Lavorare tanto, lavorare male: il vecchio mantra italiano non passa di moda: crolla ancora la produttività

di Laura Magna ♦︎ L'Italia ha uno dei peggiori indici di produttività del lavoro e degli investimenti. Di recente, l'Istat ha segnalato ulteriori peggioramenti per il 2019. Il Covid non c'entra nulla, la tendenza è ormai in atto da due decenni. C'entra una politica economica miope, un'istruzione carente, alcuni retaggi del passato e una classe dirigente con poco nerbo e scarsa propensione a investire. Ne parliamo con i professori Daveri e Tajoli

La bassa produttività del lavoro e degli investimenti è uno dei problemi maggiori dell’industria italiana. Un macigno che è sia la conseguenza, sia la causa dell’arretratezza del nostro sistema. Il mezzo punto di calo della produttività italiana nel 2019? Non è una sorpresa, ma solo una conferma che arriva dopo una crescita zero che dura da almeno venti anni. E il dato peggiore è che, nel corso di questi venti anni, sono aumentate sia le ore lavorate sia gli investimenti in beni strumentali e tecnologie, senza che questo abbia avuto alcun impatto sull’output. Il che indica, sostanzialmente, che le ore lavorate si riferiscono a occupazioni scarsamente qualificate e dunque a basso valore aggiunto e che i beni strumentali o immateriali introdotti in azienda non sono stati usati efficacemente.

Sul fronte del lavoro, l’Italia resta il Paese con il numero di laureati tra i più bassi nel mondo Occidentale. Secondo gli ultimi dati Eurostat, riferiti sempre al 2019, solo il 27,6% dei 30-34enni italiani ha una laurea contro il 40% della media Europa (che è anche il target della strategia Europa 2020): fa peggio solo la Romania, con il 25,8%. Insomma sul fronte dell’istruzione terziaria, abbiamo i numeri di un Paese non ancora del tutto emerso, pur essendo la seconda manifattura del Vecchio Continente ed è un fatto oggettivamente inaccettabile.







Lucia Tajoli, docente di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano

Come lo è, sul fronte degli investimenti, un andamento ondivago: gli investimenti sono in media scarsi, ma quando aumentano, com’è accaduto grazie agli incentivi dei diversi pacchetti Calenda che hanno mosso le acque sul fronte degli acquisti di macchine e tecnologie, è avvenuto per un periodo troppo limitato nel tempo (e per incidere sulla produttività ci vuole una prospettiva almeno quinquennale).

Ne abbiamo parlato con la professoressa Lucia Tajolidocente di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano e firma dell’Ispi e Francesco Daveri, professore di Macroeconomia alla Bocconi e direttore dell’Mba della Sda Bocconi School of Management.

I dati – pessimi – sulla produttività 2019

Gli ultimi dati Istat hanno rilevato il crollo della produttività del lavoro e del capitale (rispettivamente -0,4% e -0,8% nel 2019, secondo Istat), il che indica appunto la scarsa capacità di trasformare tecnologie e ore lavorate in maggior output. Questo è particolarmente evidente se si guarda la produttività totale dei fattori, che misura il progresso tecnico e i miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi: nel 2019 è diminuita dello 0,5% e questo a fronte del fatto che le imprese hanno aumentato capitale impiegato nella produzione e ore lavorate (+0,5% in totale), ma non hanno registrato miglioramenti in termine di valore aggiunto.

Dunque, lavoriamo di più e peggio: la produttività del lavoro è diminuita infatti dello 0,4% (un dato che dipende dal pari aumento delle ore lavorate a fronte di valore aggiunto fermo) e così l’incremento di spesa in Ict (+4,2%) e R&S (+3,1%) non ha prodotto miglioramenti in termini di valore aggiunto.

Produttività, i numeri chiave: tassi di variazione medi annui. Fonte Istat

Ma il vero tema è un altro e non riguarda il solo 2019: ed è che la produttività totale dei fattori (Ptf), ha registrato una variazione pressoché nulla e di dieci volte inferiore rispetto al resto dell’Europa, in tutto il periodo 1995-2019, così la produttività del lavoro è aumentata dello 0,3% in media ogni anni tra il 1995 e il 2019 – contro l’1,6% dell’Ue a 28. Lo stesso vale per la produttività del capitale, che ha segnato nel periodo oggetto di analisi un calo medio annuo dello 0,7%.

Tajoli: «Ma il vero punto è che lavoro e capitale non producono valore dal 1995». L’inefficacia degli investimenti materiali

Come funziona la produttività negli altri Paesi europei. Fonte Istat

«Il punto è proprio questo», dice la professoressa Tajoli. «Sono anni che andiamo molto male, abbiamo solo avuto la conferma di una cosa che sapevamo già. Non sorprende perché la produttività dipende dagli investimenti sia in macchinari e in tecnologia sia in capitale umano e ne facciamo troppo pochi: a partire dalla crisi finanziaria del 2008 c’è stata una ulteriore caduta, in un sistema Paese che già spende poco in tecnologia, in ricerca, in formazione». E il boom di industria 4.0? «Può essere stato importante, ma  non ha effetti sulla produttività perché è un’ondata di investimenti una tantum che non può cambiare una tendenza di lungo periodo. Nel 2017 c’è stata una ripresa degli investimenti, ma per definizione l’investimento richiede un orizzonte temporale almeno di medio periodo. In Italia si fanno da anni politiche di brevissimo e nessuno guarda a come vogliamo essere tra cinque anni: per questo la mia visione non può che essere cupa, a meno che lo choc del Covid che non può che far peggiorare tutti i parametri non funzione da sveglia e imprima un’accelerazione al cambiamento di paradigma».

… e una produttività del lavoro che è cresciuta dieci volte meno della media europea nel lungo termine

Valore aggiunto e misure di produttività. Fonte Istat

La professoressa sottolinea che nessuno dei Paesi europei ha mostrato una crescita della produttività stellare, ma «che è fisiologico perché le economie sviluppate crescono lentamente, al contrario dei Paesi in via di emersione come la Cina. Tuttavia nel lungo periodo il distacco è evidente: quell’1,6% annuo contro il nostro 0,3% fa la differenza».

C’è da dire che l’Italia appare sempre più lontana dall’Europa sul fronte della capacità di produrre valore aggiunto: nel periodo 1995-2019 la variazione è stata dello 0,7%, assai inferiore a quella media della Ue a 28 (1,9%). Le ore lavorate, al contrario, hanno registrato una crescita simile a quella del complesso dei paesi europei: +0,3% annuo nella media Ue28 e +0,4% in Italia.  E un altro dato salta agli occhi: nel 2019 la diminuzione della produttività del lavoro registrata in Italia (-0,4%) è più ampia di quella della Germania, che però mostra un dato altrettanto negativo (-0,2%), al contrario degli altri principali partner europei che segnano ancora una dinamica positiva: incrementi dello 0,8% in Spagna e dello 0,5% in Francia, in accelerazione rispetto al 2018, e dello 0,2% nel Regno Unito, in forte rallentamento.

«Il dato tedesco del 2019 è brutto, ma non è necessariamente significativo: proprio perché riguarda un solo anno e arriva dopo diverso tempo di crescita positiva. Potrebbe essere l’effetto di un affaticamento, la caduta di qualche indicatore. Un anno specifico che va male può succedere e non dimentichiamo che il Paese ha attraversato nel 2019 la crisi dell’auto e il rallentamento dell’export pre-Covid che è un fattore su cui si basa molto quell’economia. Un anno di caduta può esserci anche perché si riconverte in modo massiccio le strutture produttive, allora la produttività scende, per cui non è significativo», dice Tajoli. Dunque se anche sull’Italia il calo della produttività può risentire di riflesso del brutto anno tedesco (le due economie sono fortemente interconnesse), non si giustificano due decenni senza crescita.

Aumenta solo il lavoro a basso valore aggiunto 

«Il tema italiano è strutturale e come tale va affrontato: per noi sono aumentate le ore lavorate. Ma aumentato il lavoro spot, precario, part time che è a bassissima produttività. L’economia del delivery che ha un effetto medio sulla produttività negativo. Più cresce la quota di quel tipo di lavori più la produttività media scende. Mentre il lavoro qualificato, di tecnici e laureati la fa aumentare. È inutile continuare a lamentarsi di cose stranote, se non si affrontano e torniamo al punto di partenza: si affrontano con la formazione e con investimenti che abbiano un orizzonte almeno quinquennale».

Daveri: «Il 2020 può essere l’anno del cambio di marcia (e di paradigma)»

Francesco Daveri, professore di Macroeconomia alla Bocconi e direttore dell’Mba della Sda Bocconi School of Management. Foto di Niccolò Caranti

Resta da capire se il Covid darà la scossa necessaria. Ed è probabile che sia così, secondo il professore Francesco Daveri. «Abbiamo evidenza di un fermento di attività economica che non può passare sotto silenzio. I dati sulla produzione industriale, innanzitutto e sul Pil, sono stati negativi per i primi due trimestri con un rimbalzo nel terzo trimestre che dobbiamo ancora misurare. Ma non c’è prova del fatto che abbiamo segni meno da cui non ci riprenderemo più, né che stiamo entrando in una recessione». Al contrario, Daveri è convinto che in quel fermento evidente ci sia la spiegazione dei forti sbalzi attuali nei numeri perché è in atto un processo di profondo cambiamento tecnologico «difficile da materializzare in numeri che possiamo riassumere come positivi rispetto al passato. Vediamo intanto l’ecommerce che cresce a doppia cifra, la digitalizzazione di servizi e d’altro canto, altri settori che si ridimensionano in maniera rilevante, mentre una parte ancora galleggia».

Questo che effetto può avere in termini di produttività? «Dobbiamo aspettarci numeri ballerini, perché ci potranno essere ridimensionamenti che possono essere anche rilevanti anche dal punto di vista della produttività del lavoro, ma dall’altro lato in positivo ci sono settori che si stanno riorganizzando e che andranno avanti. Siamo dentro una rivoluzione economica che ha appena cominciato a manifestarsi e che proseguiranno». Insomma, il 2020 segna un anno di svolta e come «le attività economiche non rimangono ferme, ma si rinnovano, riassestando i modi in cui si produce», noi dobbiamo cambiare occhiali con cui guardiamo il mondo e cerchiamo di riassumerlo in qualche numero. La conclusione è che con ogni probabilità il valore della produttività nel 2020 sarà ancora peggiore di quello del 2019, ma nel medio periodo è più plausibile che si vada incontro «non con una recessione ma con una riorganizzazione del mondo produttivo, con attività che spariscono e altre che guadagnano importanza rispetto al passato in un modo che non riusciamo neppure a immaginare ancora. E un grande rimescolamento i cui effetti netti in termini di creazione di produttività del lavoro saranno il risultato della “distruzione” in atto», conclude Daveri.














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