In libreria “La nuova rivoluzione industriale” di Patrizio Bianchi

Riflettendo sulle rivoluzioni industriali del passato, a partire da quella inglese del XVIII secolo, il libro mostra come in gioco vi siano profondi rivolgimenti sociali e territoriali, non solo la tecnologia.

 

Non è priva di radici la quarta rivoluzione industriale. Certo, da un punto di vista tecnologico, il balzo che ha portato alle piattaforme IoT, alle macchine interconnesse, alla elaborazione di miliardi di dati e alla personalizzazione di massa è grande; tuttavia, anche la cosiddetta trasformazione digitale sembra rispondere ad un’idea antica, risalente ad Adam Smith, che nel 1776 affermò che la ricchezza delle nazioni si fonda sul modo stesso di organizzare competenze, abilità operative e intelligenza. Solo così si rende il lavoro delle persone capace di generare un valore aggiunto. Se ne parla in “4.0 La nuova rivoluzione industriale” (Il Mulino, 128 pagine, 11 euro, appena uscito in libreria) scritto dall’economista Patrizio Bianchi.







Si legge nella premessa al testo che «dal cuore di una lunga crisi emerge una nuova industria che dal 2011, sulla spinta del governo tedesco, chiamiamo industria 4.0. Di tutto il complesso processo di trasformazione che l’ha plasmata viene data una lettura essenzialmente tecnologica, di cui si pone in evidenza l’impatto sempre più rilevante, non solo sulla manifattura ma anche sui servizi – dal commercio alla cura della persona, fino ai servizi alla collettività. Internet delle cose, intelligenza artificiale, robotica, veicoli autonomi e droni, realtà virtuale, blockchain, tracciabilità digitale, stampa 3D sono tecnologie che, cumulandosi e integrandosi in un contesto di sempre più densa interconnessione totale, stanno cambiando la nostra vita. Tuttavia questa lettura non è sufficiente e dobbiamo domandarci cosa ci sia effettivamente di nuovo, di dirompente, e cosa, invece, di continuativo nel cambiamento strutturale dell’economia mondiale, che poniamo sotto la fascinosa etichetta di industria 4.0, per la quale si parla addirittura di nuova rivoluzione industriale».

Patrizio Bianchi
Patrizio Bianchi

 

«In altre parole se per questa riorganizzazione che sta investendo l’industria, i commerci, la nostra vita usiamo, e io credo a ragione, il termine così impegnativo di rivoluzione, allora dobbiamo ricollocare tutte le nostre riflessioni in una prospettiva lunga, che veda nel suo insieme le grandi trasformazioni che hanno strutturato e sconvolto il nostro mondo negli ultimi secoli, in cui l’industria è divenuta il motore stesso della crescita, ricchezza e a volte rovina di interi paesi; un’industria che qui consideriamo come la produzione organizzata non per la sopravvivenza di piccoli gruppi familiari chiusi o per guadagnare la protezione di un signore feudale, ma per il mercato, cioè per un sistema sociale in cui fra pari – fra persone aventi eguali diritti ed eguali doveri – ci si scambiano diritti di proprietà di beni realizzati appositamente per essere venduti in un contesto in cui altri operatori sono in grado di realizzare e vendere beni comparabili e quindi competitivi. Questo scambio si fonda su un’organizzazione del lavoro che deve essere definita proprio nell’ambito di forze concorrenti e interagenti che chiamiamo appunto «mercato».

«Per capire meglio cosa oggi stia succedendo, torneremo dunque alle origini, ricostruendo la storia delle rivoluzioni industriali a partire da quella che fu la grande rivoluzione industriale inglese del XVIII secolo, che a tutti gli effetti inaugura la lunga stagione del capitalismo industriale».

«La rivoluzione industriale, descritta da Adam Smith nel 1776, affonda tuttavia le sue radici nella rivoluzione politica del 1688-89, dalla quale emerse una classe di uomini nuovi che – senza diritti di nascita – potevano affermare sé stessi utilizzando le loro competenze, le loro conoscenze, le tecnologie che il tempo metteva a disposizione e che loro trasformarono in uno strumento di ascesa sociale. Quella rivoluzione industriale fu però resa possibile anche dalla rivoluzione scientifica avviata da Isaac Newton, che rese evidenti le forze che regolavano – al di là di ogni metafisica – le meccaniche celesti, e dalla rivoluzione culturale di John Locke, che estese questa visione scientifica basata sull’interazione di soggetti indipendenti alle dinamiche dell’intera società».

«Egualmente non si può capire la quarta rivoluzione industriale senza cogliere le profonde trasformazioni politiche e culturali indotte dalla fine del mondo bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale, senza comprendere fino in fondo il senso di quella globalizzazione che ha posto al centro dell’economia mondiale paesi che fino alla fine del secolo scorso erano stati al margine della crescita mondiale, a partire dalla Cina, che oggi di questo mondo globale è la prima attrice».

«Del resto non si può capire il significato di rivoluzione industriale senza tener conto di quelle vere e proprie rivoluzioni che all’inizio del Novecento hanno sconvolto la scienza, introducendovi le teorie della relatività e la fisica dei quanti, che hanno cambiato lo stesso modo di concepire la materia, aprendo la via fra l’altro a quella digitalizzazione che della nuova società 4.0 è l’asse portante. Così, non si può certo intendere il mondo attuale senza cogliere come la lunga storia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione affondi le sue radici nelle equazioni di Maxwell, che alla metà dell’Ottocento sintetizzarono gli studi sull’elettromagnetismo, e senza comprendere come da quella sistematizzazione teorica si giunse fino alle sperimentazioni di Marconi e a tutti gli sviluppi successivi che, incrociando e sintetizzando le diverse scienze, hanno portato a Internet. L’iperconnessione continua, che in ogni attimo lega le nostre vite, unisce fasi produttive, macchine, robot che seppure dislocati nei quattro angoli del pianeta diventano segmenti di una stessa fabbrica virtuale definita sempre più non tanto dai flussi di produzione fatta, cioè il tangibile trasformarsi del bene fisico, ma dal flusso intangibile di quella produzione da farsi, composta da algoritmi, applicazioni e soprattutto dati, dati, dati, che costituiscono il vero propellente di questa nuova rivoluzione industriale».

