Patrizio Bianchi: che cosa scriverà Mario Draghi nel rapporto per la Von Der Leyen? Di un nuovo sistema industriale europeo….

di Marco de Francesco ♦︎ Intervista con lo studioso, ex ministro proprio del Governo Draghi, nonché uno dei massimi economisti industriali. Come dovrebbe essere la politica industriale europea. Le conseguenze industriali della fine dell'asse Germania-Russia-Cina. La deglobalizzazione e l’Inflation Reduction Act Usa che spinge a produrre negli Stati Uniti. La guerra commerciale Usa-Cina. Il rischio che Comau finisca in mani straniere.

Cosa metterà nero su bianco Mario Draghi nel report sul futuro della competitività dell’Ue richiestogli da Ursula Von Der Leyen? Non sono nella sua mente, ma credo che emergeranno due emergenze: quella di un nuovo sistema industriale europeo integrato e quello di un cambiamento nell’assetto istituzionale dell’Unione, dice Patrizio Bianchi, uno dei maggiori economisti industriali in Europa, nonché ministro dell’Istruzione proprio del governo Draghi

«Cosa metterà nero su bianco Mario Draghi nel report sul futuro della competitività dell’Ue richiestogli da Ursula Von Der Leyen? Non sono nella sua mente, ma credo che emergeranno due emergenze: quella di un nuovo sistema industriale europeo integrato e quello di un cambiamento nell’assetto istituzionale dell’Unione». Lo afferma Patrizio Bianchi, uno dei maggiori economisti industriali italiani nonché ex ministro dell’Istruzione proprio del governo Draghi.

Quanto alla prima emergenza, occorre superare le filiere nazionali, francesi, italiane o tedesche e puntare sulla realizzazione di catene europee molto spinte sotto il profilo tecnologico, dove ogni Paese porta il meglio di sé in fatto di competenze. In un sistema industriale finalmente integrato, settori di Paesi diversi lavorano insieme in modo sinergico e coordinato per ottenere una maggiore efficienza e competitività. In ogni caso si deve valorizzare fortemente l’industria, perché è l’epicentro delle nuove tecnologie, il luogo dove queste si integrano generando valore e occupazione; e perché non c’è modo di conseguire gli ambiziosi obiettivi ambientali dell’Ue senza il pieno coinvolgimento dell’industria.







Quanto alla seconda emergenza, per Bianchi non si può affrontare la prima senza una vera e propria integrazione istituzionale e politica. Siamo arrivati esattamente al punto in cui i singoli governi devono decidere, con un onesto sì o no, di fronte al dilemma “più Europa o meno Europa”. Una posizione mediana non è più accettabile.

Infatti, queste linee strategiche si sono rese necessarie a causa del mutato contesto geopolitico: nell’era della deglobalizzazione e del conflitto commerciale tra le due grandi superpotenze economiche, gli Usa e la Cina, l’Europa assume sempre più il ruolo del “vaso di coccio”, di boutique di tecnologie in mano agli Usa e di questuante di materie prime in mano alla Cina. Qualcosa bisogna fare, e si fa ripartendo dall’industria.

D: Il sistema industriale tedesco, e quindi quello europeo, era basato sull’apporto di energia a basso costo dalla Russia. Occorre riposizionare il sistema continentale?

patrizio-bianchi
Patrizio Bianchi è uno dei maggiori economisti industriali italiani ed europei. Autore di centinaia di pubblicazioni, è stato ordinario (ora emerito) a Ferrara, dove è diventato prima preside di Economia e poi Rettore. E’ stato presidente di Sviluppo Italia (ora Invitalia) e consigliere di amministrazione dell’Iri. Convinto sostenitore che l’Istruzione sia la prima leva di sviluppo e anche di politica industriale, ha ricoperto il ruolo di assessore all’Istruzione per 10 anni nella sua regione, l’Emilia Romagna.

R: Sì, un riposizionamento del sistema industriale – e non solo industriale – europeo è necessario, perché il quadro geopolitico e quello dei flussi di beni, componenti, materie prime sono mutati drammaticamente in tempi molto ridotti, e ciò non può non comportare conseguenze. Poi, si deve partire dall’assunto che la Germania è l’epicentro del sistema industriale continentale, e che ciò che capita alla Germania riecheggia quasi subito sugli altri Paesi dell’Unione. Ora, la vicenda del gas russo è senz’altro uno dei motivi che deve spingere l’Europa al cambiamento; ma non è l’unico.

D: È però un motivo di grande rilievo

R: Lo è sicuramente. La Germania aveva puntato molto, per sostenere la propria manifattura, sul rifornimento di gas a basso costo da parte della Russia. Si pensi al Nordstream 1, poi boicottato nel corso della guerra rosso-ucraina, e al Nordstream 2, la cui implementazione è stata bloccata sempre a causa di scelte politiche legate al conflitto. Peraltro, gli ultimi tre reattori nucleari sono stati spenti ad aprile, nonostante una lettera aperta di scienziati (tra cui due premi Nobel) e ricercatori; producevano 32,7 miliardi di kilowattora. Ora la Germania si è riposizionata su lignite, carbone e gas metano liquido, che rendono la transizione green di Berlino molto difficile e costosa. Ma la Germania non era solo l’Hub energetico europeo, era altro.

D: Cos’altro rappresentava, in effetti, la Germania?

R: La Germania, infatti, e per la precisione con la capitale Berlino, era il terminale di un altro progetto di portata globale che attualmente non è più attuabile: la Via della Seta. La Germania era peraltro il primo partner commerciale della Cina. Il progetto cinese conosciuto come “One Belt, One Road” o “Belt and Road Initiative” (Bri), mirava a rafforzare i collegamenti economici e infrastrutturali tra l’Asia, l’Europa e l’Africa. Il piano, però, era fortemente avversato dagli Stati Uniti, che hanno spinto l’India a definire il Pgii, un corridoio ferroviario ed economico fra India ed Europa che attraversa il Golfo e sostituisce la via cinese. Anche l’Italia, che nel marzo 2019 (con il governo Conte) aveva ratificato 19 intese istituzionali e 10 accordi commerciali nel contesto del progetto cinese, è tornata sui propri passi di recente, ed ha siglato l’intesa sul Pgii. E tutto questo avviene nel contesto di un mutato quadro geopolitico.

D: Com’è mutato il contesto geopolitico?

R: Gli Stati Uniti hanno dichiarato una guerra commerciale alla Cina. Biden ha emesso un decreto che impone ulteriori limitazioni agli investimenti degli Stati Uniti in società con sede a Pechino che operano nel settore tecnologico avanzato, specialmente in quei settori ritenuti di importanza critica per le capacità militari, di intelligence e sorveglianza. Le tre aree chiave coinvolte sono le seguenti: semiconduttori, tecnologia quantistica e intelligenza artificiale, che sono considerate di particolare rilevanza strategica. Naturalmente, tutti gli Stati occidentali sono chiamati ad adeguare la propria posizione. Non si può fare altrimenti. E alla Germania è venuto meno uno dei pilastri della politica della Merkel: rimanere agganciati alla Nato e all’Ovest, ma dialogare (e commerciare) con i Paesi dell’Est. Ora, ad esempio, si è deciso che Deutsche Telekom, Vodafone e Telefonica Deutschland dovranno rimuovere dalle reti più della metà dei componenti forniti dalle cinesi Huawei e Zte.

D: L’Italia però esporta più in Belgio che in Cina. Perché dovrebbe interessarci la situazione tedesca?

