Pnrr 3: parola d’ordine semplificazione. Cosa cambia per l’industria?

di Barbara Weisz ♦︎ Il decreto aggiorna la governance: accentramento della gestione alla presidenza del consiglio dei ministri. Snellimento procedure per: e-procurement, posa in opera di infrastrutture a banda ultralarga, realizzazione della piattaforma digitale nazionale dati. Pnrr e manifattura: necessità di maggior coordinamento con il Piano Industria 4.0. Con Paolo Manfredi e Gustavo Piga

«Troppo tardi e troppo poco». Gustavo Piga, ordinario di Economia Politica Università di Roma Tor Vergata e co-presidente dell’Osservatorio sul Recovery Plan promosso dall’ateneo e da Promo Pa Fondazione, commenta senza mezzi termini il recente decreto del Governo sul Pnrr, che aggiorna la Governance e introduce semplificazioni. La direzione intrapresa dal Governo non è sbagliata, ma il problema, seconda Piga, è a monte. Il Piano era l’occasione per fare quella che il docente (il sopra citato Orep è nato per sua iniziativa), definisce la madre di tutte le riforme: quella della pubblica amministrazione. Una sorta di pre-requisito, che invece non è stato adeguatamente affrontato, ed è questa la ragione fondamentale degli attuali ritardi. Che, è bene sottolinearlo, non riguardano i milestone e i target, in base ai quali l’Europa eroga le tranche dei finanziamenti, ma la messa a terra del Pnrr, ovvero la partenza dei cantieri. Ovvero, la parte che maggiormente interessa le aziende.

Ma non l’unica: ci sono i grandi progetti infrastrutturali, nuove risorse per la digitalizzazione 4.0 (13,38 miliardi per il trasferimento tecnologico). Stiamo parlando di un piano che può alimentare la competitività del sistema Paese, a tutto vantaggio della vocazione manifatturiera. Per non parlare dello sviluppo della filiera legata a economia circolare, green, energia pulita. I ritardi della pubblica amministrazione si riflettono su tutto questo. «Il 2023 è l’anno dei bandi», spiega Paolo Manfredi, responsabile Pnrr di Confartigianato, ma le amministrazioni spesso non riescono a portarli a termine. Perchè? «Il tema sono i Comuni. Esce una gara, in base ai tempi contingentati europei. La gara è rivolta ai Comuni. Se i Comuni non sono in grado di presentare domanda e portare a casa i soldi, o se sono sempre gli stessi a farla, la macchina inizia a ingripparsi. Tanto più si ingrippa, tanto più di allontani dalla timeline concordata con l’Europa, e fra un po’ quando non dovremo più fare solo cose sulla carta, ma anche lavori, andrà a cascare l’asino». Il legame fra risorse alle imprese e funzionamento della macchina amministrativa nel caso del Pnrr è molto stretto.







Facciamo l’esempio di un progetto specifico del piano, gli Accordi per l’innovazione. L’obiettivo è realizzare progetti di ricerca e sviluppo per sperimentare e introdurre soluzioni innovative. Le aziende devono sottoporre un progetto al ministero dello Imprese e del Made in Italy, che poi avvia la fase di negoziazione con le Regioni e le Province autonome e valuta la validità strategica della proposta di iniziativa. In ogni caso, il decreto semplificazioni approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 16 febbraio, non viene considerato negativamente. «Affronta importanti questioni», sottolinea Piga, e lo fa correttamente: «rende più veloci gli affidamenti, riduce le autorizzazioni». In sintesi, «direzioni che vanno bene. Ma non è abbastanza». Qual è il problema ora? Che bisogna coniugare tre elementi sempre più distanti fra loro: i tempi (la deadline per realizzare gli investimenti del Pnrr è il 2026), l’efficienza della pubblica amministrazione, e le regole del Pnrr. Che, sottolinea Piga, prevedono il rispetto anche di determinati parametri di bilancio, come il fiscal compact. Analizziamo tutti questi elementi, partendo dalle novità contenute nel decreto Pnrr 3 del Governo, e proponendo gli approfondimenti e le considerazioni di carattere macroeconomico (stiamo parlando probabilmente del più grosso piano realizzato dal dopoguerra a oggi), e pratico, in particolare sul fronte dell’impatto sulle imprese e dell’industria. Che continua a chiedere il potenziamento degli incentivi 4.0.