«La nuova rivoluzione industriale, che chiamiamo 4.0 come metafora delle rivoluzioni discioltesi nella storia del capitalismo industriale, promette di superare la vera contraddizione delle precedenti forme di industrializzazione, nelle quali la capacità dell’artigiano di produrre beni personalizzati venne sostituita dalla produzione di massa dell’età fordista – con i suoi grandi impianti che producevano beni omogenei per una concorrenza di prezzo – per giungere infine a una produzione in grandi volumi ma di beni personalizzati».

«Ad esempio, in ambito medico aumenta la possibilità di rispondere ai bisogni delle singole persone non più con un farmaco standard, da variare secondo quantità – una o due pastiglie al giorno – ma con terapie personalizzate, che sono il frutto dello sviluppo industriale di quella ricerca sul genoma umano che ha permesso di scoprire la semplice verità che ognuno di noi è egualmente diverso da ogni altro».

«La rivoluzione industriale è dunque una rivoluzione non tanto perché mettiamo i robot al posto dei singoli lavoratori, ma perché quelle macchine sono i totem delle grandi trasformazioni sociali, scientifiche, politiche, che hanno portato sino a noi. D’altra parte le rivoluzioni industriali tolgono lavoro e creano lavoro, ma soprattutto trasformano il lavoro e tutti i rapporti sociali connessi con l’organizzazione del lavoro, generando allo stesso tempo situazioni in cui convivono crisi d’impresa e nuove imprese prorompenti, disoccupati che vengono espulsi e mancanza di competenze che si presentano come vincoli per l’emergere delle nuove realtà produttive, ritorni a lavoro degradato e nuovi eleganti business, ma soprattutto vengono meno le vecchie consolidate routine di mediazione e rappresentanza sociale; cadono vecchi valori e con fatica emergono nuovi sentimenti condivisi e propri di una società in profonda trasformazione».

«Se vogliamo considerare industria 4.0 il segno di una nuova rivoluzione industriale, per coglierne tutta la complessità dobbiamo ripartire dalla produzione, cioè da come si strutturano il lavoro e il capitale all’interno di un’organizzazione specificatamente rivolta a creare valore dalla trasformazione delle risorse materiali o immateriali in beni fruibili dalle persone o dalle collettività. Questo tema è stato affrontato anticamente dall’economia politica classica, perdutasi poi a vantaggio di un’attenzione tutta dedicata allo scambio, alla concorrenza basata semplicemente sui prezzi, al commercio. Il ritorno a un’analisi della produzione, come fattore primario per spiegare il rapporto tra cambiamento strutturale e dinamica economica, è legato a quella che si chiama la Scuola italiana di Cambridge, da Piero Sraffa a Luigi Pasinetti, fino a Roberto Scazzieri».

«Cominciamo quindi dall’inizio, dalla prima rivoluzione industriale, quella che oggi chiameremmo industria 1.0, per poi tratteggiare rapidamente i caratteri della seconda – quella del fordismo e della produzione di massa, quella della catena di montaggio – e infine della terza rivoluzione industriale – in cui è realizzata una produzione differenziata e sono emerse le tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni – per arrivare a noi, alla connessione continua di tutti e di tutto, all’intelligenza artificiale e aumentata, alle mille innovazioni che ogni giorno ci aprono mondi nuovi».

«Tuttavia credo che ancora oggi rimanga centrale la semplice verità che Adam Smith scrisse nel 1776 e cioè che la ricchezza delle nazioni si fonda sul modo stesso di organizzare le competenze, le abilità operative, l’intelligenza che rendono il lavoro delle persone capace di generare un valore aggiunto dato dalla trasformazione di una materia inerte in un bene, in un servizio, in grado di soddisfare un bisogno di altre persone».

«Questo breve libro si accontenta di aprire i cassetti della curiosità, di farsi un’idea, ma su questa idea accendere il desiderio di sviluppare altri pensieri».

 

[boxinizio]

Patrizio Bianchi insegna Economia applicata nell’Università di Ferrara, dove è stato Rettore fino al 2010. È assessore della Regione Emilia-Romagna a coordinamento delle politiche europee allo sviluppo, scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro. Tra le sue pubblicazioni per il Mulino La rincorsa frenata (2013) e Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea (2017).

[boxfine]

 

 

 

 














Articolo precedenteA Parma gli ultimi figli di ABB Ability
Articolo successivoPrimato europeo per Leonardo: testata con successo la guida satellitare di un drone di classe male






1 commento

  1. La premessa e’ eccellente, un modo di aprirsi alle gigantesche innovazioni permanenti del tempo che viviamo, rintracciando i fili della storia, andando incontro in modo aperto, non rassegnatl ma pieno di speranza verso il nuovo e le immense incognite in esso contenute riuscendo a costruire insieme il regno palpabile di una nuova piu’ giusta ed avanzata civilta’….rompiamo i recinti ed ogni segregazione del pensiero guardiamo di nuovo in alto, nel cielo puntellato di miliardi e miliardi di stelle sconosciute e luminose…

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui