STMicroelectronics: con l’IIot abbiamo ridotto gli scarti di produzione

di Renzo Zonin ♦︎ Diminuzione della difettosità del 30% nella lavorazione di wafer di silicio grazie all'uso di smart sensor, ma l'obiettivo è di arrivare (almeno) al 50%. Ne pariamo con Nunzio Abbate, direttore dell’SRA System Lab di ST

Wafer di silicio

Conosco direttori di produzione che venderebbero l’anima al diavolo in cambio di una riduzione del 20% degli scarti del loro impianto. In STMicroelectronics, grazie a un progetto pilota IIoT basato sull’uso di “smart sensor”, hanno ottenuto una riduzione della difettosità del 30% sulla linea di lavorazione dei wafer, e puntano al 50% con la fase 2, consistente nel sensorizzare, dopo i bracci robot della prima fase, alcuni altri macchinari presenti sulla linea. Il progetto ha permesso, monitorando il comportamento di qualche centinaio di bracci robotizzati, di rilevare immediatamente se un wafer era stato danneggiato durante la lunga serie di operazioni cui deve essere sottoposto per arrivare al prodotto finito. In questo modo, si può eliminare subito il wafer danneggiato dalla linea, ottenendo due risultati: primo, il wafer difettoso non viene sottoposto alle (ormai inutili) fasi di lavorazione successive; secondo, eventuali detriti o impurità provenienti dal wafer danneggiato non andranno a contaminare i wafer “sani” nel prosieguo della lavorazione.

Il particolare forse più curioso di questo progetto pilota è che ST ha agito, in un certo senso, come cliente di sé stessa: il modulo che integra il sensore smart infatti è stato messo a punto internamente all’azienda, dal gruppo System LabDU, che fa parte del System Research & Applications (SRA) di ST, e affidato per l’industrializzazione finale a Meridionale Impianti, partner storico di ST, a seguito della creazione di un team interfunzionale Fabbrica/System Lab/Partner. Inoltre, la linea di produzione sulla quale sono stati installati i sensori è quella che lavora i wafer di silicio dai quali si ricaveranno circuiti integrati, microprocessori, Soc e sensori, non dissimili da quelli che costituiscono il modulo sensore sul quale si basa il progetto. Insomma, non sarà affascinante come il tema caro alla fantascienza del robot che costruisce altri robot, ma la linea che produce i componenti necessari per controllare sé stessa è comunque un tema interessante. Per avere qualche dettaglio in più abbiamo parlato del progetto con Nunzio Abbate, direttore dell’SRA System Lab di ST.







 

Il problema da risolvere

Nunzio Abbate, direttore dell’SRA System Lab di ST

Per capire meglio in che cosa consiste questo use case, dobbiamo fare un passo indietro e vedere come si produce un circuito integrato, uno di quelli che, pur diversi fra loro, ci ostiniamo a chiamare indistintamente “chip”, forse anche perché è una parola più comoda di “semiconduttori”. Tutto inizia dai wafer: dischi di cristallo di silicio, con diametri dai 20 ai 30 cm, ottenuti tagliando un cilindro in “fette” sottilissime (si scende anche a molto meno di 100 micron) che, una volta levigate, faranno da “substrato”, da supporto ai circuiti veri e propri. Questi ultimi vengono realizzati sul wafer utilizzando un sistema fotolitografico e tecniche fisico/chimiche di diffusione o ionic implant.

In pratica, sulla superficie vengono deposti strati successivi di materiali semiconduttori, conduttori e isolanti, detti “drogaggi”, che realizzano su scala micrometrica i componenti elettronici veri e propri (resistenze, transistor, diodi eccetera) e le relative connessioni.

Ora, produrre cose di questo tipo presenta, fra gli altri, due grossi problemi: il primo è che ogni strato che viene aggiunto deve essere allineato a tutti quelli sottostanti con una precisione che si misura in nanometri (un nanometro è un milionesimo di millimetro); il secondo è che tutto il processo deve avvenire in un ambiente esente da ogni tipo di contaminante, perché lavorando con quelle tolleranze e quelle dimensioni anche un granello di polvere può trasformare un wafer sano in uno difettoso.

STMicroelectronics

Per poter lavorare con la precisione, la ripetibilità e la pulizia richiesta, le linee di lavorazione dei wafer sono in gran parte automatizzate e i dischi di silicio vengono spostati da una fase di lavorazione all’altra da bracci robotizzati. Ora, supponiamo che uno di questi bracci, magari per un problema di usura, si muova in modo non corretto e così facendo danneggi un wafer, per esempio producendo una piccola crepa, o una microscopica scheggiatura sul bordo, o un graffio. Il wafer, già da questo momento, è predestinato a essere scartato, perché parte della sua superficie sarà inutilizzabile; ciononostante, proseguirà la lavorazione lungo tutte le fasi, perché i wafer vengono controllati solo alla fine dell’intero procedimento.

Inoltre, dalla zona danneggiata del disco spesso si stacca del particolato. Esso andrà quasi sicuramente a contaminare altri wafer in lavorazione, che alla fine diventeranno anch’essi difettosi. E non è finita qui: scoperto a fine lavorazione il lotto di produzione difettoso, può essere necessario fermare tutto per individuare e decontaminare la parte di linea interessata al problema.

 

La soluzione di STMicroelectronics

Per lavorare con precisione, ripetibilità e pulizia, le linee di lavorazione dei wafer sono in gran parte automatizzate e i dischi di silicio spostati da una fase di lavorazione all’altra da bracci robotizzati

Il più grande produttore di semiconduttori in Europa si chiama STMicroelectronics, azienda italo-francese, risultato della fusione delle attività nei semiconduttori del gruppo Thompson con la nostrana SGS. Il gruppo conta su 46.000 dipendenti (di cui 8100 impegnati in ricerca & sviluppo, nella quale l’azienda investe il 15% del fatturato) e produce ricavi per oltre 10 miliardi di dollari. La struttura italiana consta di 10800 dipendenti e quasi 3000 ricercatori, dislocati in 8 siti – tre dei quali, Agrate, Marcianise e Catania, dotati anche di strutture di produzione. E proprio dalle unità di produzione, la Front-End Manufacturing & Technology (FEMT) è arrivata la richiesta al System Lab di studiare una soluzione che permettesse di abbassare i livelli di difettosità delle linee di lavorazione dei wafer.

«Il ruolo del System Lab, all’interno dell’SRA di ST, è quello di ideare e realizzare dei prototipi che poi diventano board di valutazione per i nostri clienti. Ci occupiamo anche di realizzare customizzazioni specifiche per i clienti, o come in questo caso specifico per il nostro cliente interno, che sono le nostre fabbriche» spiega Nunzio Abbate, direttore del System Lab. Analizzando il problema, si capì che per ridurre i difetti si doveva monitorare nel dettaglio il comportamento dei bracci robotici che spostano i wafer.

Bisognava individuare quando ogni braccio cominciava a deviare dal comportamento standard, per poter intervenire per tempo, prima che la deriva delle prestazioni del braccio robotico causasse danni ai wafer. I nostri sistemisti IIoT si misero al lavoro e il risultato fu un modulo sensore di vibrazioni miniaturizzato, grande all’incirca come due scatole di cerini sovrapposte, da posizionare alla fine del braccio del robot, vicino all’organo di presa. «Questo sistema che abbiamo realizzato utilizza dei Mems, dei microcontrollori, e dei moduli radio Bluetooth Low Energy, per acquisire le vibrazioni che ci sono alla fine del braccio robotico. Queste vibrazioni, opportunamente filtrate e processate, ci fanno capire se c’è un disallineamento nel braccio stesso che richiede una manutenzione dedicata, o una deriva che necessita di una manutenzione preventiva o addirittura predittiva».

In STMicroelectronics, grazie a un progetto pilota IIoT basato sull’uso di “smart sensor”, hanno ottenuto una riduzione della difettosità del 30% sulla linea di lavorazione dei wafer, e puntano al 50% con la fase 2, consistente nel sensorizzare, dopo i bracci robot della prima fase, alcuni altri macchinari presenti sulla linea.

Scendendo più in dettaglio, il modulo è definito “sensor node” ed è formato da un accelerometro IIS2DH collegato ad un integrato BlueNRG2, un SoC ( system on a chip, di fatto un computer completo su un singolo die di silicio) che a sua volta contiene un core Arm Cortex, ed una radio Ble. Il tutto è alimentabile anche a batteria, e può essere posizionato sui bracci robot esistenti, che sono stati quindi sottoposti a un semplice “retrofit” – nessun bisogno di sostituire macchine costose, e nessuna necessità di cablaggio, visto che i dati vengono trasmessi via Bluetooth, anche se per alcuni nodi si è preferito ricavare l’alimentazione del circuito dal robot invece che dalla batteria.

Come funziona dunque il tutto? «L’accelerometro rileva le vibrazioni del braccio robotico e invia i dati al SoC del nodo, dove avviene una prima elaborazione e pulizia, dopodiché i dati vengono inviati tramite la radio Bluetooth ai computer che fanno l’analisi dettagliata. I dati vengono poi messi in un data lake usato per ulteriori elaborazioni ed analisi successive». Ma cosa si riesce a capire analizzando le vibrazioni del braccio robotico? Sicuramente lo “stato di salute” del robot, quindi le condizioni dei suoi giunti, motori, meccanismi. Ma non solo, perché analizzando le vibrazioni è possibile capire anche cosa sta succedendo ai wafer maneggiati.

«Con questo sistema riusciamo a riconoscere non solo l’urto e la rottura, che è facile, ma anche il graffio. Quest’ultimo è molto più pericoloso della rottura: in caso di rottura, la linea si ferma subito e si crea solo un problema di produttività. Il graffio invece può produrre particolato che va a contaminare altri wafer, quindi l’impatto è sulla qualità del prodotto finale». Senza contare che, non rilevando la contaminazione, si continuano a sottoporre a lavorazioni costose wafer che alla fine risulteranno non utilizzabili.

Wafer di silicio pronti a iniziare la lavorazione

STMicroelectronics

STMicroelectronics Laboratory

Anche se è stato reso pubblico solo di recente, il progetto è iniziato da tempo. «Il progetto pilota è durato tre anni, è servito per “irrobustire” la soluzione prototipale, per formare i colleghi che operano nelle aree di ingegneria e manutenzione, per strutturare i sistemi necessari a integrare questo retrofit – le macchine non erano nativamente predisposte a questo tipo di sensorizzazione, abbiamo installato i nodi anche su macchine che avevano 5,10 anni di età. Oggi abbiamo circa 200 bracci robot equipaggiati con i sensori, e siamo nella fase operativa, ovvero stiamo montando questi sensori su tutte le macchine simili che abbiamo nei nostri stabilimenti di tutto il mondo». Dopo il progetto pilota svolto su una sola tipologia di braccio robotico, i sensori sono stati installati su 14 tipi diversi di robot, e i team di manutenzione hanno già identificato e classificato le fonti dei problemi di ciascun tipo. Il lavoro prosegue per allargare ancora il raggio d’azione del progetto: si parla di collegare altre tipologie di macchinari, e di testare altri sistemi di connettività come LoRa, 5G (Cat M/NB-IoT) e UWB.

Altra ipotesi di lavoro è utilizzare anche altri modelli di processori e microcontrollori STM32. Se con la prima implementazione, quella limitata ai bracci robotici, ST ha ottenuto una riduzione del numero di wafer difettosi per graffi o rotture del 30%, gli ulteriori affinamenti potrebbero portare questo valore al 50%, ovvero un dimezzamento del numero di Wafer danneggiati e quindi inutilizzabili. E soprattutto di questi tempi, aumentare il numero di chip funzionanti che escono da una linea di produzione è fondamentale. E non solo perché maggiore è la percentuale di chip funzionanti rispetto a quelli eliminati, minore è il costo di produzione di ogni chip.

STMicroelectronics in Italia

«In questo periodo, più che un problema di costi i wafer danneggiati creano un problema di disponibilità di prodotto per i clienti. Oggi l’offerta di componenti elettronici è inferiore alla domanda, quasi si vendono all’asta… quindi riuscire a ridurre i pezzi difettosi, grazie a queste tecnologie, alla manutenzione predittiva, senza dover acquistare nuovi macchinari, ci consente di avere un maggiore throughput di pezzi buoni a fine linea e di abbattere molti problemi legati alla qualità». E quindi cosa avete imparato da questo progetto? «Questo progetto ha dimostrato nella pratica come funziona l’Industria 4.0: tecnologie, processi e persone. La convergenza tra i migliori prodotti STMicroelectronics in materia di rilevamento e connettività, la competenza e l’attenzione dei nostri colleghi in Femt, alla ricerca di soluzioni innovative su questioni di produzione irrisolte, la competenza sui sistemi dei nostri specialisti SRA ed il lavoro di squadra con partner selezionati ha creato un effetto di “innovazione nell’innovazione”, che può anche avere un impatto diretto sui margini dell’azienda», conclude Abbate.

[Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 22 aprile 2021]














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