, comunque, non ha comunque allontanato datori e dipendenti. E seppur retorico, «il luogo di lavoro rappresenta per gli italiani una seconda famiglia», spiega Fornezza. «Dopo la famiglia, se stesso e gli amici, gli italiano hanno una altissima fiducia nell’azienda(84%). Questo sentimento, spiega la ricerca, si distribuisce in modo abbastanza regolare fra le diverse figure in azienda: i colleghi (77%), il proprio capo (75%), lo stesso capoazienda (72%)», che ottengono indici abbastanza omogenei.

A creare questo legame contribuisce, ovviamente, «la capacità aziendale di prestare attenzione ai dipendenti (58%) e la sua serietà e trasparenza (55%), seguiti dalla solidità, (43%), molto apprezzata di questi tempi, e dalla sua attenzione alla sostenibilità, sia sociale sia ambientale (31%)», spiega Fortezza.

Mosse e strategie di BNP Paribas Cardif

Isabella Fumagalli, Ceo di BNP Paribas Cardif

Lo smart working è stata una soluzione vincente anche per BNP Paribas Cardif. «Il lockdown ci ha permesso, per assurdo, di conoscere meglio i nostri dipendenti. Siamo entrati, tramite le videocall, nelle loro famiglie, abbiamo conosciuto la loro casa e le loro abitudini. È stato bello pur nelle difficoltà del periodo», racconta Isabella Fumagalli, Ceo di BNP Paribas Cardif.

«Già da febbraio abbiamo iniziato ad approcciarci allo smart working avviando dei test, per poi chiedere ai nostri dipendenti, nei primi giorni di marzo, di portare a casa i loro Pc, incrementando le tecnologie necessarie. Ha funzionato, abbiamo lavorato in remoto per il 100% fino al 21 maggio, giorno in cui alcuni professionisti sono tornati in ufficio. La distanza ci ha permesso comunque di assicurare continuità a clienti e distributori, ci ha resi flessibili, e ai dipendenti tutto questo è piaciuto. Posso dire che ci siamo allenati nel periodo dell’emergenza sanitaria e che in futuro crediamo di mantenere una modalità ibrida: lavoreremo per il 50% in ufficio e per il 50% fuori. La tecnologia ci aiuta».

E proprio quella tecnologia, in questi mesi, ha permesso al comparto bancassurance di mantenere ed aumentare la fiducia dei clienti, soddisfatti, secondo i dati della ricerca, dalla chiarezza nel linguaggio utilizzato (91%), dai servizi digitali messi a disposizione e dall’assistenza ricevuta (entrambi all’89%) e dalla velocità di risposta (84%). Apprezzate anche le misure concrete messe in campo dal settore in questo periodo storico, quali il supporto e la solidarietà ai clienti attraverso bonus, sconti, sospensioni e rinvii dei pagamenti.

Andrea Veltri, Deputy Ceo Digital Transformation di BNP Paribas Cardif

«La semplificazione ci ha aiutato e ci aiuta nella conquista della fiducia, ma ancora abbiamo da lavorare», chiosa. «Da aggiungere, a tutto questo, il fatto che gli italiani si distinguono dal resto del mondo. Noi abbiamo maggiore fiducia nella famiglia, se si guarda a livello globale la gente ha maggiore fiducia nella tecnologia». Premesse ed aggiunte, queste, che cambiano le strategie delle aziende e del settore bancassurance.














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