Per Patrizio Bianchi si deve valorizzare fortemente l’industria, perché è l’epicentro delle nuove tecnologie, il luogo dove queste si integrano generando valore e occupazione; e perché non c’è modo di conseguire gli ambiziosi obiettivi ambientali dell’Ue senza il pieno coinvolgimento dell’industria

R: Perché le relazioni industriali ed economiche tra i Paesi dell’Unione europea, e in particolare quelle tra la Germania e l’Italia, sono molto strette. Un anno fa, quando il Pil tedesco era rimasto al palo mentre quello italiano cresceva, c’erano commentatori che si rallegravano di questo; io invece pensavo che se la locomotiva si ferma, si arrestano anche i vagoni, prima o poi. Ed è quello che in effetti è accaduto. La nostra disanima non è finita, però. C’è un altro fattore che sta incidendo sull’industria europea. Ed è molto rilevante.

D: Quale altro fattore sta incidendo sull’industria europea?

R: Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, una fase matura che alcuni chiamano deglobalizzazione. I Paesi cercano di riportare nei propri confini o il più vicino possibile la propria capacità produttiva: sia per questioni di sicurezza (si pensi alla destabilizzazione delle filiere internazionali in tempi di Covid) che per rivitalizzare l’economia interna. Si pensi all’Inflation Reduction Act statunitense.

D: Che c’entra l’Inflation Reduction Act? Quella è una legge che aiuta a promuovere soluzioni climatiche come l’energia eolica e solare, l’energia nucleare, la cattura e lo stoccaggio del carbonio, l’energia geotermica e i carburanti a zero emissioni di carbonio e include importanti disposizioni per ridurre le emissioni di metano.

R: Sì ma l’investimento di oltre 369 miliardi di dollari nella legge, con tanti crediti di imposta, spinge le imprese a produrre negli Stati Uniti; anzi, ci sono diverse aziende europee intenzionate ad aprire stabilimenti negli Usa. Ma torniamo alla deglobalizzazione.

D: Che effetti ha la deglobalizzazione?

R: Partiamo dagli effetti della globalizzazione. Questa, storicamente, ha inizio con la caduta del Muro di Berlino, nel 1992. Ora nel 1995 il Pil globale era pari a 31,5 trilioni di dollari; nel 2022 a 95 trilioni di dollari. Nel 1995 la popolazione sulla Terra era pari a 5,7 miliardi di persone; ora siamo 8 miliardi. Il Pil pro-capite, sempre a livello globale e nel 1995 era pari a 5.400 dollari; ora a 12.647; quello cinese, in particolare, è passato dai 156 dollari del 1978 agli attuali 12.500 dollari. Cosa significa tutto questo? Che la ricchezza è triplicata, e si è distribuita in Paesi prima del tutto esclusi da flussi economici: questi Stati in via di sviluppo sono entrati nel commercio mondiale. Naturalmente, la globalizzazione ha avuto anche aspetti controversi o negativi: la Cina, ad esempio, è responsabile, da sola, di un terzo delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Comunque, un fenomeno storico e di enorme efficacia sta rallentando.

D: La globalizzazione è stata un grande vantaggio per i Paesi in via di sviluppo; ma per quelli europei?

Il cancelliere tedesco Olaf Sholz. Per Patrizio Bianchi si deve partire dall’assunto che la Germania è l’epicentro del sistema industriale continentale, e che ciò che capita alla Germania riecheggia quasi subito sugli altri Paesi dell’Unione. Ora, la vicenda del gas russo è senz’altro uno dei motivi che deve spingere l’Europa al cambiamento; ma non è l’unico

R: A mio avviso, i Paesi dell’Eu sono stati fortemente avvantaggiati dalla globalizzazione, perché hanno esportato molto. Ma lo hanno fatto in modo diverso, sulla scorta di un adattamento differente al contesto. La Germania, ad esempio, ha puntato sull’alta tecnologia, sulla qualità e sulla digitalizzazione dell’industria – che ha mantenuto la sua centralità. L’Italia, invece, non è più un produttore di massa: la costruzione di automobili, ad esempio, è circa un terzo di quella a cavallo tra i due secoli, e fa segnare circa 400mila unità, contro i 21 milioni di macchine cinesi. Ora l’Italia si è specializzata nella manifattura di alta qualità, ma di nicchia; non siamo in prima linea nei mercati, e in quanto supplier abbiamo perso la governance della catena del valore. E questo in un contesto in cui l’apporto del valore aggiunto da parte dell’industria rispetto ad altre componenti sta calando: ora solo in Cina è al 27%, mentre in Giappone è al 22%.

