E se l’inflazione portasse in realtà maggiori utili 2022 a molte imprese industriali?

di Riccardo Gallo*♦︎ Già nel 2020 l'indice di liquidità (0,91) era molto brillante, perché a minori entrate sono corrisposte minori spese. Questa volta ci potrebbe essere un paradosso speculativo, perché le materie prime rincarate, in alcuni casi, verranno comprate solo a fine 2022 o nel 2023. Ma intanto i prezzi sono già saliti, a tutto vantaggio di alcuni. Come già negli anni Settanta

Una previsione dell’impatto della guerra in Ucraina sulla gestione economica delle imprese italiane può essere fatta se si guarda cosa accadde in passato in crisi mondiali analoghe. Si scoprono cose sorprendenti. Cominciamo dalla guerra del Kippur a ottobre 1973 e dalla crisi petrolifera che fece aumentare di dieci volte la quotazione del greggio, si trasformò in crisi energetica e delle materie prime. All’epoca non esistevano gli strumenti informatici di contabilità e di controllo di gestione che ci sono oggi. Perciò l’impatto reale in termini di antieconomicità strutturale di molte lavorazioni (petrolchimica, metallurgia) fu chiaro solo qualche anno dopo.

A ottobre 1975, quando approvarono i bilanci dell’esercizio 1974, le società industriali trovarono margini economici migliori di quanto pensassero. La ragione fu che la produzione in quegli anni era basata su cicli molto integrati, con scorte di materie prime abbondanti, cosicché per una parte dell’anno 1974 le imprese produssero attingendo al magazzino di materie prime comprate prima della guerra a prezzi bassi e vendettero prodotti finiti a prezzi rincarati. Siamo andati a consultare l’archivio aggregato dei bilanci di 980 società industriali dell’Area Studi Mediobanca dal 1968 in poi e abbiamo trovato che nel 1974: il fatturato per un quinto venne dalle esportazioni, più e non meno dell’anno prima; la redditività delle vendite, sia pur minima, fu ancora positiva; i soci, comunque preoccupati, deliberarono dividendi generosi attingendo alle riserve, in modo da portar via i profitti degli anni precedenti.







Nel 2020, primo anno della pandemia da Covid-19, si è detto in modo assillante che le imprese avrebbero chiuso tutte per crisi di liquidità e perciò sono stati regalati soldi a destra e a manca. Il discorso non ci convinceva perché, chiudendo le fabbriche, con il ricorso alla Cassa integrazione, non consumando materie primeenergia, l’unico costo per le imprese era l’ammortamento, da destinare in parte e finanziariamente al rimborso dei debiti. Ma le banche concessero una sospensione dei rimborsi e l’accantonamento poté essere rinviato. Dunque, perché mai le imprese avrebbero dovuto prosciugare la loro cassa? Siamo andati a consultare di nuovo il bilancio aggregato di 2140 società industriali dell’Area Studi Mediobanca per il 2020 e abbiamo trovato che l’indice secco di liquidità (cioè il rapporto tra l’attivo corrente al netto delle rimanenze e il passivo corrente) è stato pari a 0,91, il più alto nella storia economica del nostro paese. Un livello mai visto. Per inciso, va detto che il fatturato esportato è stato pari al 42,1%, assolutamente stabili negli ultimi cinque anni.

L’embargo al gas e al petrolio russi è promosso e attuato da Joe Biden per gli Usa, approvato dal Regno Unito e proposto agli Stati membri dalla Commissione Europea – che proprio oggi ha definito un piano d’azione per diversificare gli approvvigionamenti e tagliare di due terzi l’import dalla Russia

Nel 2022, in queste settimane di guerra in Ucraina e di shortage di materie prime e semilavorati di importazione da Russia e Ucraina, gira voce che il prezzo degli input sia balzato all’in su e che quindi anche i prodotti finiti debbano essere rincarati per quanto tollerato dal mercato. Ebbene, da un lato è vero che alcune filiere si siano rotte e che ci siano problemi di continuità lavorative in non pochi settori, dall’altro non si giustifica un aumento generalizzato del prezzo di tutte le materie prime, per non parlare del prezzo speculativo dell’energia, come segnalato dal ministro Cingolani. Siamo pronti a scommettere che tra un anno, con la chiusura dei bilanci 2022, scopriremo margini economici fantastici per molte imprese industriali.

Altro allarme, questa volta più motivato, è legato a una fine dell’era della globalizzazione. Le teorie sono disparate: 1) c’è chi nega ci sia un simile declino; 2) altri anzi dicono che la stessa guerra in Ucraina sia una nuova espressione della globalizzazione; 3) altri invece ne affermano la fine e ne danno la responsabilità al liberismo sfrenato che avrebbe mortificato e sottovalutato gli stati nazionali; 4) altri afferma la fine ma ne attribuiscono la colpa agli stati che non avrebbero saputo tesorizzare i vantaggi recati con neutralità geopolitica dalla multinazionalizzazione.

Una vista delle torri e delle strutture di una stazione di pompaggio del gas nella tundra e di una grande centrale termoelettrica combinata. Industria ed energia nell’Artico. Chukotka, Russia

La seconda e la terza tesi, combinate, sono enunciate da Giulio Tremonti, il quale su Il Giornale del 28 marzo ha sostenuto che è stata proprio la globalizzazione ad aver causato la guerra, perché ha spezzato la catena Stato-territorio-ricchezza. La ricchezza è entrata nella repubblica internazionale del denaro e internet è uscito dai forzieri militari. La combinazione della fine dei confini statali e la crescita verticale della rete, con l’aggiunta dell’ideologia globalista, hanno prodotto cambiamenti tanto veloci e intensi da non avere precedenti nella storia. La quarta tesi è stata enunciata oltre due anni fa da alcuni ricercatori. Questi parlarono di esaurimento di un paradigma di sviluppo, (neo)regionalismo, slow-down della domanda estera. A questa conclusione arrivarono avendo misurato che, dopo qualche decennio, la partecipazione delle economie in via di sviluppo alla crescita mondiale non aveva portato benefìci apprezzabili, né tanto meno strutturali, a quelle singole economie. Conclusero che è iniziato un processo di parziale ritorno dalla globalizzazione alla regionalizzazione, dal multilateralismo al bilateralismo, un accorciamento delle catene del valore, una nuova attenzione verso l’integrazione geopolitica di singole macroaree. Questo processo dovrebbe portare verso una maggior integrazione europea. La reazione europea all’invasione russa dell’Ucraina sembra dar ragione a quest’ultima tesi.

 

*noto economista industriale. Ordinario di Economia Applicata a “La Sapienza”














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