McKinsey, né angeli né demoni: tutto quello che avreste voluto sapere sulla regina delle società di consulenza

di Marco Scotti ♦︎ Ha dato i natali professionali a una pletora di grandi manager: da Corrado Passera ad Alessandro Profumo, da Paolo Scaroni a Francesco Caio. Ma ultimamente è finita nell’occhio del ciclone in Italia per il lavoro di advisory che sta fornendo al governo in materia di Pnrr. Non c’è però nulla da eccepire: per spendere 209 miliardi di euro servono esperti e professionisti che sopperiscano al bislacco piano messo in piedi dal governo Conte. Diversa la panoramica internazionale, dove alcuni dossier bollenti (dall’aiuto ai dittatori alla diffusione degli oppiodi) mettono in imbarazzo l’azienda. Che cosa sta succedendo?

L’arrivo al governo di Mario Draghi ha riacceso il dibattito economico intorno a McKinsey: luogo di eccellenza che permette alle carriere di decollare? Occulto centro di potere pronto a indirizzare la politica italiana negli anni a venire? Fiancheggiatore di dittatori e regimi autoritari? La verità è ovviamente molto più complessa e sfaccettata. Qualcuno ha definito “assurda” la consulenza di McKinsey al Pnrr, ma è in realtà non solo una prassi invalsa da decenni, ma è soprattutto un tema da celebrare: il costo di Pnrr euro, infatti, rivela che l’azienda ha tutto l’interesse a mettersi in luce. E che saprà individuare – o almeno questo è l’auspicio – le zone migliori in cui intervenire per spendere i 209 miliardi del Recovery Fund.

Ma c’è anche un rovescio della medaglia: quella che rimane a tutti gli effetti la più autorevole “firm” della consulenza sta vivendo un momento complesso, tanto che qualcuno ha sostenuto che il suo famoso “tocco magico” sia andato svanito. Non è ovviamente così, anche perché basta un rapido tour sul sito internet per vedere la pervasività e la capillarità con cui la società di consulenza che ha appena festeggiato 95 anni è presente in ogni industria: dai semiconduttori all’oil&gas, dall’automotive al real estate fino ai servizi finanziari. Ma è bene prima di tutto scindere gli argomenti tra l’Italia e le vicissitudini a livello globale.







L’azienda è famosa in Italia per aver fatto partire la carriera di molti manager: Francesco Caio, amministratore delegato di Saipem in pectore; Fulvio Conti, già ceo di Enel; Enrico Tommaso Cucchiani, al timone di Intesa Sanpaolo nell’interregno tra Corrado Passera e Carlo Messina; lo stesso Corrado Passera, tra l’altro, è tra i “McKinsey boys”; il banchiere Ettore Gotti Tedeschi; l’ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni; l’ad di Leonardo Alessandro Profumo; il guru della consulenza Roger Abravanel, primo managing partner dell’azienda nel nostro Paese; l’amministratore delegato di Zurich Mario Greco. E soprattutto l’attuale ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao. Il quale è stato prima a capo di Vodafone e poi è entrato – seppur poco amato – come numero uno della task force che avrebbe dovuto indirizzare le riaperture durante il governo Conte. Un’esperienza breve e tutto sommato infelice che si è conclusa anzitempo a causa dei continui dissapori con la politica da una parte e con la Commissione Tecnico-Scientifica dall’altra. A livello globale, più di 80 tra i ceo delle prime 500 aziende al mondo secondo Fortune provengono da McKinsey. Tra questi ci sono anche protagonisti della cronaca finanziaria. È il caso di Jeff Skilling, ceo di Enron che nel 2006 venne condannato a 24 anni di reclusione per il crac dell’azienda. Ma anche politici di spicco come l’ex leader del partito conservatore inglese William Hague. O manager di colossi tecnologici come Ibm: è il caso di Louis Gerstner, dal 1993 al 2002 presidente e amministratore delegato di Big Blue, protagonista del risanamento dei conti aziendali.

 

La consulenza al governo Draghi sul Pnrr: una polemica sterile

Il premier Mario Draghi

Per quanto riguarda il nostro Paese, ha destato molto scalpore il fatto che Mario Draghi abbia deciso di appoggiarsi a McKinsey – guidata in Italia da Massimo Giordano – per tratteggiare le linee guida su cui disegnare il nuovo Recovery Plan. L’indiscrezione ha immediatamente fatto salire la tensione attorno all’esecutivo, accusato di affidarsi ai “mostri” del capitalismo di fatto alimentando la vulgata che vuole questo governo come frutto dei famosi (e famigerati) poteri forti. La realtà è ovviamente molto diversa: una nota del Ministero dell’Economia e delle Finanze dello scorso 6 marzo spiegava molto bene i termini dell’accordo. Prima di tutto, specificando che si tratta di un contratto da 25mila euro + Iva. Non male, se si pensa che la consulenza di McKinsey può arrivare a 15mila euro al giorno per le aziende.

Nessuna intromissione, nessun ossequio al turbo-capitalismo, più semplicemente un ruolo di advisory per indicare le aree su cui insistere maggiormente. E visto il mezzo disastro che era stato fatto dal precedente esecutivo, forse non è così male come idea. L’Europa ha bisogno di certezze, ha bisogno di garanzie precise che quei soldi che arriveranno (209 miliardi complessivi) non finiranno distribuiti a pioggia come l’ennesima mancetta elettorale.

Il global managing partner di McKinsey Kevin Sneader

Ma verranno individuate aree strategiche, dall’industria alle infrastrutture più innovative, su cui indirizzare quei soldi. Una spesa produttiva, dunque, magari rendendola anche foriera di importanti novità. Si pensi per un istante al potere dirompente di destinare una fetta consistente di questa cifra alla ricerca medica e farmaceutica, permettendo all’Italia di abbandonare lo scomodissimo ruolo di “terzista” per diventare un polo di eccellenza nello sviluppo di nuovi prodotti. Anche in tema di vaccini, avere poli produttivi efficienti consentirebbe di sopperire alle lungaggini di una campagna che stenta a decollare a causa di problemi, ritardi e qualche “furbizia” di troppo.

Nella nota del Mef, dunque, si leggeva chiaramente quale fosse lo scopo della “chiamata” di mcKinsey: «Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia. L’amministrazione si avvale di supporto esterno nei casi in cui siano necessarie competenze tecniche specialistiche, o quando il carico di lavoro è anomalo e i tempi di chiusura sono ristretti, come nel caso del Pnrr. L’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico- operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del piano. Il contratto ha un valore di 25mila euro più Iva ed è stato affidato ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti “sotto soglia”».

Dunque nessuno scandalo, nessun potere forte all’orizzonte. Soltanto l’ennesima polemica un po’ sterile. Di più: il 10% dell’intero fatturato delle società di consulenza (fonte Assoconsult) arriva proprio dalla Pubblica Amministrazione. Dal 1994 al 2012 (fonte Corte dei Conti) le aziende del comparto hanno ricevuto dalle istituzioni circa 2,2 miliardi di euro per 160 consulenze in materia di privatizzazioni. Non si capisce, dunque, per quale motivo debba esserci cotanto trambusto intorno alla presenza di una società di consulenza a contatto con i decisori. Diverso, semmai, è il tema che riguarda il nome scelto, cioè McKinsey e perfino il valore del contratto stesso.

Risorse del dispositivo Next Generation EU per missione

 

Le opportunità che si aprono in Europa e i motivi di un prezzo così “basso”

In un mondo come quello della consulenza, che senso ha sporcarsi le mani per una cifra così piccola? La somma messa sul piatto è infatti quanto potrebbe chiedere un singolo professionista per aiutare un’azienda di medie dimensioni a individuare la strategia più corretta. Dunque, McKinsey ha sicuramente altri motivi per entrare nella partita, probabilmente avendo scelto di usare il “massimo ribasso” pur di entrare al tavolo del Pnrr. E i motivi sono principalmente due: il primo è quello di avere informazioni di rilievo sui clienti, per capire se e come verranno coinvolti dal fiume di denaro previsto dal Recovery Fund. Ma questo è un tema che interesserebbe qualunque società di consulenza, non soltanto McKinsey. Il secondo vantaggio competitivo è quello di accreditarsi a Bruxelles come “king maker” nelle decisioni più delicate dal Dopoguerra a oggi, di fatto facendo un’azione di self-marketing a costo zero.

Sono 6 le missioni del Pnrr, che a loro volta raggruppano 16 componenti funzionali a realizzare gli obiettivi economico-sociali definiti nella strategia del Governo. Le componenti si articolano in 47 linee di intervento per progetti omogenei e coerenti. I singoli progetti di investimento sono stati selezionati secondo criteri volti a concentrare gli interventi su quelli trasformativi, a maggiore impatto sull’economia e sul lavoro

I problemi a livello internazionale: l’appoggio ai dittatori

Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia

Sì perché l’immagine di McKinsey, a livello globale, ha bisogno di una bella mano di bianco. Un articolo del New York Times di dicembre 2018 metteva in relazione l’attività di McKinsey con quella di regimi autoritari o dittatoriali. Tra i clienti si possono annoverare la monarchia assoluta dell’Arabia Saudita – tornata al centro della cronaca italiana per la presenza fissa di Matteo Renzi e per la responsabilità acclarata di Bin Salman nel brutale omicidio di Jamal Kashoggi all’interno dell’ambasciata araba a Istanbul – la Turchia sotto la guida autocratica del presidente Recep Tayyip Erdogan e governi afflitti dalla corruzione in paesi come il Sudafrica.

In Ucraina, si legge nell’articolo del New York Times, “McKinsey e Paul Manafort – presidente della campagna elettorale del presidente Trump, poi condannato per frode finanziaria – sono stati pagati dallo stesso oligarca per contribuire a lucidare l’immagine di un candidato alla presidenza caduto in disgrazia, Viktor F.Yanukovich, riformulandolo come riformatore. Una volta in carica, il signor Yanukovich ha respinto l’Occidente, si è schierato con la Russia ed è fuggito dal paese, accusato di aver rubato centinaia di milioni di dollari. Gli eventi hanno scatenato anni di caos in Ucraina e una situazione di stallo internazionale con il Cremlino”.

In Russia McKinsey ha collaborato con società collegate al Cremlino che sono state sanzionate dai governi occidentali, tra cui soprattutto minerario, manifatturiero, oli&gas, banche. In Cina, ha fornito consulenza ad almeno 22 delle 100 maggiori società statali – quelle che stanno portando avanti alcune delle iniziative più strategiche e divisive del governo, secondo una revisione del materiale in lingua cinese del Times. Anche se non è insolito per le società americane lavorare con le società statali cinesi, il ruolo di McKinsey l’ha messa a volte nel mezzo di accordi profondamente travagliati. In Malesia, la società ha presentato il caso per uno dei leader più corrotti dell’Asia di perseguire miliardi di dollari dalla Cina in un momento in cui era sospettato di incanalare ingenti somme di denaro pubblico nelle proprie tasche, attirando decine di migliaia nelle strade per protesta contro di lui. E negli Usa, con un contratto da 20 milioni di dollari con l’Immigration and Customs Enforcement, ha spiegato come ridurre i costi di gestione degli immigrati irregolari: riducendo pasti e assistenza medica nei centri di detenzione temporanea.

 

L’accordo giudiziario per l’oppiaceo OxyContin

Purdue Pharma headquarters Stamford, Connecticut. McKinsey, hanno stabilito i giudici, ha lavorato alacremente per aumentare le vendite di un potentissimo antidolorifico, l’OxyContin della Purdue Pharma. Questo medicinale è sì venduto come “painkiller” ma dà enorme dipendenza ed è potenzialmente più letale dell’eroina, tanto che si ritiene che abbia causato 450mila morti negli ultimi vent’anni.

A febbraio di quest’anno, poi, l’azienda ha accettato di pagare 573 milioni di dollari per regolare le indagini sul suo ruolo nell’aiutare le vendite di oppiacei “turbo”, un raro esempio in cui si è dichiarata pubblicamente colpevole per il suo lavoro con la clientela. Dunque, che cosa è successo? McKinsey, hanno stabilito i giudici, ha lavorato alacremente per aumentare le vendite di un potentissimo antidolorifico, l’OxyContin della Purdue Pharma. Questo medicinale è sì venduto come “painkiller” ma dà enorme dipendenza ed è potenzialmente più letale dell’eroina, tanto che si ritiene che abbia causato 450mila morti negli ultimi vent’anni.

La documentazione prodotta contro McKinsey parte dal 2004 e arriva fino al 2019. Viene evidenziato lo stretto rapporto con Purdue nel corso degli anni. Nel 2009, l’azienda ha scritto un rapporto per Purdue affermando che nuove tattiche di vendita avrebbero aumentato le vendite di OxyContin fino a 400 milioni i dollari all’anno, e ha suggerito “driver di vendita” basati sull’idea che gli oppioidi riducono lo stress e rendono i pazienti più ottimisti e meno isolati, secondo una causa intentata nel 2018 dal Massachusetts. McKinsey ha lavorato con i dirigenti della Purdue per trovare modi “per contrastare i messaggi emotivi delle madri con adolescenti che hanno fatto un’overdose” di droga.