Risorse Pnrr trasformazione digitale

Cosa prevede il decreto Pnrr 3

Il decreto 13/2023, approvato in Consiglio dei ministri il 16 febbraio e in vigore dal 25 febbraio (il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) contiene una serie di misure così riassumbili:

Governance: si accentrano gestione, coordinamento e monitoraggio presso la presidenza del consiglio dei ministri, assorbendo una serie di funzioni prima maggiormente ramificate riportando tutto sotto l’indirizzo del ministro delegato (Raffaele Fitto, Affari europei, Sud, coesione e Pnrr). Il quale esercita d’ora in poi anche le funzioni di punto di contatto nazionale precedentemente affidate alla Ragioneria centrale dello Stato, che fa capo al ministero dell’Economia. Molto in sintesi, commenta Manfredi, Fitto diventa lo stesso interlocutore per tutti, anche verso Bruxelles. Vengono anche riorganizzate le unità di missione Pnrr presso le amministrazioni centrali, che potranno anche essere trasferite ad altre strutture dirigenziali già esistenti. E, spiega Palazzo Chigi, «si rafforzano i poteri sostitutivi in caso di mancato rispetto da parte delle Regioni degli impegni finalizzati all’attuazione del Pnrr».

Semplificazioni: misure per accelerare e snellire le procedure e rafforzare la capacità amministrativa. Aumenta al 50%, dall’ordinario 30%, la percentuale di incarichi a contratto con qualifica dirigenziale per consentire agli enti locali di fronteggiare le esigenze connesse ai complessivi adempimenti riferiti al Pnrr, viene ampliata la possibilità di prevedere incentivi. Vengono estese a tutti gli appalti del Pnrr le procedure super semplificate già previste per determinati settori specifici (edilizia penitenziaria, ferroviaria e giudiziaria), sono previste semplificazioni per l’e-procurement, per le procedure di posa in opera di infrastrutture a banda ultralarga, si facilita la realizzazione della piattaforma digitale nazionale dati (Pndn), vengono istituiti nuovi organismi tecnici mirati a specifiche esigenze (ad esempio, per le questioni relative alla sicurezza energetica).

Semplificazioni relative a specifiche missioni del Pnrr: anche queste sono misure che mirato a velocizzare l’operatività del piano, riguardano la digitalizzazione e l’innovazione della PA, la scuola, l’università e la ricerca, protezione civile, efficienza energetica dei Comuni, giustizia, sicurezza energetica, beni culturali, energie rinnovabili, coesione e politica agricola, politiche giovanili.

Sintetizza Piga: il decreto «affronta importanti questioni, per esempio rende più veloci gli affidamenti, riduce le autorizzazioni». Quindi, la direzione è corretta, «ma non è abbastanza». Innanzitutto, «perchè le stazioni appaltanti, non sono strapiene di giovani competenti e strapagati strappati al privato». Bisognava destinare risorse intorno ai 4-5 miliard all’assunzione di persone a cui dare compensi da 6mila euro, non 2mila lordi. Perchè alimetassero la crescita. E si poteva utilizzare il Recovery Plan per riqualificare la pubblica amministrazione. Manfredi concorda sul fatto che le pubbliche amministrazioni non sono all’altezza, e sottolinea a sua volta come l’indice di qualità del capitale umano dei comuni abbia una correlazione diretta con la produttività.

