Vittoria dei sindacati Usa: +30% salari automotive. Come va letto dall’industria italiana e dai suoi operai?

di Marco de' Francesco ♦︎ In Italia 30 anni senza politica industriale e con lo Stato assente dal tavolo dell’automotive e della componentistica auto. Il risultato? Un costante impoverimento del settore. Ferdinando Uliano: incremento dei salari dei metalmeccanici. Christian Ferrari: frusta salariale e un nuovo modello di sviluppo. Patrizio Bianchi: negli Usa valorizzazione di brand e persone. E sugli scioperi…

In America «la lotta paga». Dopo qualche settimana di agitazioni, lo Uaw (United Auto Workers) e cioè il sindacato americano dei lavoratori dell’industria dell’auto, ha ottenuto un risultato clamoroso: un aumento salariale del 25%, e altri adeguamenti al costo della vita e pensionistici. Peraltro, il successo è ancora più rilevante se si pensa che nel mirino dello sciopero c’erano le Big Three dell’automotive negli Usa, e cioè General Motors (Gm), Ford e Stellantis; e che l’epicentro della protesta è stata Detroit, la città-simbolo delle quattro ruote negli Stati Uniti. Questa vicenda ha avuto enormi conseguenze in America: dai costi globali (attorno ai 10 miliardi di dollari) al coinvolgimento del titolare della Casa Bianca, Joe Biden e, in maniera più defilata, del contendente alla presidenza per il 2024 Donald Trump.

In genere, ciò che succede negli Stati Uniti produce riflessi in tutto il mondo. Dunque, la domanda che Industria Italiana si è posta è: cosa significa tutto ciò per il settore automotive del Belpaese? Cosa vuol dire per il mondo delle relazioni sindacali, che si credeva un po’ appannato?  Ecco, è vero che anche in Europa e in Italia i carmaker hanno ottenuto, dopo il Covid, utili record. L’incremento delle materie prime e di alcuni componenti ha determinato un generale aumento dei prezzi. Vale anche per noi il principio americano “a profitti straordinari stipendi straordinari”? Secondo i sindacati, sì. Occorre la “frusta salariale”, serve adeguare gli stipendi al costo reale della vita, anche per incentivare il mercato interno, da anni stagnante, in un momento in cui l’export ha il fiato corto.







Va però sottolineato che, a differenza degli Stati Uniti, dove il salvataggio dell’automotive di Obama aveva comportato una sostanziale paralisi degli avanzamenti salariali, da noi non è andata proprio così: l’attuale contratto dei metalmeccanici, che scade a luglio, già comporta un aumento del 16,7%; e quello di Stellantis, rinnovato a marzo, raggiungerà quota 18% in quattro anni. Insomma, bisognerà vedere quali margini ci saranno per i prossimi avanzamenti. Ed è su questo fronte che si gioca la partita dei rappresentanti dei lavoratori. In secondo luogo, si pone un’importante questione: l’automotive americana non è stata salvata dallo sciopero, ma anni fa da Obama con i dollari federali. Senza l’azione (con denaro pubblico) del presidente degli Stati Uniti, non ci sarebbe stata alcuna agitazione. Gli Usa, patria di self made men e di imprese private, sembrano aver scoperto l’importanza dell’intervento pubblico: ad esempio, con l’Ira (Inflaction Reduction Act) Washington non solo inietta soldi nell’industria, ma anche definisce le linee di azione dell’iniziativa economica.

Ecco, bisogna ammettere che lo Stato non si è mai fatto vivo ai tavoli sull’automotive da 30 anni a questa parte. Il risultato è stato il costante impoverimento di questo settore, la cui stessa sopravvivenza, peraltro, è messa a rischio a lungo termine dalla concorrenza asiatica e da una complicata trasformazione green. Secondo la Cgil, seppure nei limiti consentiti dall’appartenenza all’Unione Europea e alle sue regole, lo Stato dovrebbe assumere un ruolo attivo nella gestione e nella regolamentazione del settore automotive: non solo con il salvataggio finanziario, ma anche con gli investimenti in ricerca e sviluppo e con la promozione di politiche industriali, ad esempio sostenendo l’avanzamento di tecnologie ecologiche o ad alta intensità di conoscenza. Ne abbiamo parlato con Patrizio Bianchi, uno dei maggiori economisti industriali italiani nonché ex ministro dell’Istruzione proprio del governo Draghi; con il responsabile nazionale per l’automotive di Fim Cisl, Ferdinando Uliano; e con Christian Ferrari, membro della segreteria nazionale della Cgil.