D: Dunque l’Europa, di fronte a tutti questi cambiamenti, cosa dovrebbe fare? 

R: Com’è noto, in occasione del suo discorso sullo stato dell’Unione, Ursula von Der Leyen ha annunciato di aver chiesto a Mario Draghi, «una delle menti economiche di spicco in Europa», un «rapporto che analizzi il futuro della competitività europea». Ora, io non sono nella mente di Draghi, ma ritengo probabile che l’ex premier non mancherà di sottolineare alcune esigenze strategiche, fondamentali per il recupero di competitività da parte del Vecchio Continente.

D: E quali sono queste linee strategiche?

R: La prima è costituita da una nuova centralità dell’industria e della manifattura. Queste anzitutto sono fondamentali per il conseguimento di qualsiasi risultato collegato al Green Deal. Chi sviluppa e utilizza i materiali green? Chi cattura e immagazzina le emissioni? Chi realizza l’economia circolare, il re-manufacturing. il de-manufacturing e altro? L’industria, che è chiamata a guidare la transizione verso un’economia più sostenibile. In questo contesto peraltro, l’industria svolge un altro ruolo: quello di traino della crescita innovativa dei Paesi. Perché incorpora, assimila, integra le tecnologie più avanzate e quelle digitali, e perché stimola la crescita e la diffusione di nuove competenze. Insomma, il tempo delle tute blu e dei macchinari sporchi di olio è finito. La manifattura non è un’isola, ma anzi irradia e riceve valori sociali, economici, culturali e ambientali. Ma tutto questo non basta. Occorre una seconda linea strategica.

D: Qual è questa seconda linea strategica?

R: In generale, va affermato che nell’attuale contesto nessun Paese europeo è così rilevante da far sì che la sua industria cresca isolatamente. Non lo è la Francia, che conta solo nel campo aerospaziale; ma neppure la Germania, che è tra i leader mondiale delle quattro ruote. Occorre dar vita ad un sistema industriale integrato europeo, in cui parti o settori di Paesi diversi lavorano insieme in modo sinergico e coordinato per ottenere una maggiore efficienza, competitività e valore complessivo. Occorre massimizzare la collaborazione e la cooperazione tra le diverse parti coinvolte, per far crescere l’economia dell’intero continente. Si devono creare filiere molto coese e spinte sotto il profilo dell’innovazione, in modo che possano generare ricadute sui territori.

D: Mi fa un esempio di sistema industriale integrato?

R: Si pensi alla Chimica. In questo campo, l’Italia in passato ha avuto aziende gigantesche, come la Montedison, che era la settima al mondo per fatturato (poi, scalata dalla Fiat con la francese Edf come alleata, fu smembrata e venduta nel 2002). Ora l’Italia è comunque uno fra i primi dieci Paesi più importanti al mondo, con aziende come Versalis, Mapei, Bracco, Radici e altre; ma, soprattutto, ha grandi competenze, disseminate in centri di ricerca, atenei e aziende. La Germania, invece, è il secondo produttore mondiale. Se si riuscisse a mettere insieme le competenze italiane e la produzione italiana e tedesca, si potrebbe dar vita ad un sistema potente, in grado di rivaleggiare con chiunque al mondo. E oggi il mondo ha bisogno della chimica; perché è grazie ad essa e puoi raccogliere una plastica, decomporla e riciclarla. E l’Europa conta sull’economia circolare. Ma tutto questo comporta l’implementazione di una terza linea strategica.

D: E quale sarebbe la terza linea strategica?