Il punto in cui si inceppa la macchina del Pnrr è del tutto evidente. L’Italia, è al primo posto in Europa come raggiungimento di milestone e target. «Siamo al 21% – sottolinea Piga -, seguiti da Francia e Croazia». Ma è in ritardo sulla messa a terra, ovvero sulla gestione dei bandi ma (forse soprattutto) sulla partenza dei cantieri. Che sono la parte che maggiormente coinvolge le imprese. E qui, «è fondamentale la qualità della pubblica amministrazione». Ma noi su questo fronte abbia «il tasso di dipendenti più basso d’Europa, e la Pa più vecchia europa. Già due anni fa, di fronte al Pnrr, mi sono chiesto come la pa avrebbe potuto essere in grado di gestirlo». Sono stati stanziati «pochi soldi per l’assunzione di personale delle gare, ci sono a bando concorsi ridicoli, con contratti triennali, e remunerazioni bassissime rispetto al privato». Manfredi considera che «il Govenro sta cercando di spingere sulle corsie preferenziali, per muovere positivamente il sistema. Alcune cose potrebbero avere senso. Esempio: se io vado a lavorare su consorzi di Comuni, o sulle centrali appaltanti unificate, non lascio più la singola amministrazione in difficoltà, ma faccio una semiforza partendo da alcune debolezze. Si lavora sulla costruzione di massa critica dove massa critica non c’è».

Le responsabilità a monte di Italia ed Europa

Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy

Piga insiste particolarmente su un concetto. Non ci sono responsabilità specifiche del Governo Meloni, ma una responsabilità congiunta di tutti e tre gli esecutivi che hanno gestito il Pnrr (Conte bis, Draghi e, ora Meloni) e dell’Europa. Cosa c’entra l’Europa, che anzi ha destinato all’Italia la somma più alta per investire nel Pnrr? Il problema è che il Pnrr richiede «un cammino di austerità fiscale, come il fiscal compact». Ma non sono molto meno stringenti i vincoli del Next Genration Ue, rispetto a quelli del fiscal compact? «Per niente. Draghi ha detto che abbiamo avuto la riduzione di deficit più importante del dopoguerra», ma in realtà l’esecutivo italiano deve convergere verso il 3% di deficit». Un traguardo al momento previsto per il 2025, quindi in linea con gli impegni europei. Ma nel frattempo «stiamo flirtando con ecobonus, rischi di recessione, politiche fiscali controcicliche». Quindi, c’è una sorta di responsabilità a monte, di chi ha deciso (l’Europa) e accettato (l’Italia) le regole dle Pnrr. In genere, c’è un problema di perdita di peso economico in Europa.

«Nel 2000 avevamo una quota del 18% fra i partner dell’euro, dal 2000 al 2020 il nostro peso è crollato, nel 2023 sarà del 12%. Siamo in crisi politica perchè economica. Tornando al Pnrr, «ad aprile del 2022 abbiamo detto: è il momento di spendere. Oggi prendiamo atto della seguente situazione: nel Def (documento di economia e finanza) 2021 dicevamo che entro il 2022 avremmo speso 43,3 mld. La nota di aggiornamento, Nadef, 2022, ha preso atto che ne spenderemo 20-25, meno della metà. E il ministero Fitto sta dando sempre piu segnali che invece arriveremo a 17». Ebbene, 20 miliardi di euro rappresentano l’1 per cento di pil. E guarda caso, questo è esattamente il nostro ritardo rispetto all’area euro». Gli ultimi dati della commissione Ue, che alzano le previsioni di pil 2023 allo 0,8%, e ci vedono in linea con gli altri paesi comunitari, indicano che però i partner della moneta unica crescono invece allo 0,9%. «Gli investimenti pubblici avrebbero potuto farci recuperare, oggi potremmo dire di crescere piu dell’euro».

Le richieste di flessibilità all’Europa

L’Italia sta chiedendo a Bruxelles più flessibilità in termini di scadenze di realizzazione delle opere, puntando al 2029 (invece del 2026 attualmente previsto dal Pnrr). «Qui la politica gioca un ruolo fondamentale. Penso che occorra a questo punto molto pragmatismo. Ma non è che se poi ci danno altre tre anni abbiamo risolto tutto. La verità è che abbiamo ridotto il potenziale del piano, perchè abbiamo speso male i soldi». L’economista non crede nello scenario peggiore, che vede l’Europa sospendere i fondi. Ma resta convinto che, queste risorse, le stiamo spendendo male. Sottolineiamo a questo proposito che, con l’Europa, è in corso una trattativa per integrare Pnrr e piano RepowerEu, che ha raggiunto primi risultati con una serie di indicazioni agli stati membri. L’Italia entro il 30 aprile deve presentare una proposta specifica. L’obiettivo è quello di ottenere anche nuovi finanziamenti (Bruxelles ha stanziato per il piano 20 miliardi di euro, in Italia potrebbero arrivarne 2,76 miliardi, da utilizzare anche nell’ambito del Pnrr. E’ sempre nell’ambito di questa integrazione con RepowerEu che si potrebbe allungare di tre anni, arrivando al 2029, la realizzazione di alcuni interventi del Pnrr.