Uno sciopero politicamente scomodo

In America dopo qualche settimana di agitazioni, lo Uaw (United Auto Workers) e cioè il sindacato americano dei lavoratori dell’industria dell’auto, ha ottenuto un risultato clamoroso: un aumento salariale del 25%, e altri adeguamenti al costo della vita e pensionistici.

Lo sciopero americano inizia ai primi di settembre. È la prima volta che in Usa si realizza un’agitazione “coordinata” su più obiettivi e di così vasta portata, nel settore auto. L’organizzatore è il carismatico Shawn Fain, un sindacalista americano presidente di Uaw da marzo 2023. Elettricista di professione, ha lavorato in a Stellantis in un impianto di ricambi automobilistici a Kokomo, Indiana. Pochi giorni dopo la sua elezione, Fain aveva dichiarato alle case automobilistiche che la Uaw era «stupita dallo status quo»: in un certo senso, lo sciopero era già nell’aria. Perché? Le ragioni dell’iniziativa sono note. I rappresentanti dei lavoratori chiedono anzitutto un adeguamento salariale. Inizialmente, per porre fine allo sciopero. Ford e GM offrono un incremento del 20% per la durata del contratto, mentre Stellantis del 17,5%; i sindacati rispondono che per loro l’obiettivo è quello di un 20% immediato e di quattro ulteriori aumenti del 5% per ognuno dei quattro anni.

In secondo luogo, i sindacati chiedono la restituzione dei piani “tradizionali” di pagamento delle pensioni; infatti, gli assunti prima del 2007 godono di benefici che gli assunti dopo il salvataggio dell’automotive da parte del presidente Obama hanno perduto. Si tratta anche di ripristinare il Cola, (Cost of Living Increase), e cioè il meccanismo di adeguamento al costo della vita. L’Uaw chiede anche la settimana lavorativa di quattro giorni, un freno all’uso dei lavoratori temporanei, il diritto di sciopero in caso di chiusura degli impianti (in America non c’è), e una transizione green equilibrata: bene l’elettrico, dice il sindacato, ma non deve essere implementato ai danni dei lavoratori; i dipendenti per i quali non c’è più posto nelle linee per i motori termici devono essere dirottati alla produzione di batterie. Insomma, una transizione più lenta e meno dannosa di quella immaginata dai carmaker.

Uno sciopero così imponente genera forti preoccupazioni in ambito politico, industriale e finanziario. Secondo la nota società di consulenza (economia, analisi di mercato, politiche pubbliche) Anderson Economic Group, sei settimane di agitazioni causano perdite per 10,4 miliardi di dollari – tra stipendi, mancata produzione, riflessi sui fornitori, sui dealer e altro. Qui succede qualcosa che francamente non ci si attendeva. Quasi subito, scende in campo il presidente degli Stati Uniti, Biden. Biden partecipa ai picchetti delle tute blu, affermando: «Non è stata Wall Street a salvare l’industria automobilistica: lo avete fatto voi, con i vostri sacrifici, quando le aziende erano in difficoltà. Ora i carmaker stanno andando incredibilmente bene e, sapete, dovreste farlo anche voi». A ben vedere, Biden in questa circostanza dimostra di saper correre il rischio. In un contesto inflattivo, approvare una lotta che al di là delle ragioni ha prodotto anche danni all’economia americana, potrebbe costargli la rielezione. Stiamo a vedere.

La vittoria dell’Uaw

Il Segretario nazionale Fim-Cisl Responsabile del settore automotive Ferdinando Uliano

L’Uaw porta a casa un ricco bottino. Nel 2023 l’aumento dello stipendio è di un quarto; si pensi che dal 2001 al 2022 era aumentato del 23%. Il salario iniziale aumenterà del 67%; quello finale del 33%. In pratica, si parla di un salario di 40 euro all’ora. È stato ripristinato il citato Cola, il meccanismo di adeguamento al costo della vita. «Con l’accordo si è introdotto il sistema di tutela salariale dall’inflazione e sistemata l’elevata differenza salariale e normativa fra vecchi e nuovi assunti, come d’altra parte si è proceduto alle compensazioni pensionistiche, visto che sotto questo profilo il piano Obama aveva posto delle limitazioni che non hanno più ragione di esistere» – afferma Ferdinando Uliano di Fim Cisl.

Quanto alla riduzione dell’orario, «non è stata concessa. Va sottolineato, infine, che negli Usa i contratti riguardano le realtà sindacalizzate le “the Big Three”, Stellantis-Gm-Ford, molti carmaker o aziende della componentistica sono “no Union” quindi superano le norme dell’accordo. In molti casi basta fondare una newco, non c’è sindacato, e quindi si riparte da zero» – afferma Uliano. Peraltro, il contratto ha determinato una diminuzione degli investimenti per l’elettrificazione pari a 12 miliardi di dollari.

Le ragioni della vittoria

patrizio-bianchi
L’economista Patrizio Bianchi

Nel mondo statunitense, ciò che conta è soprattutto la valutazione di Borsa, che peraltro, vista da fuori, può sembrare frutto di ragionamenti non sempre razionali: Tesla vale 20 volte GM o Ford, pur producendo molte meno macchine. «GM e Ford si sono trovate nella situazione di dover dimostrare di essere capaci di rimontare, di risalire la china, di giocare la partita a tutto tondo, di saper valorizzare i marchi anche attraverso la valorizzazione delle persone che per essi lavorano» – afferma l’economista Patrizio Bianchi. «È una necessità che di per sé una Ferrari o una Maserati (che però è del gruppo Stellantis) non sentirebbero: ma gli americani non sono bravi a fare macchine di lusso, e da qualche parte devono recuperare. Il salto del 25% è, in un certo senso, un mezzo per trovare finanziatori. Quanto a Stellantis, penso che abbia fatto questo passaggio per via di Chrysler» – continua Bianchi.

Secondo Uliano, «l’automotive in America ha passato un lungo periodo di crisi nera, con stabilimenti chiusi e persone sulla strada. Va ricordato che il presidente Obama ha guidato un piano di salvataggio dell’industria automobilistica statunitense. GM, Ford e Chrysler hanno ricevuto un sostegno finanziario dal governo federale per evitare il collasso. Questo ha comportato il salvataggio di aziende automobilistiche in difficoltà e il sostegno alla ristrutturazione per renderle più competitive, con forti sacrifici per i lavoratori». Ora, invece, la situazione è del tutto diversa. «La marginalità dei carmaker è cresciuta. E quindi, vecchie pattuizioni che ad esempio facevano sì che il nuovo assunto avesse uno stipendio dimezzato rispetto all’operaio veterano sono superate dai fatti» – continua Uliano.

Cosa significa il patto per il resto del mondo e per l’Italia in particolare

Christian Ferrari, membro della segreteria nazionale della Cgil

«Ciò che è accaduto, fa emergere il rilancio del protagonismo sindacale che sta attraversando vari Paesi. Un messaggio forte: la lotta paga» – afferma Christian Ferrari della Cgil. Un’espressione un po’ antica forse, ma significativa. «Direi di più: il conflitto sociale è uno strumento per acquisire condizioni più avanzate» – continua Ferrari. Tutto questo, secondo Ferrari, «parla di noi». Ha, cioè, un profondo significato per l’Italia. «Parla di noi quando un ministro precetta; e parla di noi in riferimento al tema degli extraprofitti: la regola dovrebbe essere “a profitti straordinari stipendi straordinari”. Parla di noi in tema di inflazione, con l’aggravante che da noi non è dovuta all’aumento della domanda, come in America».

Parla di noi quando si tratta di salari. «Ora che l’export è in crisi, bisogna riflettere sul rapporto tra domanda interna, consumi e salari. Salari più alti farebbero bene all’economia italiana». Parla di noi quando si tratta dell’intervento pubblico nell’economia. Alla fine, lo sciopero c’è stato perché l’industria automobilistica americana era stata salvata da Obama con l’intervento pubblico. «La nuova realtà di Chrysler e Fiat, Fca, non ottenne sei miliardi di dollari federali? L’Ira, l’Inflaction Reduction act, non è forse una strategia industriale con la quale lo Stato, in America, torna protagonista? Noi, invece, in questi ultimi 30 anni abbiamo subito le conseguenze negative della compressione dell’attività pubblica in economia; una follia che continua, visto che la Finanziaria prevede 22 miliardi da privatizzazione» – chiarisce Ferrari.

Nel Belpaese, però, la situazione è un po’ diversa dagli Usa. Secondo Uliano, però, va anche detto che «la piattaforma nazionale ha portato a casa per tutti i metalmeccanici, per tutte le aziende grandi e piccole, circa il 20% in sei anni a cui dobbiamo aggiungere la contrattazione aziendale che coinvolge il 70% dei lavoratori». In un certo senso, l’Italia è andata meglio che negli Stati Uniti, fino al recente accordo americano. Ora la questione dei salari si è molto complicata per via dell’inflazione. «In Italia il contratto nazionale dei metalmeccanici scade a luglio del prossimo anno. In base agli accordi con Federmeccanica, i salari, già aumentati del 6,6% lo scorso giugno, saranno incrementati della stessa percentuale il prossimo giugno. Considerati i tre anni di vigenza del contratto si arriva al 16,7%. Quanto a Stellantis, il contratto è stato rinnovato l’8 marzo con un aumento salariale nel biennio del 12%, se consideriamo l’analogo periodo si raggiunge il 18%» – termina Uliano.

Il ruolo del sindacati italiani

il successo dell’Uaw è ancora più rilevante se si pensa che nel mirino dello sciopero c’erano le Big Three dell’automotive negli Usa, e cioè General Motors (Gm), Ford e Stellantis; e che l’epicentro della protesta è stata Detroit, la città-simbolo delle quattro ruote negli Stati Uniti

Secondo Christian Ferrari della Cgil, i sindacati in Italia hanno ancora tanto da dire. «Se uno ci pensa bene, sono uno dei pochi soggetti in contatto con il territorio e con la realtà sociale e industriale; ad esempio, la politica ha perso quasi del tutto questo ruolo». Peraltro, negli ultimi tempi «hanno condotto sempre battaglie difensive, per tutelare i lavoratori nelle tante crisi industriali che hanno costellato il Paese».

  1. La frusta salariale e un nuovo modello di sviluppo

Tuttavia, i sindacati ora hanno la chance di impegnarsi in una strada diversa, con una prospettiva differente: da difensiva a propulsiva. «Certo, il primo argomento dell’azione sindacale deve essere sempre la difesa diretta dei rappresentati» – afferma Ferrari. Ma non basta. «Dobbiamo puntare ad aumentare i salari, ma anche a contribuire ad un nuovo modello di sviluppo: occorre combattere la logica della competizione dei costi basata sulla svalutazione del lavoro» continua Ferrari. Occorre la “frusta salariale” di cui parlava l’economista Paolo Sylos Labini, «ma anche spingere le imprese alla competizione sull’innovazione, sulla qualità. Occorre poi reintegrare il modello di economia immaginato dalla Costituzione, e cioè sia pubblico che privato e questo bisognerebbe farlo con i soldi del Pnrr, dando vita, finalmente, ad un’Agenzia Nazionale dello Sviluppo Industriale» – continua Ferrari.

  1. Tornare all’intervento pubblico, nell’automotive e non solo

Caldeggiare il ruolo attivo dello Stato nell’automotive in particolare e nell’industria in particolare è, per Ferrari, il secondo argomento dell’azione sindacale. «Si punta alla ricostruzione industriale del Paese. Non che l’intervento pubblico dello Stato non esista: solo tra il 2015 e il 2023 tra decontribuzioni, incentivi, detassazioni, lo Stato ha aperto il portafoglio per circa 200 miliardi. Senza alcun ritorno, perché ha utilizzato lo strumento sbagliato. Occorre un’Agenzia per la promozione di una vera politica industriale: altrimenti perderemo la siderurgia, la cui crisi è paradigmatica dell’immobilismo dello Stato; o il comparto Tlc: la triste fine della Telecom, da eccellenza mondiale all’attuale spezzatino, la dice lunga sugli errori del Paese quanto a comparti strategici» – chiarisce Ferrari.

  1. La ricostruzione dello Stato

«Dopo 30 anni di retorica e dopo aver smontato il sistema pubblico, oggi ci rendiamo conto, dal momento che non si riesce a portare avanti il Pnrr, quanto invece sia importante per l’economia del Paese» – termina Ferrari.














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