Nel 2013, il governo federale ha raggiunto un accordo con Walgreens, la catena di farmacie, per reprimere le prescrizioni illegali di oppioidi. Le vendite a Walgreens iniziarono a diminuire. Secondo la causa del Massachusetts, McKinsey ha raccomandato a Purdue di “fare pressioni sui leader di Walgreens per allentare” le restrizioni. E in una presentazione del 2017 per Purdue, McKinsey ha presentato diverse opzioni per sostenere le vendite. Uno era quello di concedere ai distributori uno sconto per ogni overdose di OxyContin attribuibile alle pillole vendute.

Infine, il mese scorso i 650 partner della società di consulenza hanno deciso di revocare il mandato al global managing partner Kevin Sneader. Perché? E qui viene il bello. Al di là di qualche motivazione di prammatica, non si riesce a capire quali siano le responsabilità che gli vengono attribuite. Tanto che l’Economist ha scritto che in molti tendono a “vedere la sua partenza come il mea culpa strangolato dell’azienda; la cacciata di un capo è tipica di un’azienda immersa nel genere di scandali che Mr Sneader ha dovuto affrontare, da affari fraudolenti in Sud Africa e risoluzione di cause di conflitto di interessi al pagamento di quasi $ 575 milioni per risolvere reclami dal momento che i suoi consigli hanno aiutato esacerbare la crisi degli oppioidi in America. Eppure le radici di tutte quelle crisi sono antecedenti ai suoi tre anni di mandato. È, al massimo, il capro espiatorio”.

L’Europa si è impegnata in uno sforzo senza precedenti per la ripresa post pandemica. Non solo il Recovery Fund, ma tutta una serie di iniziative che hanno coinvolto tutte le istituzioni dell’Unione, dalla Commissione, alla Bei al Fei. Iniziative nate nel seno della crisi da Covid e mirate a guidare il rilancio. E che per l’Italia rappresentano un’occasione unica e senza precedenti per uscire dal torpore economico in sui staziona da vent’anni. Al nostro Paese sono destinati circa un terzo di tutti i fondi stanziati: dai notissimi 209 miliardi del Recovery, a circa 30 dei 100 del piano Sure per il lavoro. Un terzo anche dei piani messi in piedi dalla Bei. Senza considerare tutti i fondi per lo sviluppo regionale (Fers), stanziato dall’Ue per ridurre i gap tra i territori e che pur non essendo strettamente legati alla pandemia si sommano ai primi generando una vera montagna di opportunità. La dotazione e le finalità del Fesr del Fondo di coesione (che assiste gli Stati membri con un reddito nazionale lordo pro capite inferiore al 90% della media dell’Unione europea, sempre nell’ottica di eliminare gli squilibri) per il periodo successivo al 2020 sono stati da poco definiti: quasi 234 miliardi di euro per “investire in un’Europa più intelligente, più verde, più connessa, più sociale e più vicina ai cittadini”

Uno sguardo al futuro

Massimo Giordano
managing partner, Mediterranean office di McKinsey

Nonostante ricavi raddoppiati e arrivati a 10 miliardi di dollari, McKinsey continua a pensare a se stessa come a una partnership basata sulla fiducia, non una che richiede comando e controllo centralizzati. Il suo sistema di voto ricorda una democrazia ateniese d’élite. “Più guai si trova – scrive l’Economist – , più ha bisogno di un leader spartano, sostenuto da un forte apparato di controllo del rischio, per mantenerlo sul dritto e stretto. Il “consiglio degli azionisti” di 30 persone di McKinsey, il suo consiglio di amministrazione, potrebbe essere troppo immerso nella cultura settaria dell’azienda per rendersi conto di quanto sia pressante la necessità di un cambiamento. Il signor Sneader ha avviato le riforme. La sua defenestrazione sembra minacciosa per coloro che sperano che andranno molto oltre sotto il suo successore”.

L’Economist prova anche a trovare una soluzione a questa crisi di fiducia e credibilità. Un maggiore controllo del rischio è un must. I pagamenti dei clienti dovrebbero essere più standardizzati. La maggior parte sono commissioni fisse (anche se grosse) ma circa il 15% è legato alle prestazioni; questi ultimi creano incentivi per risultati di turbocompressione in modo anomalo. Ferita dallo scandalo, un’azienda veramente progressista lancerebbe la propria versione di una commissione per la verità e la riconciliazione per vedere se c’è qualcos’altro in agguato nell’armadio. Potrebbe spingere una generazione di partner verso la pensione. “Ciò – conclude l’Economist – lo renderebbe meno ingombrante e farebbe posto a chi è più abituato al bagliore della pubblicità”.














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