Pnrr quadro complessivo

Pnrr e Transizione 4.0

Sono tutte tematiche che riguardano da vicino le imprese in generale, e l’industria in particolare. In realtà, per il manufacturing ci sono anche notizie positive. Nelle scorse settimane il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha firmato il decreto che finanzia con altri 350 milioni di euro i competence center 4.0, con risorse che fanno parte del Pnrr e che serviranno a sostenere il trasferimento tecnologico. Un capitolo al quale, in tutto, il Pnrr destina 13,38 miliardi. Qui segnaliamo una considerazione di Gianni Potti, presidente Fondazione Comunica, past president di Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, sulla necessità di un maggior coordinamento fra Pnrr e Piano Industria 4.0, magari intraprendendo la strada di Society 5.0 perseguita dal Giappone, in base alla quale «il digitale deve migliorare la qualità della vita in logica di sostenibilità e inclusione sociale. Noi dobbiamo spiegare a imprese e persone che il digitale su cui stiamo investendo come Paese serve per migliorare la vita di ciascuno di noi dentro e fuori la fabbrica».

Transizione 4.0 crediti d’imposta

Ma ci sono una serie di criticità: Piga parla di gare che vanno deserte, anche per i costi delle materie prime. C’è anche un problema di comunicazione, nel senso che ci sono bandi che non sono adeguatamente pubblicizzati, e che quindi le imprese non conoscono. Altri sono semplicemente formulati male, per cui il sistema produttivo fa fatica a partecipare. «C’è anche un problema di capacità produttiva: se il piano fosse stato fatto nel 2010, avremmo molte più aziende a disposizione. Oggi, molti hanno chiuso imprese, e se anche riuscissimo a fare gli appalti, rischiamo di non avere aziende in grado di per produrre quanto richiesto. Non ci sono solo le gare, anzi. «Il Pnrr – sottolinea Manfredi – è fatto essenzialmente di investimenti pubblici. Che poi ricadono sulle imprese. Quindi, c’è bisogno che partano i cantieri, si facciano gli appalti». Ci sono grandi investimenti pubblici, per esempio il 5G, magari più a portata di grandi imprese, ma anche i piccoli appalti, che invece sono a portata anche delle medie e piccole imprese.

Ci sono poi finanziamenti diretti alle imprese per la transizione digitale. Ad esempio, i crediti d’imposta. In base ai dati forniti dal ministro Urso a fine gennaio, fra il 2021 e 2022 sono state infatti oltre 150mila le imprese che hanno utilizzato gli incentivi previsti dal Pnrr – Transizione 4.0. Il ministero ha a più riprese annunciato che la misura sarà con molta probabilità rifinanziata con ulteriori risorse. In base ai dati forniti dal Mise sullo stato di attuazione degli interventi aggiornato ad ottobre 2022, pubblicato sul portale Orep (che, lo segnaliamo, ha un servizio di news quotidiane sul Pnrr), con il piano Transizione 4.0 sono stati finanziati 2,2 miliardi di crediti d’imposta maturati secondo i criteri del Pnrr, relativi ad acquisto beni strumentali 4.0, software, beni strumentali e software tradizionali, ricerca e sviluppo, formazione, a beneficio di 48mila 536 imprese con un credito medio di 45mila 871 euro. I target per i prossimi anni: 69mila 900 imprese beneficiarie al 2024, per crediti d’imposta concessi sulla base delle dichiarazioni dei redditi del 2021-2022, e 111mila 700 imprese beneficiarie al 2025, sulla base delle dichiarazioni 2021-2023.














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