Il presidente Usa Joe Biden. Bianchi spiega come siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, una fase matura che alcuni chiamano deglobalizzazione. I Paesi cercano di riportare nei propri confini o il più vicino possibile la propria capacità produttiva. Si pensi all’Inflation Reduction Act Usa: spinge le imprese a produrre negli Stati Uniti; anzi, ci sono diverse aziende europee intenzionate ad aprire stabilimenti negli Usa.

R: Non si possono creare sistemi industriali integrati e filiere coese senza una vera e propria integrazione istituzionale. Se ogni Paese va avanti per i fatti suoi, se si difende l’orticello con le mani e con i piedi, se ogni politica europea può essere rallentata o fatta cadere dall’opposizione di questo o quel governo, l’integrazione industriale non è possibile.  Draghi ha già detto: siamo ad un bivio: o meno Europa o più Europa. Nel secondo caso ce la giochiamo, nel primo siamo destinati ad essere dei gregari in ogni campo. Dunque occorre qualche aggiustamento istituzionale: perché sotto questo profilo l’Unione mostra un quadro frammentario, lì dove occorrerebbero unitarietà, prestezza decisionale ed efficienza. Serve capacità di sintesi politica a livello continentale; e tutti i Paesi devono viaggiare assieme e all’unisono. E qui si pone anche un problema italiano.

D: Quale problema italiano?

R: Non è chiaro quale partita l’Italia voglia giocare. Quella dell’integrazione europea? O quella più solitaria rispetto al contesto continentale, che secondo i suoi sostenitori dovrebbe favorire le piccole e medie imprese? Intanto l’Italia perde pezzi importanti. Dopo aver perduto Fca, che era comunque il più grande operatore industriale del Belpaese, ora si accinge a perdere Comau, che è il più importante player per la robotica nel Belpaese. Un’azienda centrale per il sistema. Per nel contesto della libertà economica e di mercato, il governo dovrebbe adoperarsi perché un’attività così cruciale, strategica non varchi i confini nazionali.

D: L’Italia può dare altri contributi al sistema industriale integrato?

R: Certo, con la meccanica di precisione, con la meccatronica – un’area chiave per l’industria manifatturiera e l’automazione industriale – e con le machine tool, comparto dove abbiamo una forte presenza.

D: Non dobbiamo anche sviluppare l’intelligenza artificiale e il digitale?

R: Lì abbiamo un problema, come Europa. Molti produttori di tecnologia digitale sono americani: Microsoft, Google, Apple, Amazon. Noi siamo gli utilizzatori, ed è per questo che ci siamo inventati normative sui dati e sulla privacy. Ora dobbiamo capire come queste piattaforme partecipano alla crescita europea. Ma è chiaro che l’Europa non può essere soltanto la boutique del mondo: dobbiamo diventare un centro di propulsione per l’innovazione.

D: L’Europa, però non è famosa per le sue politiche industriali. Genericamente punta, con il Green Deal, su un’industria competitiva, digitale e sostenibile; dove l’accento cade sulla decarbonizzazione.

R: Io penso che il Green Deal sia un grande opportunità per i Paesi dell’Unione Europea, perché non si tratta soltanto di abbattere le emissioni, ma anche di ridisegnare e riorganizzare, oltre che di monitorare, i processi produttivi; e di ridefinire lo stile di vita e di consumo dei contesti cittadini. E tutto ciò ha necessariamente una base tecnologica.  E poi le cose sono cambiate, e ora più che mai c’è bisogno di una politica industriale europea: i problemi sono comuni. Si pensi al gap negli skill e nelle competenze. Anche qui, occorre una strategia forte a livello continentale.














Articolo precedenteMare Più: controlli qualità e analisi dati con Var One e Sap! Raccontata su Sap Success Collection, un libro tutto da leggere
Articolo successivoAl via le iscrizioni per l’ottava edizione della Simatic Run (30 settembre), la corsa solidale di Siemens






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui