La manifattura ha bisogno del professionista dell’innovazione!

di Piero Formica* ♦︎ Secondo uno studio di Sonar Italia, le imprese che si sono dotate di un chief innovation officer sono cresciute del 12,4%, contro il 7,7% delle organizzazioni dove questa figura non è presente. Perché il Cio incoraggia cambi di paradigmi provocati dalla digital transformation, dall’open innovation e…

Motore dell’Italia manifatturiera, è in fermento creativo di nuovi profili professionali il pentagono dello sviluppo formato da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige. Da varie ricerche, una delle più recenti è stata condotta dall’Istituto Cattaneo di Bologna che ha intervistato gli imprenditori della Packaging Valley, cioè il distretto dei produttori di macchinari e attrezzature per l’imballaggio. Nate e cresciute in quell’intreccio di comunità territoriali che ha preso il nome di Valley, le aziende formano un distretto focalizzato sulla progettazione e realizzazione dei componenti delle macchine e sull’assemblaggio di macchine automatiche per una vasta gamma di settori industriali, come l’alimentare (panificazione, pasticceria, bevande, tè) il tabacco, il farmaceutico e il chimico. Molte di esse sono rinomate a livello internazionale, e alcune sono leader mondiali supportate da catene di fornitori e subappaltatori che consegnano prontamente per realizzare le parti della macchina. Tra le aziende parte del distretto: la G.D. di Bologna del Gruppo Coesia, guidato da Alessandro Parimbelli ; la Ima di Ozzano dell’Emilia di Alberto Vacchi; la Tetra Pack di Rubiera guidata da Francesco Faella; le parmensi Sidel (guidata da Monica Gimre), Cft (Marco Moccia) e Ocme (Enrico Aureli); il gruppo Marchesini di Pianoro (Bologna) guidato da Pietro Cassani; il gruppo Aetna di Verucchio (Ravenna), guidato da Valentina Aureli; e la Fava di Cento (Ferrara) di Luigi Fava.

Tra i protagonisti del lavoro futuro spicca la figura del professionista dell’innovazione. È questa la persona responsabile del processo aziendale d’innovazione, del cambiamento tecnologico e portatrice di idee innovative proprie o generate da altri. Il dipanarsi della vicenda delle aree metropolitane pare voler assegnare a quel professionista anche il ruolo di portavoce e progettista delle innovazioni sociali e ambientali, un ruolo da ricoprire nei proposti centri provinciali per l’innovazione delle piccole e medie imprese, come si legge nel documento “Next Generation EU” dell’Associazione Cantiere Bologna. Welfare e natura presentano sfide che non possono essere concepite ed affrontate esclusivamente in termini di potere statale e di mercato.







Sono prove di cui ha da farsi carico chi detiene la responsabilità di innovare tenendo conto delle norme morali alla base della società civile. Quanto potrà contribuire il professionista dell’innovazione a potenziare la capacità innovativa aziendale e, alimentando ed accelerando gli investimenti in R&S ed Innovazione, favorire la salita dell’ascensore Italia ai piani alti dell’innovazione in Europa? La sua influenza e l’impatto che ne consegue dipendono dalla cultura dell’organizzazione in cui il professionista si trova ad operare.

  • Ci sono imprese che pressate dalla concorrenza sono obbligate a fare veri e propri passi avanti, disponendosi ad investire al più presto per guadagni a lungo termine.
  • In altre, è forte il desiderio di costruire qualcosa che funzioni subito. Sono queste le imprese che si concentrano sull’esplorazione pratica ricorrendo agli esperti ed ai test. È la tecnologia che dischiude opportunità per raffinamenti e solo occasionali salti di immaginazione. La produzione di hardware tecnologico mette le ali al professionista dell’innovazione per volare nel cielo dell’innovazione incrementale. Le idee grandiose cedono il passo a una miriade di piccoli cambiamenti che migliorano ma non trasformano il modo di operare. La visione dell’innovazione è sfumata.
  • Se poi l’innovazione proviene da tante direzioni – dai concorrenti, dai clienti, dalle startup, dai laboratori di ricerca – il nostro professionista, agendo in un ambiente di assoluta incertezza dovuta all’impossibilità di ben definire i problemi, dovrà interpretare una mole di informazioni anche tra loro contrastanti e scegliere il percorso da imboccare. In un ambiente caotico, la prima innovazione è come dar vita ad un processo per la creazione di idee originali che coinvolga diversi attori, anche estranei all’impresa.

 

Quali sono i Paesi più innovatori?

È davvero indispensabile il responsabile dell’innovazione?

Il “Chief Innovation Officer” (Cio) non è (non dovrebbe essere) un solista. È tutto il personale aziendale chiamato a formare un’orchestra che suoni gli spartiti dell’innovazione sotto la direzione del Cio. Non ci saranno defezioni se il responsabile avrà la tempra e l’autorevolezza del comunicatore che riceve e unifica i suoni degli orchestrali. Navigando nelle acque dell’innovazione, non il “singolo” ma l’equipaggio dell’“otto” separa il vincente dal perdente. È un cambiamento critico che impone il gioco di squadra. Non basta affidarsi a uno o a un paio di ottimi canottieri.

È il team intero che deve vogare forte e in sintonia. Un comportamento da incoraggiare a fronte dei risvolti di grande portata del cambio di paradigma provocato da un insieme di tecnologie digitali, tra queste la “Stampa 3D”. Basti pensare all’industria manifatturiera che affronta la transizione dalla “sottrazione di pieno” (togliere parti di un materiale tramite tornatura e fresatura) al “riempimento del vuoto” (manifattura additiva) che comporta aggiungere strato a strato di materiale per ottenere il prodotto desiderato (ne abbiamo parlato qui). Secondo i dati resi noti da Sonar Italia, società di consulenza strategica e gestionale, «le imprese dotatesi di un Cio sono cresciute del 12,4%, contro il 7,7% delle organizzazioni dove questa figura non è presente».

Motivazioni per l’adozione di Am. Fonte Sps

Iper-razionalità, iper-specializzazione e previsioni: tre sirene dalle quali rifuggire

Al Santa Fe Institute, un’istituzione nel campo degli studi sulla complessità, gli studiosi –Brian Arthur, in testa – hanno dimostrato che i soggetti economici non pensano iper-razionalmente, rispondendo con strategie ottimali a problemi ben definiti. Al contrario, «l’economia funziona più come un’ecologia in continua evoluzione di credenze, principi e comportamenti, popolata da attori le cui decisioni – spesso necessariamente basate su informazioni incomplete – si riflettono nel sistema stesso che è né ordinato né deterministico. Dinamico e complesso, vivo e pieno di vitalità disordinata, il sistema respinge l’idea che le persone agiscano razionalmente, o che l’economia abbia uno stato di equilibrio». Un’analisi che, a maggior ragione, vale per chi naviga nelle acque insidiose dell’innovazione.

L’iper-specializzazione, con le sue mura mentali, è stata messa seriamente in discussione solo di recente. Ad accendere la miccia del dibattito è stato il biologo di Harvard Edward. O. Wilson, il quale dà il nome di anti-disciplina alla relazione avversaria che spesso esiste quando i campi di studio ai livelli adiacenti di organizzazione iniziano a interagire generando tensioni creative. Con l’obiettivo di abbattere barriere che separando le discipline impediscono la soluzione di problemi sempre più ardui da fronteggiare, Joichi Ito, già direttore del Media Lab del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, fondato da Nicholas Negroponte, ha disegnato grandi spazi vuoti, cioè anti-disciplinari. Allargando ancora di più la prospettiva, s’intravede quanto nell’economia delle idee sia grande e crescente il contributo della convergenza, definita da Tom Siegfried “febbre da fusione”, tra rami scientifici (scienze matematiche, fisiche e naturali) e rami umanistici, e quanto l’innovazione aperta che ha la sua ricchezza nelle molteplici diversità dei partecipanti possa agire da catalizzatore che accelera questa tendenza.

Tra le molteplici cause del paradosso della povertà delle previsioni, pur in presenza di informazioni abbondanti e crescenti, c’è la scarsa considerazione attribuita al comportamento delle persone. Se tanta è l’informazione, scarsa è la capacità di darle un senso. Sono allora le vecchie abitudini e le logore vedute che guidano le previsioni. Sfugge il cambiamento a “U” del comportamento umano di fronte a un’innovazione trasformativa con un impatto dirompente. Nel 1980 si prevedeva che 900 mila telefoni cellulari sarebbero stati in uso entro il 2000. Il numero effettivo si aggirò sul miliardo. Ventisette anni dopo, quando Apple introdusse l’iPhone, gli esperti pensarono che il mercato avrebbe raggiunto il picco di 2,7 miliardi di telefoni cellulari. Nel 2017, i dati del Mobile World Congress annunciarono il sorpasso delle sottoscrizioni alla telefonia mobile rispetto alla popolazione mondiale. Il modo di agire dei singoli individui ha tagliato gli ormeggi predisposti dalle previsioni degli esperti. Errori come questi, tutt’altro che di arrotondamento, producono mappe che molto si discostano dalla realtà del territorio.

Per quanto riguarda le pmi industriali nel 2021 la prima priorità è quella di investire sulle tecnologie digitali per tutelare la salute dei dipendenti sul luogo di lavoro (34% del campione), seguita dalla gestione digitale della mole documentale (30% delle pmi manifatturiere). Meno di un quarto del campione ha investito in tecnologie per digitalizzare e monitorare il processo produttivo

Il professionista dell’innovazione è chiamato a giocare nel campo dell’innovazione aperta

Ancor prima che l’innovazione entrasse nel linguaggio comune, nel vocabolario aziendale la parola “diversificazione”, che sta a indicare l’obiettivo di entrare in nuovi territori di business, si è accompagnata alla conoscenza e all’informazione oltre le mura aziendali, da ottenersi intrecciando legami esterni. È dunque in un continuo che va dalla debolezza alla forza, dall’occasionalità alla sistematicità, dalla bassa all’alta qualità dei legami, che si dispiega l’innovazione aperta. Dismesso l’abito del dualismo manicheo (dentro l’azienda o fuori), l’apertura mentale offre la visione dell’innovazione aperta come un processo in divenire tutt’altro che perfetto, non lineare ma ciclico, con punti di origine i più vari, che emette segnali di preavviso ed è dotato di meccanismi di retroazione. L’apertura mentale, poi, agisce da calamita che attrae in quel processo i talenti e sviluppa cicli veloci d’iterazione creativa. Ne scaturiscono comportamenti altamente generativi di responsabilità e benefici reciproci.

Nell’ambito dell’innovazione aperta è motivo di gioia il condividere idee, pensieri e progetti. Nessuno possiede conoscenza illimitata. Il vantaggio potenziale di ciascuno di noi non è rintracciabile negli angusti anfratti della razionalità individuale, bensì nella volontà e capacità di pensare e agire in comunità d’innovazione aperta. Ciò richiede quell’apertura mentale che spinge a divulgare anziché a tenere per sé le proprie idee. In questa prospettiva che potremmo soprannominare “anti-newtoniana” data la presunta avversione del grande scienziato di Cambridge a rendere pubblico il suo pensiero, l’interesse suscitato dalla divulgazione e i conseguenti rapporti interpersonali che si vengono a instaurare sono visti come fonti di vantaggio eccedente i costi da sostenere lungo quel processo. La visione gerarchica, piramidale, dei rapporti umani cede il passo al suo opposto: il sistema distribuito assimilabile al cerchio. Riprendendo il pensiero di Stefano Mancuso, lo scienziato dell’Università di Firenze che ha fondato la neurobiologia vegetale, il disegno dell’innovazione aperta che progetta il futuro rispondendo fisiologicamente ai cambiamenti dell’ambiente è paragonabile all’architettura delle piante il cui stile di vita è la cooperazione “senza organi né centri di comando”.

Come ci si muove nello spazio mentale dell’innovazione aperta? Una risposta prende spunto dal gioco degli scacchi. L’innovatore aperto è assimilabile al cavallo giacché salta da un team a un altro, e così spostandosi è fonte di sorprese. Il nostro giocatore ha infinite possibilità da sfruttare, e illimitate sono le possibili reazioni degli altri giocatori. Nell’incertezza radicale che li avvolge, ciascuno di loro si affida a semplici regole di comportamento, un po’ a occhio e croce. Ci si può muovere spostandosi negli spazi adiacenti al proprio dominio. Così si comportò Nicholas Callan (1799-1864), scienziato e prete irlandese, cui si deve, nel 1836, la bobina nella quale circola una corrente alternata. Un risultato ottenuto combinando insieme due idee adiacenti: la scoperta nel 1831 dell’induzione elettromagnetica da parte del fisico e chimico Michael Faraday e l’elettromagnete inventato nel 1825 dal fisico William Sturgeon. Può accadere che gli spazi mentali adiacenti diano luogo a spazi fisici che sono sorgenti di combinazioni improbabili. Ciò è accaduto nel nostro poligono dello sviluppo manifatturiero. Ora spetta all’orchestra dell’innovazione sotto la direzione del professionista qui tratteggiato rafforzare quando possibile le reti della manifattura avanzata e creare nuove colonie industriali altamente qualificate.

 

 

*Piero Formica è Professore di economia della conoscenza, Senior Research Fellow dell’International Value Institute presso la Maynooth University in Irlanda. Presso il Contamination Lab dell’Università di Padova e la Business School Esam di Parigi svolge attività di laboratorio per la sperimentazione dei processi di ideazione imprenditoriale














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